Sugli schermi “Tre ciotole” dal romanzo di Michela Murgia
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
Di una sceneggiatura che a quattro mani è stata tratta dal romanzo che Michela Murgia consegnò all’editore a pochi mesi dalla morte (agosto 2023), vedere l’idolo musicale coreano, sino al giorno prima semplice cartonato, catturato all’ultimo dal ritiro del camion della spazzatura, a cui la protagonista ha consegnato le sue pene d’amore e d’esistenza, uscire dall’armadio di casa, scendere in strada e fare un ciao ciao con la manina verso la finestra della suddetta, beh, quello è il momento più disarmante di uno script che ha già fatto acqua da tutte le parti. La colpa non è soltanto della regista catalana Isabel Coixet, dalle ideuzze striminzite, e del suo collaboratore Enrico Audenino: credo che la colpevolezza risalga a monte, al cattivo lavoro di una coproduzione italiana-iberica, che ha messo in cantiere l’accoppiata Alba Rohrwacher/Elio Germano, entrambi fuori ruolo, scompaginati d’aspetto e di movimenti, di intenti e di piagnistei e di discussioni, lei, su cui maggiormente poggia e pesa l’impianto narrativo – mentre di lui ci si dimentica abbastanza presto, accantonato com’è, risarcito più o meno con un fervorino nel finale – come poche altre volte monocorde, con le stesse facce e intonazioni, quelle che le abbiamo visto in un curriculum troppo fitto, un’attrice osannata (e impegnata cinematograficamente) più del dovuto, di cui già sei preparato a ogni singolo atteggiamento e sguardo.
Marta, insegnante di educazione fisica in un liceo romano, bisticcia per un niente che le stravolge la vita con Antonio, chef in un ristorantino che vuole emergere a tutti i costi, e lui la lascia. Chiaro che Marta se la passi male e, siccome se Atene piange Sparta non ride, anche lui non gode di ottimo umore, fornelli a parte e una stagista che se lo fila quel poco. Marta si chiude sempre più in se stessa è lì ad affrontare un dolore sconosciuto, gira per la casa vuota, guarda (e noi con lei) le tracce dove prima era appeso un quadro e cincischia perennemente con quelle “tre ciotole” del titolo che, il giorno che fu ovvero la strada che fu un dì dell’allegria, il supermercato aveva omaggiato a entrambi. Oppure, nelle idee della Coixet, la vita s’anima di filmini in super8, quando l’unione era felice e i nostri correvano sotto la pioggia ridendo e gocciolanti, quando il collega di filosofia (Francesco Carril, che ci pare il più sincero), che scomoda pure Ludwig Feuerbach e il “noi siamo quello che mangiamo” pur di metterle un po’ di pepe addosso, le fa gli occhioni dolci dolci e recupera una cena a casa di lei – con l’ormai frusto uso delle famose tre ciotole a reggere ricette e cibi inventati dall’altro, il convitato di pietra, l’indaffarato Antonio che accontenta il turista americano rifilandogli un hamburger al posto di una tartare – con prolungati baci al posto del dessert, o l’invito per una pizza dell’affettuosa sorella o l’ultimo abbraccio con Antonio, sulla sponda dell’isola Tiberina, dove nemmeno quello è capace d’esprimersi appieno, con un vistoso scivolone di Germano; o ancora con la macchina da presa che ci dà dentro a inseguire le forsennate biciclettate dell’eroina, che ha tutta l’aria di una Duplessis del nuovo millennio. Laddove quelle corse in bicicletta e altro ancora fanno sì che la regista impieghi, invece di concentrarsi maggiormente sul dramma che avrebbe tutto l’obbligo d’essere il corpus della narrazione, troppo del suo tempo – complessivi 122’ – a girovagare per la città eterna, per carità bella bellissima, dove ognuno s’attarda a lasciarci il cuore, ma non qui, a cominciare da certi “stormi di uccelli neri nel vespero migrar” che aprono e chiudono, e poi il cupolone e Trastevere, il Gasometro all’Ostiense e i ruderi, e le fontane e le piccole piazze, le stradine verso casa e i portoni che vorrebbero proteggere.
Poi tutto esplode, al di là della tristezza e della sperata rigenerazione tutto esplode, un tumore al quarto stadio – con tutto il panorama autobiografico che ne consegue, le pagine e gli ultimi incontri della Murgia hanno insegnato -, le terapie che hanno la faccia d’aiutare ma che non faranno nulla, per cui sarà inevitabile andare verso una morte, lasciando agli altri, agli amici agli ex a chi forse poteva costruire una nuova storia, una casa ormai vuota. Nel tentativo di renderci complici della storia, ma non arriviamo mai a esserlo – e non per cuore indurito – e di costruire la vita (e le vite) che scorrono attorno alla protagonista, nel proprio grande arrembaggio alle storie che compongono l’omonimo romanzo della scrittrice scomparsa, Coixet ha pasticciato e truccato malamente il mondo scolastico e giovanile, la solitudine, la ragazzina che non è ancora pronta a sapere cosa esattamente vuole negli affetti e nella vita, la rabbia e le piccole tappe che maldestramente sono mantenute qui come riempitivi, a cominciare da quella che è vista come l’intrusione più vistosa, i sospetti e la scoperta, guardandole dall’alto, in un cesso scolastico, di due ragazze con l’abitudine di tagliarsi le braccia. Un’occasione imposta, alla spicciolata, gettata lì alla rinfusa, che non ha affatto il tempo per essere sviluppata. Imbarazzante, inconcludente, spropositata. D’intralcio. Troppe cose si rivelano scontate o estremamente deboli e se di una cosa siamo sicuri è che la regista (con gli attori) non ha reso un buon servizio alla scrittrice e alla sua dolorosa pagina scritta.