Nessuno aveva idea da dove venisse quell’uomo allampanato, magro come un chiodo. Il volto, incorniciato da una rada barba grigia, era illuminato da due vivaci occhi neri, che luccicavano al riparo dalle folte sopracciglia. Parlava poco ma in quel poco dava prova di una grande padronanza della lingua che usava con una dizione praticamente perfetta, da accademico. Un fatto, questo, che rendeva ancor più stridente il contrasto con la sua figura dimessa, infagottata nella lunga e lisa marsina con le grandi tasche sformate dall’uso. A tracolla portava una piccola cassetta di legno con colori e pennelli e , sottobraccio, un seggiolino pieghevole e alcune tele. Sul lago apparve sul finire dell’estate che, come capitava spesso dalle nostre parti, tra un temporale e l’altro, aveva ceduto ben presto il passo ad un anticipato autunno. Nell’aria si avvertiva già quel sapore d’ottobre quando nelle ore del meriggio l’aria rinfrescava portando in giro quei profumi di terra bagnata, muschio e funghi che s’accompagnavano all’arcobaleno di colori morbidi e caldi che si confondevano nel giallo e nell’arancio, nel marrone e nel rosso delle foglie.
Vincent si soffermava a guardare la natura e i giochi di luce, sedendosi al margine di un bosco oppure su una panchina del lungolago, guardando le isole e oltre, dalla parte opposta dov’era la “sponda magra” del Maggiore. A Vincent piaceva quel lago dall’anima volubile, simile in tutto e per tutto a quella di una donna di carattere e spirito. Amava quei colori pastello che salivano dalle morbide e azzurre onde al verdazzurro dei dorsi di monti alle spalle di Luino, Laveno e più in giù, tra l’’Eremo di Santa Caterina del Sasso Ballaro e la rocca Borromea di Angera. Colori che, all’improvviso, potevano mutare in tinte scure e minacciose sotto i venti impetuosi, mugghianti delle tempeste. Era un mondo che lo incuriosiva, popolato da gente di frontiera, battelli che solcavano le acque e orizzonti racchiusi tra le montagne. Era un solitario e apprezzava i silenzi e quella riservatezza fatta di sguardi complici e di parole annodate alle brezze della tramontana e dell’Inverna. Ma Vincent, più di ogni altra cosa, amava le stelle. Le dipingeva quando comparivano e prima che sparissero. Per ogni alba che schiariva il cielo, accompagnando gli ultimi astri al riposo o per ogni firmamento pieno di lucenti stelle, Vincent aveva occhio e cuore nel trasferirne l’emozione sulla tela, in colori e delicati colpi di pennello.
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Il fornaio, Degrande, guardando i quadri, sospirava ogni volta, ripetendo : “Se esiste il pan di stelle, qualcuno l’ha sbriciolato in cielo. Guarda come pulsano vive, brillano luminose. Mamma mia, che belle!”. E assestava una manata di compiacimento sulle spalle di Vincent, lasciandogli la sua infarinata impronta sulla giacca.Prima di arrivar lì, in primavera si era fermato sulle colline del Monferrato per non perdere l’appuntamento con le Liridi che ogni anno, a metà aprile, sciamavano per il cielo con la loro cascata di stelle cadenti. “Quel nome strano”, diceva a chi lo ascoltava incuriosito,”lo prendono dalla costellazione della Lira, dove appaiono, tra Ercole e il Cigno. Uno spettacolo di piccoli frammenti luminosi che, entrando nell’ atmosfera, si disintegrano in spettacolari fiammate”. Poi, più per onorare la tradizione che per altro, causa il brillare della luna piena, il 10 agosto – la notte di San Lorenzo – erano saliti fino all’alpeggio della Scèrea per osservare lo sciame meteorico delle Perseidi. Nonostante fossimo stati graziati dal tempo in quell’estate che pareva un autunno, il cielo era così luminoso da rendere quasi impossibile vedere qualche scia di stella cadente. Infatti, solo l’Audenzio Marchelli, ad un certo punto, gridò “Ne ho vista una! Un bolide! Grossa!”. Ma la vide solo lui e forse quel litro di Barbera che si era scolato da solo alla Casa del Popolo aveva contribuito più del dovuto a far sì che vedesse ciò che non apparve agli sguardi degli altri. Ad ogni modo la traccia lasciata dalle Perseidi che attraversano i nostri cieli si poté vedere, in misura minore, fino a oltre la metà di agosto. Ma furono poche, isolate apparizioni. E siccome era noto che è meglio essere sdraiati piuttosto che seduti, armandosi di pazienza poiché gli occhi hanno bisogno di un po’ di tempo per adattarsi al buio e vedere meglio ciò che accade nell’oscurità del cielo, ai due fratelli Sgranocchi capitò di finire nel prato delle vacche del Carlin.
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Lunghi e diritti, distesi in mezzo ai “boasc”, le “boasse”, le cacca delle mucche. E ci vollero un bel bagno nel Selvaspessa e un paio di “giri” nel mastello con la lisciva – loro e i loro vestiti – per togliersi di dosso quel “profumo” che non era certo di violetta. Intanto Vincent, notte dopo notte, dipingeva. E di giorno, s scriveva sul suo quaderno nero dalla copertina di cartone sottile, con l’etichetta appiccicata, bianca e rossa, dai bordi frastagliati come quelli delle fotografie di un tempo. Ci scriveva ogni cosa e serviva a tante cose. Lo usava come “segna conto”, dove il signor Lipelli riportava la spesa che avrebbe dovuto pagare alla fine della settimana o del mese; vi riportava le impressioni dei suoi viaggi e degli incontri che gli capitava di fare, fissandoli sui fogli per non disperderne la memoria. E, soprattutto, riportava alcune frasi che l’avevano colpito. Una più delle altre. Questa: “…guardare le stelle mi fa sempre sognare, così come lo fanno i puntini neri che rappresentano le città e i villaggi su una cartina. Perché, mi chiedo, i puntini luminosi del cielo non possono essere accessibili come quelli sulla cartina della Francia?”. Queste parole, scritte da Vincent Van Gogh in una delle famose lettere al fratello Theo, rappresentavano un’ulteriore conferma del fascino che quei “puntini luminosi” esercitavano anche sul “nostro” Vincent.
Molti quadri di quell’artista straordinario e maledetto erano costellati di quei “puntini luminosi” sospesi nel blu e nel nero della notte che solo all’occhio inesperto potevano sembrare messi lì a caso dalla fantasia del pittore olandese quando invece erano frutto di una scelta ben precisa. E qui Vincent s’infervorava, dimenticandosi d’essere taciturno. Raccontava ,ad esempio, com’era nato la Notte stellata sul Rodano, uno dei suoi quadri più celebri. Quando iniziò a lavorarci nel 1888, cioè prima di incontrare Paul Gauguin, Van Gogh si trovava già nella città di Arles, dove tra le sponde del fiume Rodano scoprì un punto adatto per rappresentare un soggetto che lo rende particolarmente felice. «Sto lavorando […] a uno studio del Rodano, della città illuminata dai lampioni a gas riflessi nel fiume blu. In alto il cielo stellato con il Gran Carro, un luccichio di rosa e verde sul campo blu cobalto del cielo stellato, laddove le luci della città e i suoi crudeli riflessi sono oro rosso e verde bronzeo…», scrisse infatti il pittore.
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Ma c’era di più. “Un astronomo è persino riuscito a stimare l’esecuzione del quadro in una notte compresa tra il 20 e il 30 settembre 1888 alle ore 22;30 grazie a un a ricerca accurata della posizione dei “puntini luminosi“, disse Vincent. Incuriosendoci,aggiunse: “E notò persino un piccolo errore: la costellazione dell’Orsa Maggiore, rappresentata sopra le luci della città, appare infatti deformata, cosa che farebbe supporre una pausa di almeno quaranta minuti nell’esecuzione dell’opera, essendo il cielo notturno mutato col trascorrere del tempo. Forse il pittore si è dedicato ad altro, per poi riprendere il lavoro e fissare “erroneamente” le rimanenti stelle in una posizione diversa. Non è incredibile,eh?”.Scuotendo la testa, sedendosi su una vecchia pietra miliare, sospirò: “Non avremo mai certezze sulla ragione che spingeva Van Gogh a rappresentare su tela quei “puntini luminosi” incisi, appunto, come su di una cartina geografica in cielo, ma a giudicare dalla passione con cui noi artisti e pure gli scienziati scrutano il cielo potete almeno intuirlo anche voi”. Non lo disse ma s’intuì il suo pensiero su Van Gogh, alla ricerca di Dio nel cielo stellato, tormentato dal “male di vivere” tant’è che, in una lettera, scrisse “Se prendiamo il treno per andare a Rouen o a Tarascona, possiamo prendere la morte per andare in una stella”. Così, scacciati i pensieri, ci siamo dati appuntamento per la notte del 14 dicembre, nella parte alta della “Tranquilla”, a nord di Oltrefiume, in vista della cava di granito. Lì, con gli sguardi rivolti al cielo, a rincorrere le traiettorie delle stelle cadenti d’inverno, le Geminidi. Si sarebbe potuti venire anche qualche giorno più avanti, aspettando il rientro di Paolo dal nord Africa dove si era recato ( mi pare in Algeria) sei mesi prima per ragioni di lavoro, ma il rischio era alto. Lo sciame era visibile fino al 19 dicembre ma occorreva evitare che venisse penalizzato dalla Luna molto ingombrante. E già ad agosto eravamo rimasti con un palmo di naso, a guardar per aria quel cielo illuminato a giorno. ”Le Geminidi in genere non deludono mai, sono le stelle cadenti più belle dell’anno, più suggestive delle Perseidi di agosto per intensità, luminosità, colori”, diceva Vincent.
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E lo spettacolo fu davvero memorabile. Una straordinaria cascata di stelle che disegnarono traiettorie da una parte all’altra del cielo. E andò avanti per tre notti, visibile anche in riva al lago, dove stavamo lì tutti: noi a guardare, Vincent a dipingere. Tutti infagottati per ripararci dal freddo pungente. Ogni tanto si “riparava” nel bar dell’Imbarcadero. Dalla radio accesa del bar udimmo una canzone “..l’estate prendeva una piega di nuove speranze.. cadevano stelle come fosse l’ultima notte felice del mondo.. l’ultima notte importante per dimenticare di essere soli..di essere soli da sempre”. Il titolo, che l’annunciatrice aveva quasi sospirato, era poesia pura: “Le stelle cadono nella notte dei desideri”. Ci scoprimmo a farci delle strane domande. “Ma dove cadono, le stelle? E che rumore fanno? Forte? O solo un fiato di vento, leggero, leggero? Dove cadono le stelle?”. Franco Splolito, l’amico poeta, non perse l’occasione. Fece un lungo respiro. Socchiuse gli occhi e allungò il braccio destro, aprendo la mano.
E declamò. “ Cadono le stelle e non fanno rumore, affascinanti scie luminose che solcano il cielo, in attesa di essere raccolte per dar luce ai nostri desideri …Fiammelle tenuti nella nera notte,illusioni fatue per chi speranza più non ha e per chi alla speranza non rinuncia…Lucciole che brillano, indistinto chiarore di un sogno cercato, voluto, sperato. Stelle luminose, che nell’universo sono le gioie più preziose..”. Alvaro, con le lacrime agli occhi per la commozione, applaudì. E anche Ugo, Filiberto e Giovanni batterono le mani. Jolanda, invece, nascondendo il volto in un fazzoletto, sospirò un appena percettibile “ grazie, Franco”. Lui, dopo un rapido inchino, guardò Vincent e disse: “Amici miei, è questo nostro artista che va ringraziato. E’ lui che, con pennelli e colori, da corpo ai nostri sogni”. Qualche mese dopo, ai primi annunci di primavera, una mattina, passando davanti all’osteria del Gallo Nero, non lo vedemmo seduto sulla panchina dov’era solito riordinare la sua borsa degli attrezzi. Chiedemmo dove fosse, ma nessuno sapeva la risposta. Forse se n’è andato giù al lago a dipingere.. Forse è dall’Ugo, a scegliere dei colori.. O dalla Maria dell’Osteria dei Gabbiani, dai. Si è sempre saputo che per la Maria aveva un debole, no? .. Ma lui non era in nessuno di questi posti e nessuno l’aveva visto o incontrato. Solo il vecchio Samuele disse che gli era parso di vederlo andar via, a notte inoltrata, sulla strada verso Stresa. Ma lo sapevano tutti che a Samuele piaceva bere e che la sera era talmente “carburato” da scambiar lucciole per lanterne.. Fatto sta che passo l’intera giornata e verso sera di lui non s’era vista nemmeno l’ombra. Vincent non c’era più. Se n’era andato, In silenzio. così com’era arrivato quasi un anno prima. Erano solo rimaste, in cielo le stelle. Tante, belle ma meno luminose del solito. Quasi fossero tristi. Ma le stelle, possono essere tristi? Vincent avrebbe risposto che forse sì. O forse no. Alzando un poco le spalle, inarcando le sopracciglia, abbozzando un sorriso. Ma Vincent era ormai lontano.
Marco Travaglini
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