“Due dozzine di rose scarlatte” apre la stagione dell’Alfieri
La domanda è una sola: sarà capace di reggere davanti ad un pubblico più smaliziato di oggi questa commedia con i suoi oltre ottant’anni di vita? Aldo De Benedetti e Due dozzine di rose scarlatte, un autore che (finché le leggi razziali lo permisero) cavalcava nelle vesti di sceneggiatore la stagione d’oro dei “telefoni bianchi” e per i palcoscenici gli applausi per “Non ti conosco più” o “Milizia territoriale”; un successo in grado di oltrepassare i confini nazionali, fortificato nel 1940 dal film omonimo che segnò il debutto di Vittorio De Sica alla regia, un esempio prebellico pieno di leggerezza, fondato su un gioco degli equivoci e su una intelligente quanto tranquilla sensualità quel tanto che basta, dialoghi e risate costruiti e offerti in punta di piedi. Ebbene, quel testo regge ancora benissimo, eccome, nei dialoghi e nell’incalzare delle sorprese della vicenda, nello smalto che con il tempo non accusa nessuna scalfittura, tenuto al riparo proprio nella leggerezza spensierata di quegli anni, nella sua riposante immobilità, che accusa colpi allorché pecca con la presunzione di cucirgli addosso una colonna sonora onnivora che deborda verso la Berti o Ranieri, mentre resta un piacere difenderla nel proprio tempo e affidarsi alla Wandissima e dintorni. Una tappa indovinata, una scelta oggi spericolata con cui Torino Spettacoli ha aperto la propria stagione all’Alfieri, un appuntamento, per la regia elegante, tutta sospiri e ripicche, di Girolamo Angione, che il pubblico ha gradito tra divertimento e applausi.
“Le catene del matrimonio sono così pesanti che bisogna essere in tre per sopportarle”, ci avvisa il foglio di presentazione dello spettacoli citando Alexandre Dumas. Una coppia felicemente sposata in cui s’insinua ad un certo punto una parola molesta: evasione. Qualche momento di stanchezza in lei, un viaggio in solitaria tra le nevi di Cortina, un tentativo di modesta avventura per lui, don Giovanni sognatore, approfittando di quell’assenza. Tra i preparativi, cui pensa la servetta di casa, Marina intercetta un mazzo di rose che il fedifrago s’è fatto recapitare per poterlo girare alla bellezza che ha scelto, unito ad un biglietto che sfodera la piccola letteratura del tempo in formato Baci Perugina e firmato “Mistero”. Chiaro che Marina ci ricami sopra e che ogni pomeriggio, ad un’ora prestabilita, attenda un identico mazzo di rose come una manna dal cielo, capace di farla uscire dalla noiosa mediocrità ed entrare nella allegra decisione di non partire più. Gli equivoci si susseguono e giungono secondo temporaneo copione alla brusca interruzione di una vita a due, giocando anche la complicità dell’amico Savelli: grazie ad una sua azzardata confessione, nella ricerca di chi si possa nascondere dietro “Mistero”, il castello di carte frana miseramente. Con la tranquillità per lo spettatore che De Benedetti voglia mettere le cose a posto per il futuro.
Leggerezza, dicevamo. E in quella fanno a gara ad accomodarsi Miriam Mesturino, irrequieta consorte, Luciano Caratto che mena il gioco con grande sicurezza ed ineccepibile varietà di toni e Simone Moretto, l’amico vittima e pasticcione. Insomma un successo a tutto tondo, come ai tempi del mitico De Benedetti.
Elio Rabbione
Nelle immagini, Luciano Caratto e Miriam Mesturino; Simone Moretto e Miriam Mesturino in due momenti della spettacolo, fino a domenica 10 novembre in scena al teatro Alfieri
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