Un sorso di poesia nel “lago etiliko” di Giorgio Rava

S’intitola “Lago etiliko” la silloge con la quale Giorgio Rava, artista del lago d’Orta, in cinquanta poesie e dodici disegni svela una parte della sua vena poetica, mostrando quel tratto intimo e un po’ naif che molti conoscono e apprezzano

Presentata da uno scritto molto arguto dello scrittore e sceneggiatore Matteo Severgnini, la raccolta poetica di Rava stupisce piacevolmente

Nelle sue poesie si sente il blues del lago, ritmato dall’autore attraverso la sua anima in “Akkordo in George”, confessando l’avvertire sulla pelle “i diavoli blu”, lasciando a chi legge la possibilità d’immaginarne l’accompagnamento musicale. Nel suo viaggio s’incontra la “signora del Fado”, la bella Amalia Rodriguez, nata nel quartiere operaio di Alcantara, a Lisbona in un imprecisato giorno del 1920, nella “stagione delle ciliegie” e, accanto a lei, i bambini rom ( in “Ancora bambini del vento”) e i naufraghi dell’immigrazione ( in “Annegati”), quel popolo dei barconi e delle carcasse del mare che fuggendo da guerra, fame e miseria spesso si trova a respirare non la libertà ma l’acqua del mare, affogando davanti alle nostre coste.

Ci sono in “Lago etiliko” luoghi ,volti,storie narrate brevemente come fossero epigrafi. E c’è il vino, il nettare degli Dei che scioglie la lingua e regala allegria e tristezza, accompagnando solitudini e canzoni che risuonano in fumose stanze di vecchie osterie. Ne il “Barolo” è l’anima a sciogliersi mentre il suono secco dello schiocco della lingua sul palato riecheggia in “Drink invernale” per lasciare il passo alla trama corposa, robusta, forte de “Il grande nero”, omaggio a Baudelaire e alla sua massima : “chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere”. Giorgio Rava, da artista a tutto tondo qual è, scrive, scolpisce, disegna. Ama il cielo, che scruta come poeta/astronomo e lo racconta in “Orione”; ama il suo lago d’Orta e ciò che vi si trova dentro e attorno, dagli annegati con le loro “bolle argentine dell’ultimo respiro” al moto ondoso impresso al lago dalle correnti e dai venti, dai vecchi pali degli attracchi alle brume gelatinose del mattino e, talvolta, della sera. Splendida la sua “Ode del suicidio lacustre” dove si legge lo stesso legame con il Cusio che contraddistinse il poeta ortese Augusto Mazzetti quando declamava “o lago, lago..sciogliersi infine in te per essere pescato un giorno come antico luccio”. Per Rava la simbiosi con l’acqua del lago avviene quando “…come piatto ciottolo, esaurita l’energia del braccio, scenderò dondolando dolcemente nelle profondità”.

Spesso i poeti più famosi hanno scelto, prima e dopo Baudelaire, di declamare in versi, nelle osterie, denunciando una certa propensione alla buona tavola e al buon vino. Come Rava che scrive in “Soffro”: “i bicchieri si svuotano ad uno ad uno, e il lapis corre impazzito sul foglio di neve”. Quasi un’ode, un’esortazione a seguire la traccia di uno dei tanti componimenti che Baudelaire dedicò al vino, quella “Poison” (il veleno) contenuta ne Les fleurs du Mal dove afferma che il vino “sa rinvestire la più sordida stamberga di un lusso miracoloso, fa sorgere più d’un favoloso portico nell’oro del suo rosso vapore, come un sole che tramonta in un cielo nuvoloso”.

Marco Travaglini

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