Storia e storie / Il viaggio nei lager del Terzo Reich in Turingia, regione della Germania centro-orientale, inizia con la visita del campo di concentramento di Buchenwald , a circa otto chilometri da Weimar, dove tra il 1937 e il 1945 venne istituito uno dei più importanti campi di prigionia e di sterminio nazisti sul suolo tedesco.
Buchenwald fu un luogo di morte e sofferenza collocato a qualche chilometro dalla città che, tra il 1700 e il 1800 fu la culla della cultura europea. A Weimar, infatti, vissero Johann Sebastian Bach, Wolfgang Goethe, Friedrich Schiller, Franz Liszt, Richard Wagner e Friedrich Nietzsche. In questo campo, costruito sulla boscosa collina dell’Ettersberg (Buchenwald significa letteralmente “bosco di faggi) vennero internati circa 250 mila uomini provenienti da tutti i paesi europei e un quinto di loro non sopravvisse. A Buchenwald morì anche la principessa Mafalda di Savoia. Sul cancello principale d’ingresso la scritta “Jedem das Seine“, “A ciascuno il suo“, appare come un duro monito per i prigionieri che, nei primi tempi, furono gli oppositori politici del regime nazista, i cosiddetti antisociali, gli ebrei, i testimoni di Geova e gli omosessuali. A Buchenwald era stato un ruolo non secondario nel progetto di sterminio di massa organizzato dal regima nazista: infatti qui si svolgeva la selezione dei prigionieri che sarebbero stati inviati nei campi di concentramento. All’interno del campo si perpetrarono, nel corso degli anni, grandi orrori: le uccisioni in massa dei prigionieri, le morti degli internati prostrati dai lavori forzati, dalle malattie e dalla mancanza di cibo, gli esperimenti dei medici, gli abusi delle SS. Tra i delitti più efferati si ricordano quelli di Ilse Koch, la moglie del comandante del campo, ribattezzata la “strega” o la “iena” di Buchenwald. In pieno delirio feticista fece scorticare la pelle dei prigionieri che avevano tatuaggi e dopo averla fatta conciare la utilizzò per farne copertine di libri e paralumi.
Gli alleati liberarono Buchenwald l’11 aprile 1945 quando, dopo la fuga dei nazisti, il campo era già in mano degli stessi deportati e un comitato clandestino internazionale ne gestiva democraticamente la vita. Quando i soldati dell’89ª Divisione di Fanteria della Terza Armata statunitense entrarono nel campo vi trovarono oltre 20 mila persone, tra cui circa quattromila ebrei. Il fatto che il campo fosse stato liberato dagli stessi deportati consentì di evitare la distruzione da parte dei nazisti in fuga dei documenti, come è, invece, accaduto in altri luoghi. Gran parte del materiale conservato a Buchenwald permise di istruire il processo di Norimberga. Dopo la divisione della Germania nella zona Ovest e in quella Est, Buchenwald si trovò nella DDR e fu riaperto tra il 1945 ed il 1950 dal governo sovietico che ne affidò l’amministrazione alla polizia segreta dell’NKVD, trasformandolo in “campo speciale” per oppositori dello stalinismo ed ex-nazisti. La maggior parte del campo fu poi demolito, lasciando intatti solo il cancello principale, l’ospedale interno, due torri di guardia e il forno crematorio. Dopo una breve visita a Weimar, il cui nome è associato all’omonima “Repubblica”, nome dato al governo della Germania nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale alla presa del potere da parte dei nazionalsocialisti nel 1933, si raggiunge Dora Mittelbau, lager nazista presso Nordhausen, sempre in Turingia, a sud dell’Harz, la più settentrionale delle catene montuose tedesche, dove si racconta riposi, in una grotta, Federico Barbarossa. Il nome femminile non deve trarre in inganno: in realtà si trattava delle iniziali della Deutsche Organisation Reichs Arbeit, l’organizzazione del lavoro tedesca. La sua costruzione, nell’estate del 1943, fu decisa personalmente da Hitler allo scopo di produrvi le “Wunderwaffen” naziste, le armi segrete delTerzo Reich, scelta fatta in seguito alla distruzione della base di Peenemünde, nella parte più orientale della costa tedesca sul mar Baltico, bombardata tra il 17 e il 18 agosto del 1943 dalla Royal Air Force britannica. Secondo alcune testimonianze, le ricerche nelle gallerie di Dora dovevano rappresentare l’estremo tentativo di cambiare le sorti della guerra, grazie alle sperimentazioni e allo sviluppo dei programmi missilistici delle micidiali V1 e V2. Una descrizione precisa del campo venne fornita da Charles Sadron, deportato a Dora dal febbraio del 1944 all’aprile dell’anno successivo, che scrisse: “Il campo è concentrato sul fondo di un vallone incupito dalla foresta di faggi, di betulle e di larici, che copre i suoi versanti. Uno dei quali, a Nord, costituisce il fianco della collina sotto la quale sorge l’officina. […] Due grandi tunnel, designati dalle lettere A e B, paralleli all’apparenza, di circa 3 km di lunghezza e orientati da Nord verso Sud, traforano la collina da parte a parte. Questi due tunnel principali sono collegati fra loro da una quarantina di gallerie…”. Da quei lunghi tunnel, collegati con un sistema di numerose gallerie minori, uscirono quasi seimila micidiali V2. Si trattava di un lavoro massacrante per le migliaia di deportati, costretti a vivere in condizioni disumane nelle caverne, senza vedere la luce per mesi. Tra la fine dell’agosto del ‘43 e l’aprile del ’45, nei venti mesi della sua esistenza, transitarono da Dora 60mila deportati, dei quali circa 20mila persero la vita. Tra di essi vi furono 1.500 italiani, deportati politici e anche militari trasferiti lì in spregio ad ogni convenzione internazionale sui prigionieri di guerra. Quasi un terzo di loro vi trovò la morte. Tra loro anche i sette alpini furono fucilati a metà dicembre del 1944 per aver contestato le condizioni disumane alle quali erano costretti dai loro carcerieri. Alla metà di aprile del 1945 le forze armate americane liberarono il campo, all’interno del quale lavorarono anche importanti scienziati nazisti. Dopo la guerra, fatte saltare le gallerie e trasferiti negli Usa e nell’Urss centinaia di scienziati, su Dora cadde il silenzio. I primi ad arrivare furono gli americani ai quali si consegnò la mente scientifica del progetto, l’ingegner Wernher von Braun, giovane genio della missilistica e maggiore delle SS. Von Braun passò con i suoi piani di costruzione delle V2 e con tutti i suoi ingegneri al servizio degli Usa, con la garanzia dell’asilo e della cancellazione dei crimini di guerra. Di Mittelbau Dora si “dimenticarono” anche i processi di Norimberga: fu unico lager che non venne citato. L’oblio del campo di Dora Mittelbau durò fino alla caduta del muro di Berlino e alla riunificazione tedesca. Attualmente le gallerie sono in parte visitabili e accanto c’è un memoriale. Il lungo silenzio, però, pesa come un macigno. Molte testimonianze sostengono che sia stata la conseguenza dell’invenzione delle V2, antesignano dei missili balistici (nel 1969 l’uomo arrivò sulla Luna spinto dal razzo Saturno 5, progettato sotto la direzione di Von Braun: di fatto, l’evoluzione della V2) .
La tecnologia nazista, molto avanzata per l’epoca, favorì la conquista dello spazio da parte di americani e russi, ed entrambi non avevano nessun interesse a ricordare ciò che aveva tragicamente preceduto le loro imprese. In quell’inferno sotterraneo, nel freddo umido di quelle gallerie fiocamente illuminate, tra i rottami dei razzi, si percepisce ancora l’enormità del dolore e della sofferenza di chi non vide la luce nel più duro campo di lavoro forzato del regime della svastica. E’ questa la memoria che resta e che non può essere dimenticata. A testimoniarla, per molto tempo, fu Albino Moret. Trevigiano d’origine, si era trasferito giovanissimo con la famiglia a San Mauro Torinese. Alpino nella Divisione Taurinense, all’ armistizio si trovava sul fronte jugoslavo. Scelse subito di combattere i tedeschi, fu catturato e rifiutò di arruolarsi nella Repubblica di Salò. Per questo fu deportato a Dora. Moret venne liberato nel maggio ’45 a Ellrich, un sottocampo del lager di Buchenwald. Non dimenticò mai quell’orrore e fino all’ ultimo dei suoi giorni testimoniò ai giovani e nei viaggi della memoria la tragedia dei campi di sterminio, insegnando a tanti l’importanza di non dimenticare. Perché, come ammoniva Primo Levi, occorre meditare “che questo è stato”.
Marco Travaglini
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