Anche lo stakanovista Lulù Massa prima o poi raggiunge il paradiso

(Ri)parlare, teatralmente, di lavoro, che cosa strana. Andare a ricercare l’antica classe operaia, oggi affievolita, qualcuno azzarderebbe inesistente, prendere fiato e spinta e costruzione da quella Classe operaia va in paradiso – il punto centrale della “trilogia della nevrosi” – che Elio Petri (con in testa la sempiterna coppola) con l’aiuto fidato di Ugo Pirro scrisse e diresse nel 1971, premiato a Cannes con il Palmarès l’anno successivo – ex aequo con Il caso Mattei di Francesco Rosi: era l’epoca dei grandi nomi, dei nomi importanti e forti, del cinema che avvolgeva e faceva discutere, che si rispecchiava necessariamente nella società – e sgradito al pubblico e a molta critica all’uscita sui nostri schermi, giudicato eccessivo e sgradevole, sgradito a molta parte della sinistra più ferrea, tanto esasperante che “qualcuno non mancò addirittura di invocare il rogo di tutte le copie della pellicola”. Ritornare a quell’affresco di circa cinquant’anni fa, ha deciso Emilia Romagna Teatro, affidando la nuova scrittura a Paolo di Paolo e la regia a Claudio Longhi, rifotografare un’epoca senza incorrere (troppo) nell’uso dello spazio angusto dell’operazione archeologica, che non ci interesserebbe davvero più, ma controllare con gli occhi di oggi (con la nostra società) se vi possano essere dei ricordi, delle piccole tragedie, dei momenti grotteschi, delle scorie che ci ricordino quel Lulù Massa che aveva la faccia indimenticabile di Gianmaria Volonté.

Un racconto di operai e di pezzi prodotti, di pugni alzati e di scioperi, di padroni e di impiegati messi ad una spanna da te a contarti il tempo, di ideologie contrastanti, di un buongiorno dato dall’altoparlante ma solo per ricordarti che il sole non lo hai visto entrando in fabbrica e nemmeno lo vedrai uscendo, ore e ore chiuso lì dentro. Un sacerdote del cottimo, quel Lulù Massa lì, produrre produrre produrre, la sua personale lotta con il sindacato, i dissidi con i compagni di lavoro, la sua non vita con la Vanda, gli amplessi straveloci in macchina, con i piedi incollati contro il parabrezza, l’incidente con il dito mozzato, un’altra visione della vita e del lavoro, la consapevolezza di essere un ingranaggio tra i tanti, tra i tutti, di far parte della grande Macchina che ti schiaccia. La figura del crumiro, dello stakanovista a tutti i costi che abbraccia i diritti dei lavoratori. E in fondo al tunnel c’è il vecchio Militina, che ha già percorso tutta quanta la vecchia strada, con i suoi sogni di lucidità e di pazzia, con il suo paradiso intravisto e forse alla fine raggiunto. C’è la politica chiusa lì dentro, ma c’è anche la storia di un paese che non è scampata anche oggi a quei ritmi, magari li nasconde nei “lindi, asettici uffici dell’odierno proletariato dei call center” o nelle corse in bicicletta di quei ragazzi che armati di zaino ti recapitano la pizza a casa. E allora bisogna raccontarlo tutto quel mondo antico che si riallaccia con il presente – si è detto Paolo di Paolo, che certo abbandona l’idea della sintesi in questa sua Classe vista al Carignano per la stagione dello Stabile torinese e in scena sino al 18 novembre -, anche con il pericolo bulimico di immettere a forza immagini e suggestioni oltre il dovuto, di creare nuove scene o rimandi a una letteratura che scomoda il Memoriale di Volponi o il selezionatore Donnarumma di Ottieri, di ripercorrere più e più volte i titoli di coda del film o gli apporti della critica non benevola, le discussioni (con gli autori seduti su quelle poltrone care a Fantozzi) e la preparazione e la realizzazione del film, le atmosfere da cineforum, il “Rischiatutto” di Mike o i Tg del tempo, la chitarra e le canzoni, giù giù sino all’immancabile (e come potrebbe essere diversamente?) Charlot che tra un imbullonamento e l’altro scivola tra gli ingranaggi della macchina di Tempi moderni. Ma al di là dei disturbanti sottofinali, lo spettacolo, brechtiano come non se ne vedevano da anni, regge intelligentemente e lo si ammira sino in fondo, nel gioco colorato dei dialetti, per come Longhi si serve della macchina teatrale ideata da Guia Buzzi, con quel tapis roulant dove scorre la catena di montaggio, per come detta il ritmo dell’azione, per come regge la compagine degli attori, mai portati sul terreno instabile della macchietta o del già visto. A cominciare da Lino Guanciale. Che lontanissimo dagli exploit televisivi, qui costruisce il suo Lulù con tutta la maschera e il concreto della sfrontatezza, dell’idea sicura e affermata, della disperazione, della realtà agra e del sogno. È un tutt’uno con il personaggio, si annulla e si riafferma, piange e diverte, usa mezzi che non gli conoscevamo da attore dell’oggi e sicuramente del domani. Accanto a lui si segnalano la prove Franca Penone, visionaria Militina, di Diana Manea, la Vanda che nel film fu una strepitosa Melato, tutta ardori e recriminazioni, e di Simone Francia che con altri ruoli incide a tutto tondo soprattutto quello del crudele impiegato preposto a prendere i tempi di produzione: con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Eugenio Papalia, Simone Tangolo e Filippo Zattini autore delle musiche e degli arrangiamenti compongono il successo della serata.

 

Elio Rabbione

 

Le immagini dello spettacolo sono di Giuseppe Distefano

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