Giovedì 9 maggio Paolo Rumiz ha presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino il suo ultimo libro “Il filo infinito”, il racconto di un viaggio tra i monasteri benedettini che porta lo scrittore triestino a contatto con la storia di uomini straordinari che hanno rifondato l’Europa in un momento di grave crisi, ricostruendo un continente lacerato dalla caduta dell’impero romano. Il “Viaggio alle radici dell’Europa” nasce quasi per caso, due anni fa, durante un altro viaggio, quello nei territori feriti e martoriati dal terremoto. Rumiz, giunto a Norcia, entra nella piazza principale e si trova di fronte ad uno spettacolo che lo colpisce: le due chiese sono crollate e distrutte, ma è rimasta intatta la statua di San Benedetto, patrono d’Europa. Nella notte lo scrittore cerca informazioni su un santo che non conosce, su un uomo dell’Appennino che, con la sua regola, ha avuto la forza di rifondare un Occidente in decadenza e travolto dalle invasioni barbariche, riuscendo a convertire e a rendere sedentarie popolazioni affamate di cibo e di guerra, per nulla paragonabili ai poveretti che, oggi, cercano rifugio nei nostri territori, attratti dalla speranza di un domani migliore. L’idea di un viaggio tra i monasteri d’Europa nasce dalla necessità di un triestino, laico, magiapreti, di comprendere come, in un momento molto più difficile di quello che il nostro continente sta vivendo oggi, in anni in cui l’Europa stava attraversando un periodo estremamente buio, un gruppo di uomini sia riuscito, attraverso il lavoro, la preghiera, il silenzio, la cultura e soprattutto il cibo a ricostruire un mondo che sembrava morto, integrando popolazioni diverse e conquistandole con una Regola che è quanto mai attuale. Il percorso tra quindici monasteri collocati in sette nazioni viene scandito da susseguirsi di incontri perché quello che rende unico un viaggio non sono i luoghi che si visitano, ma le persone nelle quali ci imbattiamo durante il cammino.
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Tra le pagine di questo libro che diventa una ricerca di una soluzione che ci consenta di ricostruire, ancora una volta la nostra Europa, Rumiz ci accompagna a conoscere persone straordinarie come l’abate Wolf “padrone di undici lingue, amante della musica, studioso di teologia, filosofia, zoologia, chimica e astronomia, missionario in Africa, insegnante al pontificio ateneo di sant’Anselmo a Roma, autore di una trentina di libri” che si rivela un uomo di una semplicità disarmante quando confessa candidamente “siamo contadini”, sottolineando come i benedettini compiono una rivoluzione culturale quando, primi uomini liberi, prendono in mano una zappa e iniziano a lavorare la terra, creando un sistema economico. L’abate conduce Rumiz a visitare gli orti, le stalle e, infine, il cimitero tripartito: da una parte riposano i soldati della Wermacht, in un’altra gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio e nella terza i monaci che dormono sotto piccoli cumuli di terra smossa, sormontati da una croce di ferro che indica il mestiere che fecero in vita. In questo luogo di pace l’abate Wolf indica la propria tomba, già pronta, un cumulo che viene ad innaffiare ogni giorno, non un “memento mori” tragico, ma un simbolo di speranza perché i benedettini non pensano “troppo all’eterno nel senso orizzontale della durata. Immaginano l’istante in cui si siederanno al tavolo delle nozze”. Tra musica celestiale, manoscritti antichi e preziosi, incontri straordinari Rumiz giunge a comprendere che questi uomini sono stati capaci di costruire un mondo in grado di dialogare con il laico in un momento in cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo sull’Europa e sono queste le radici dalle quali dobbiamo partire. Soltanto facendo nostra e attualizzando una lezione che parla di accoglienza, di integrazione, di speranza, di lavoro, potremo salvare e rifondare questa Europa che si sta disgregando sotto i nostri occhi. Bisogna ripartire dal mito di Europa, la fanciulla che Zeus, trasformatosi in un toro bianco, rapì e portò attraverso il mare fino all’isola di Creta. Europa fu la prima migrante della storia ed è il suo destino essere punto di arrivo per i popoli, essere luogo di dialogo, di convivenza, di democrazia perché anche nei momenti più difficili “democrazia” significa speranza che anche il più debole, il più misero degli esseri umani possa vincere contro un potente.
Barbara Castellaro