Traffico, clacson, semafori rossi, motorini, cemento, e il Turin Palace: imponente, austero, silenzioso.
Un ingresso girevole pare il foulard svolazzante di una donna sfuggente dal taglio sbarazzino, del quale non si indovina il volto.
L‘ingresso luccicante è avvolto da velluto verde petrolio e un alone di seducente mistero; sparendo nell’anonimo ascensore, basta farsi trasportare di sei piani per essere improvvisamente catapultati in un’oasi di pace vacanziera surreale: palme, parquet marittimo, gazebi e tovaglie bianche a lume di candela e un manto verde all’inglese abbracciato dalle candide balaustre ottocentesche.
Luigina, la maitre de Les Petites Madelaines, ci accoglie come il capitano di una nave e percorre con noi la terrazza esotica fino a indicarci il nostro tavolo, che così accomodato accanto allo strapiombo è quasi da vertigine. Ci ritroviamo allora vis a vis con una sorprendente Torino a testa in giù, con i suoi tetti rossi storti e qualche cugina terrazza verde che, complice omertosa, se ne sta a osservare la città indisturbata.
Il menù sposa la vista su Torino con le sue proposte tradizionali piemontesi e allo stesso tempo la tradisce con l’amante anima vacanziera della terrazza proponendo una delicata selezione di piatti marittimi: perfettamente contestualizzato, è difficile scegliere mare o città, sogno o realtà.
Il sommelier de Les Petites Madeleines ci propone un Greco di Lamezia del 2018 che nonostante la giovane età ha la stessa saggezza al gusto di un suo parente più antico: ha un profumo equilibrato, con note di albicocca matura e sentori di agrumi e mela. Un piccolo trio di benvenuto ci stuzzica il palato: tartare di gambero, carne cruda di fassona e un bocconcino di anguria dolcissima; nel frattempo, scende il tramonto. Adesso Torino sembra un teatro e i suoi tetti rossi i teatranti: la terrazza si trasforma così in un palchetto e in un attimo pare di essere i protagonisti di Les Ambassadeurs di Jean Berraud.
Sedotti dalla compenetranza degli universi mare e città, selezioniamo il vitello tonnato con acciughe del mar Cantabrico e sedano riccio, e le capesante con i cetrioli in carpione, zenzero e caviale Pisani Dossi.
Mentre il cielo si fa scuro e viene assorbito dai riflessi del vino nei calici, il cambio di posate d’argento preannuncia i ravioli ripieni di Robiola di Roccaverano e la ricciola scottata in riduzione di Ponzu, zucchine e salsa Nantua. Eccellenti e freschissimi: si dice che lo chef colga personalmente le verdure dall’orto del ristorante per ornare i suoi piatti.
Una leggera brezza e qualche goccia d’acqua accompagnano la conclusione del nostro pasto, così ci spostiamo curiosi nella parte coperta della terrazza, dove consumiamo un paio d’amari e qualche biscottino delicatissimo: qui accalappiamo Lucrezia, che ormai quasi nel cuore della notte ci accompagna nei luoghi deserti dell’albergo, protagonisti di storie e segreti che di giorno sono celati dalla vita mondana.
Nella sala Mollino, per esempio, che è la sala delle colazioni, durante la ristrutturazione del 2015 è stata rivelata dietro alla parete di fondo una preziosissima vetrata dell’800 che riporta i simboli dello zodiaco. La scala alla quale si accede ai piani invece è l’originale scala del 1872, quando il Turin Palace era teatro di balli in maschera e sontuse feste, atmosfera che si respira ancoracome una vecchia canzone, magari cantata da Louis Armstrong o Maria Callas, che soggiornarono qui.
Tutto evoca l’evasione dalla città, dal caos, dalla banalità, in virtù dell’immersione in un mondo sontuoso e riservato, che fuori dalla porta girevole non lascia tracce: se ne intravede solo il foulard, di quella donna sfuggente dal taglio sbarazzino.
Martina Calissano
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