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Guido Ceronetti è stato un uomo semplice, gioioso, intransigente. Ha odiato le tirannie ideologiche del Novecento e il giacobinismo della Rivoluzione Francese. Seppe vedere la grandezza di de Maistre, grandissimo scrittore, come già riconosceva anche Mario Soldati. Ha tradotto in modo magistrale e non convenzionale i carmina di Catullo con una sensibilità che ci ha reso, come forse nessun altro, il poeta dell’amore sfortunato vissuto nel tempo in cui tramontava l’antica repubblica e la corruzione stava invadendo la vita pubblica e privata di Roma L’animo delicato, tenero, licenzioso ed ironico di Catullo è reso, come neppure il raffinatissimo latinista Vincenzo Ciaffi seppe fare. Altrettanto preziose sono le sue traduzioni dall’ebraico, in primis, del Cantico dei cantici. È stato un uomo che trovava e creava divertimento con il suo straordinario teatro di burattini, il Teatro dei Sensibili, un uomo ricco di un’ironia che non faceva sconti a nessuno, rifiutando i manicheismi settari. A Cetona trascorse la sua vita di vegliardo lucidissimo, mantenendo il gusto per la vita, una vita semplice ed austera. Quando veniva a Torino andava spesso dal comune amico Sante Prevarin al “Montecarlo”, ma le sue esigenze alimentari erano minime non solo perché vegetariano, ma perché si poteva considerare un moderno eremita che si accontentava di poco. Fece gradualmente, ma convintamente, la scelta vegetariana sull’esempio di Aldo Capitini bandiera della non violenza, come Piero Martinetti della causa degli animali. Fu contrario alla sperimentazione sugli animali e una volta Alda Croce mi disse che” Guido consentiva a quelle battaglie di essere meno solitarie e di trovare voci autorevoli sui giornali” e mi ricordò di averlo avuto spesso al suo fianco nella difesa del patrimonio paesaggistico e storico, senza gli snobismi di “Italia nostra”. Fu anche contro l’accanimento terapeutico, ma non si pronunciò mai a favore dell’eutanasia. Fu contrario al voto ai diciottenni, una scelta bizzarramente voluta da Amintore Fanfani nel 1975. In tempi recenti, Guido rifletteva sul fatto che ci fosse troppa gente impreparata ad esercitare con un minimo di consapevolezza il proprio diritto di votare, ingrossando le fila dei populisti arrogantemente orgogliosi della propria ignoranza. Sentiva il pericolo della “dittatura della maggioranza” come diceva Tocqueville, della oclocrazia, il governo delle plebi, di cui scriveva Polibio. Era, secondo lui, un po’ come pretendere di guidare un’automobile senza la patente. In campo religioso non esitò ad evidenziare i limiti di alcuni papi, in primis Papa Francesco. Difese ad oltranza il valore del Latino, sostenendo che le nuove classi dirigenti si distinguono negativamente anche perché non lo hanno studiato. Ci sarebbero tanti altri esempi della sua volontà di essere un bastian contrario, senza compiacersi di esserlo per partito preso. Per dirla con parole di Arturo Carlo Jemolo, era un “malpensante”. Pur sembrando un uomo disincantato, se non addirittura scettico, non esitava a definirsi un patriota e diceva che “l’Italia lo faceva molto soffrire per motivi di passione civile”. Amava citare Lucrezio e il suo “patriai tempore iniquo” che lui traduceva: “in questo tempo di sciagure per la patria”.
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Ceronetti, che ha attraversato decine d’anni di cultura italiana, si può considerare un uomo solo con il suo orgoglio, la sua umiltà, il suo spirito libero. Non è mai voluto entrare nel branco dei lupi famelici che costituisce il nocciolo durissimo della cultura italiana schierata. Alla Biblioteca cantonale di Lugano, che già conserva le carte di Prezzolini e di Flaiano, nel 1994 si è creato un fondo Ceronetti a dimostrazione di come i grandi italiani debbano fuggire in Svizzera ancor vivi per avere la sicurezza che i propri documenti vengano conservati nel modo dovuto. Una triade quella di Prezzolini, Flaiano e Ceronetti molto rappresentativa di un modo di pensare liberamente senza lasciarsi condizionare da nessuno. Quando si scrive di Guido Ceronetti bisogna parlare di un genio unico ed irripetibile, di un genio molto distante dal giacobinismo marxisteggiante torinese, rimasto coerentemente agli antipodi da certi ambienti che disprezzano chiunque la pensi in modo diverso da loro: gli eredi dell’egemonismo gramsciano sopravvissuti al crollo del Muro di Berlino hanno sempre ignorato Guido e la sua opera è stata circondata dal silenzio. Torino, la sua città (in effetti era nato ad Andezeno), non lo ha mai amato e lui si è sempre sentito estraneo ad una città conformista e chiusa. Come molti grandi torinesi con schiena diritta ha dovuto presto abbandonare Torino per veder riconosciuto il suo talento. Una volta, mettendomi in imbarazzo per l’immeritato elogio, mi disse che lo stupiva che io fossi rimasto a Torino, andando sempre controcorrente e che immaginava il prezzo che ero stato costretto a pagare. Per i suoi 90 anni fu il solo Centro “Pannunzio” a promuovere a Torino – con l’assenza più totale di autorità – un convegno in suo onore che ebbe un grande successo di pubblico e raccolse studiosi di rango a parlare dell’opera di Guido il quale avrebbe desiderato intervenire, se le sue condizioni di salute non glielo avessero impedito. Mandai l’amica Vinicia Tesconi a video-intervistarlo a Cetona. Un’intervista molto significativa che venne proiettata al termine del convegno condotto da Marina Rota. L’unico vero legame con Torino fu la sua assidua collaborazione con “La Stampa” per circa trent’anni. Con il coraggio e con la capacità propria di chi sa essere direttore di un grande giornale e non un giornalista che bazzica nelle stanze del potere, fu Alberto Ronchey ad invitare Guido a scrivere per “La Stampa” e fu Carlo Casalegno a intrattenere i rapporti con lui. Una volta Ceronetti mi disse che gli assassini di Carlo erano da ricercare tra gli eredi diretti del PCI, una verità scomodissima, ma non totalmente infondata. In piazza San Carlo nell’ottobre del 1977, a Torino, gli intellettuali e gli operai comunisti a manifestare solidarietà per Carlo ferito a morte, furono pochissimi perché lo ritenevano un reazionario. Avevo ascoltato con un certo imbarazzo durante una recente cena un giornalista vantarsi di aver chiamato lui Ceronetti al giornale, vincendo le resistenze di Casalegno. Evitai, per rispetto al padrone di casa, di smentire il pavone che si vantava di meriti che mai avrebbe potuto avere e che ingenuamente esibì quella sera, dimenticando che c’ero anch’io che con Casalegno e con Ronchey condivisi un lungo rapporto di sincera amicizia.
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In occasione del compimento dei 90 anni è venuta fuori la verità. La collaborazione di Ceronetti fu opera di Ronchey ed è stata lunga e proficua. Fu anche vicino al “Mondo” di Pannunzio. Poi con gli ultimi due direttori prima di Maurizio Molinari la collaborazione giornalistica di Guido è andata assottigliandosi fino a terminare. Da qualche tempo era titolare di una piccola rubrica sul “Corriere della Sera”. Ceronetti scriveva a ruota libera. Solo un esempio tra i tanti: sollevò dei dubbi sull’ergastolo a cui venne condannato il capitano delle SS Erich Priebke per la strage delle Fosse Ardeatine. Pochi in Italia ebbero il coraggio di farlo. Uno tra i pochi fu l’avvocato Gianvittorio Gabri, allora membro del CSM. Prevalse in quella condanna un giudizio storico-politico a danno della civiltà giuridica. Una volta Guido mi disse che “non vedeva politici che pensano”, un giudizio sicuramente troppo duro, ma con un fondo di verità. Ceronetti ha vissuto per tanti anni in condizioni economiche difficili, come è quasi inevitabile che accada ad uomo libero e scomodo come lui e non solo quindi perché i carmina non dant panem. Chi comanda ha bisogno di intellettuali malleabili e Ceronetti non è mai stato servile, ma sempre un liberissimo pensatore. A lui venne applicata la Legge Bacchelli che gli ha consentito di vivere, malgrado avesse le esigenze di un uccellino. Per i suoi meriti verso la Nazione, come per i senatori a vita. Forse Ceronetti avrebbe meritato di essere senatore a vita. Nel giugno 2014 alla festa dell’Inquietudine di Finalborgo proposi quella nomina per Ceronetti. In Liguria ebbe vasta eco, ma non varcò i confini liguri. Una nomina simile a quella di Eugenio Montale voluta dal presidente Giuseppe Saragat, scrissi in quella occasione. In Liguria era molto noto ad Albenga dove trascorreva lunghi periodi ospite del docente dell’Università di Siena Nicola Nante nella sua clinica San Michele dove curava gli acciacchi della vecchiaia e non disdegnava di chiacchierare con i degenti. Ha lasciato la vita in silenzio, poco dopo il compimento del 91° anno. La sua opera resta a parlare crocianamente per lui. È un’opera destinata a rimanere, anzi ad essere rivalutata nel tempo. In tutti i momenti decisivi della vita ha saputo fare le scelte che gli dettava la sua coscienza di uomo libero senza pensare mai al suo tornaconto, dimostrando una sincerità a volte persino disarmante, ma sempre meritevole di attenzione.
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Questo “cane sciolto” della cultura resta un testimone scomodo di un’età difficile in cui la maggioranza degli intellettuali si è spesso piegata come dei salici al vento del conformismo.Il mite, mitissimo ed ironico Ceronetti, un omino esile, persino fragile, ha saputo farsi sentire in tutte le occasioni in cui altri tacevano o dicevano cose banali. Un amico, appresa la sua morte, ha scritto con molto, forse eccessivo pessimismo: “Purtroppo la cultura sta morendo e prende sopravvento la notizia, spesso falsa, da consumare e dimenticare subito”. Nella non civiltà dei social un uomo come Guido non poteva continuare a vivere. La sua era una voce nel deserto. Era un uomo di una élite intellettuale che è finita con lui. Un anno fa, nel 2017, durante una lunga telefonata mi diceva che i nuovi barbari stavano arrivando. Aveva visto giusto. Guido si era rinchiuso da tempo nell’eremo di Cetona non solo per ragioni di salute. Come ha osservato Valter Vecellio, anche lui suo amico, Guido era “l’amaro impolitico più politico di tutti”. In senso civilmente molto alto, è stato infatti un eccezionale testimone di verità scomode, che seppe esercitare nella polis il suo ruolo pubblico di intellettuale. Pur orgogliosamente indipendente da tutti, ebbe un rapporto speciale con Marco Pannella che della non violenza fu un convinto assertore negli anni bui della violenza contestatrice e del terrorismo. Lo stesso Pannella amava citare Guido che partecipò persino ad un congresso radicale. Sarebbe tuttavia un errore grave parlare di lui in rapporto ai partiti perché egli ebbe il grande pregio di non sentirsi mai legato all’engagement, comunque professato. In questo senso, si potrebbe considerare un liberale, esponente cioè di quella cultura che privilegia il valore della libertà responsabile. Da vero “liberale” Guido ha sempre fatto parte per sé stesso. Collaborò al “Mondo” di Pannunzio, ma non si potrebbe considerarlo, per nessun motivo, “organico” a quel giornale. Il suo maggiore merito “liberale” fu proprio di essere sempre stato un intellettuale disorganico per usare un’espressione di Bobbio, antitetica a quella gramsciana. Una volta Mario Soldati definì Ceronetti “un titolare del proprio cervello, incurante delle critiche e delle ostilità che potevano suscitare i suoi scritti”. Amava il teatro delle marionette, ma non ha mai permesso a nessuno di farlo muovere, tirando i fili, come si fa con una marionetta. Era un uomo di carattere, non incline ai compromessi. Nel panorama desertificato della cultura italiana era rimasto solo lui a tenere alto il valore della libertà di pensiero senza compromessi. Quella casa di Cetona piena zeppa di libri resta un piccolo sacrario a cui gli italiani dovrebbero guardare, pensando al loro futuro, vergognandosi del loro presente.
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GUIDO CERONETTI
(Torino, 24 agosto 1927 – Cetona, 13 settembre 2018)
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