“Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia, se già la Signora vestita di nulla non fosse per via”
Torino, 9 agosto 1916, nell’ “ora triste del congedo”, il torinese Guido Gozzano si spegneva a soli 32 anni, consumato dalla tisi, e si univa, definitivamente, alla “Signora vestita di nulla”, presenza costante nella sua opera poetica, fin dal momento in cui gli venne diagnosticata la malattia, simbolo di quella morte che l’avrebbe colto nel fiore degli anni.
Poeta della “malinconia”, poeta delle “buone cose di pessimo gusto”, dei solai, del “ciarpame reietto”, del “dolce paese che non dico”, Agliè, dove amava trascorrere le estati, nella campagna canavesana, e dove venne sepolto, prima nella tomba di famiglia e, successivamente, nella chiesa di San Guadenzio, Guido Gozzano è stato l’artefice di una poesia che si è, fin dall’inizio, contrapposta a quella del “vate” Gabriele D’Annunzio, per la descrizione dell’universo semplice della quotidianità, una quotidianità un po’ sonnolenta dove tutto sembra cristallizzato, stanco, coperto da un velo di polvere, e dove una Torino borghese “un po’ vecchiotta, provinciale, fresca tuttavia d’un tal garbo parigino” viene rievocata, con ironia, per il suo ambiente chiuso e profondamente provinciale, ma anche con un affetto che testimonia il legame del poeta alla propria città natale, quella Torino che racchiude in sè “tutto il mio passato” e dove “i miei ricordi più teneri e mesti dormono in te, sepolti come vesti in un armadio canforato”.
I salotti di Gozzano sono quelli delle ville di campagna, quelli della nonna Speranza, dove il buon gusto è stato bandito e, accanto agli acquerelli di Massimo D’Azeglio, puoi trovare gli scrigni fatti di valve e gli oggetti con il monito “salve” “ricordo”, in cui Loreto impagliato ed il busto di Alfieri, di Napoleone convivono in un bizzarro, ma confortante accostamento.
In questo mondo nel quale il tempo è indefinito, o declinato al passato, al futuro, ma mai al presente, perché, scriveva Gozzano “Adoro le date. Le date: incanto che non so dire, ma pur che di molto passate o molto di là da venire”, si muovono figure familiari, come l’adorata madre o la poetessa Amalia Guglielminetti, con la quale intrecciò una tormentata relazione, come la prozia canuta e lo zio demente, compagni di una solitudine interiore senza rimedio, ma soprattutto un catalogo di uomini e donne cartacei che si trasformano in fantasmi, imprigionati nelle stanze della poesia, e salvati dalla morte attraverso l’arte che li colloca in un universo parallelo dove continueranno a compiere gli stessi semplici gesti, come in una spirale del tempo, vittime di una maledizione che porta con sé il dono e la condanna dell’immortalità.
Opera dopo opera, pagina dopo pagina, Guido Gozzano regala al lettore storie e schizzi, volti come quello di Carlotta, l’amica della nonna Speranza, “nome non fine ma dolce che come le essenze resusciti le diligenze, lo scialle e le crinoline”, la Carlotta di chiara ispirazione goethiana, innamorata in un patriota mazziniano, come quello della signorina Felicita o la Felicità, “quasi brutta, priva di lusinga”, ma con la “faccia buona e casalinga” e “gli occhi fermi, l’iridi sincere azzurre d’un azzurro di stoviglia”, che vive a Villa Amarena, con il padre in “fama d’usuraio”, “quasi bifolco”, che “non fa versi, taglia le camicie per suo padre e non medita Nietzsche”, come quello della Cocotte che “lo baciò quattrenne”, e che giura di “rifare bella come tutte le donne del suo sogno, un sogno nutrito d’abbandono in cui il poeta dichiara: “non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state”, in un afflato malinconico che sfiora il pessimismo e che riprende i versi di Keats di “Ode su un’urna greca”: “Sì le melodie ascoltate son dolci; ma più dolci le non ascoltate”, un inno ai momenti perduti, in netto e consapevole contrasto con il “carpe diem” oraziano.
Nella sua partita a scacchi con la Morte, compagna di strada, Guido Gozzano, cercando il modo di ingannare la Signora vestita di nulla, diventa egli stesso protagonista di quasi tutti i suoi componimenti, interpretandoli in prima persona, intervenendo con le proprie riflessioni sempre velate di una sottile ironia, creando personaggi che sono il suo doppio come Totò Merumeni, il punitore di se stesso di Terenzio, quelle figure che, quando dovrà interrompere il cammino, continueranno a vivere l’esistenza che gli è stata negata e che, in un supremo e geniale atto di sfida al destino, immagina nell’ “Ipotesi”: “Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille d’un giorno d’estate, nel mille e… novecento… quaranta”, poesia nella quale descrive una vecchiaia tranquilla accanto alla “consorte ignorante”, agli amici, lontano dalla città, dalla quale giungono le notizie dei figli, un sogno destinato a naufragare come Ulisse quando sfidò il fato cercando di varcare le colonne d’Ercole, ma, al tempo stesso, a realizzarsi attraverso il potere della letteratura perchè, in quei versi, Guido continua a vivere “in un’antichissima villa del Canavese”, in quel tempo che adesso è coniugato all’infinito.
Barbara Castellaro
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