7 / Questa è la storia breve di un castello la cui disposizione interna si presenta come un lungo susseguirsi di stanze e saloni. Anche le leggende hanno bisogno di tempo per crescere e diventare adulte.
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Esse nascono in forma di “incipit“, nell’infanzia diventano “premesse”, “la trama” si forma nell’adolescenza e si sviluppa nell’età adulta, quando diventano vecchie si tramutano in solenni e saccenti “finali”. La leggenda del Castello del Drosso è ancora una “bambina”, ma le basi sono buone, la piccola diventerà una grande e coraggiosa Valchiria.
È metà pomeriggio di una giornata senza precisi impegni, il sole sta a mezz’asta, inizia ad illuminare le cose di traverso allungandone le forme. D’improvviso l’idea di una gita, una telefonata, pochi accordi e in un lampo sono in macchina con il mio odierno compagno di avventure, il mio impavido papà. Appena oltre i confini cittadini si trova il Castello del Drosso, un’antica grangia cistercense dotata di forti mura e torri massicce, un tempo sotto l’influenza dell’Abbazia di Staffarda, divenne in seguito proprietà dei Vagnone. L’edificio è visibile dalla strada, se uno sa dove guardare. La sua imponenza è ovattata dall’attuale posizione isolata, spersa in mezzo ai campi coltivati, e dallo stato di abbandono che lo sta lentamente divorando.
La sua presenza si inserisce nell’orizzonte senza saltare all’occhio, un bambino lo disegnerebbe senza staccare la matita dal foglio, sullo stesso piano degli alberi che lo affianco su entrambi i lati. Accanto alla torre antica vi è una moderna gru che appartiene al cantiere aperto appena davanti al castello. Da lontano i contorni si perdono, antico e moderno si fondono e danno vita ad una creatura ibrida e sterile, una mostro di Frenkenstein architettonico che per ora è solo un’illusione ottica. Lasciamo la macchina poco distante e percorriamo a piedi una strada sterrata, arriviamo a costeggiare la zona dei lavori, immobile come la condizione del castello.Prima di cercare un modo per addentrarci nella struttura decidiamo di proseguire per ammirare l’aspetto esterno della costruzione. Imbocchiamo un sentiero stretto e leggermente fangoso che costeggia i campi circostanti; la stradina, leggermente in discesa si incurva verso destra e prosegue poi diritta, conducendoci proprio sotto la roccaforte e regalandoci una prospettiva da cartolina. Subito estraggo la reflex e scatto molte fotografie, mi sposto da un’angolazione all’altra come stessi eseguendo un’approssimata ed incerta danza della pioggia.
Il cielo azzurro intenso, già tendente al blu Bondi, fa da sfondo neutro alla struttura in primo piano, due porticati paralleli sostengono sulle proprie spalle altri due piani e altre due torri. I porticati sporgono in avanti, rispetto al resto del corpo della costruzione, svolgendo anche la funzione di terrazzo, a loro volta sprofondano nel terreno della colina sulla quale si ergono. Dal basso, la posizione in cui mi trovi, si intravvede l’antico rosso della parete dietro il porticato del primo piano, il resto delle mura, malate di vitiligine, sono color ocra pallido con chiazze tendenti al bianco. Soddisfatta dei miei scatti cartolina-ricordo, propongo di risalire il sentiero per provare a intrufolarci all’interno del castello. Riusciamo nel nostro intento, anche se con meno facilità rispetto ad altre situazioni in cui mi sono trovata; la fatica però è decisamente ripagata dalla vista che ci si prospetta davanti: sbuchiamo a fianco dell’edificio, il sole delle cinque pomeridiane esalta il color mattone delle alte mura, è come se il castello arrossisse in risposta ai commenti che facciamo riguardo alla sua possanza e al suo bell’aspetto. La costruzione è circondata da un grande giardino, in cui si trovano una fontana scavata, un pozzo decisamente fiabesco, adornato di edera verde dalla base fino all’arco a cui si agganciava il secchio, un grande albero che mi permette di scattare un’altra cartolina-ricordo e, infine, una preziosa cappelletta privata, nascosta timidamente dietro grossi alberi verdeggianti.
È questa piccola costruzione che più mi attrae e che preferisco esplorare per prima. Gli affreschi alle pareti e sul soffitto piangono lo splendore di un tempo, la muffa li sta lentamente ingoiando, e il verdone dell’umido sta cancellando l’oro dei trompe l’oeil. Sopra l’ingresso si legge ancora una vetusta scritta in latino: timentibus deum nihil deest, “a coloro che temono Dio non manca nulla”, parole forti e solenni, degne di un castello come quello del Drosso.Il complesso è di origine medievale, già agli inizi del 1100 si hanno notizie del castello e del suo intorno rurale. Inizialmente era alle dipendenze dei monaci di Staffarda, poi di quelli di Torino, divenne proprietà dei Gorzani nel 1334, da loro passò ai Vagnone. La storia del castello è abbastanza travagliata, ebbe molti proprietari dopo i Vagnone, e nel 1496 si trovò in una surreale situazione di frazionamento che lo vedeva conteso tra più padroni, fino al momento in cui, nel 1539, il Conte Gugliemo Gromis di Trana riuscì ad avere ragione sugli altri pretendenti, ma solo nel 1860 la famiglia Gromis riuscì ad acquistarlo per intero. L’aspetto esteriore del castello è frutto delle varie trasformazioni che ha dovuto subire epoca dopo epoca, per essere sempre al pari con le mode del tempo; guardandolo ora, dato che non ha mai sfigurato in periodi passati, forse siamo noi che dobbiamo porci qualche domanda.
Usciti dalla piccola chiesetta privata, ci addentriamo all’interno della decisamente più ampia struttura che ci si pone davanti. Il primo salone che incontriamo fa da specchio al resto dell’edificio: pareti un tempo minuziosamente decorate stanno lentamente cedendo all’inevitabile trascorrere del tempo, la delicatezza degli ornamenti va scomparendo irreparabilmente, e tutto avviene in silenzio, come si addice ad un valoroso condottiero, che, per quanto stremato dalle ferite, muore in silenzio, senza rendersi supplice di nessuno. È un complesso enorme, ci mettiamo un po’ a girarlo tutto, ogni antro ha il suo fascino, ogni raggio di luce che si insinua mette in risalto qualche dettaglio. Mi è rimasta impressa una nicchia interna, sul cui soffitto erano stati dipinti gruppi di uccelletti canterini, che sembravano ancora emanare gioiosi cinguettii. Mi colpisce la presenza casuale ed improvvisa, in alcune stanze, di alcuni mobili decontestualizzati. Al centro di un salone abbiamo trovato un divano a tre posti, impolverato e consunto, aveva l’aspetto di un viandante perduto, che rimane immobile perché non conosce la lingua e non può chiedere informazioni; anche al piano terra c’è uno frammento di anni ’60, un tavolo apparecchiato, qualche sedia, un frigorifero ed un piano cottura fanno pensare che qualcuno abbia deciso di potersi trasferire lì, ma l’impossibilità di chiudere gli spifferi deve averlo fatto desistere.
Su tutto grava un silenzio rigoroso, che pretende rispetto e che indubbiamente riesce ad ottenerlo. Quando usciamo il sole è al limite dell’orizzonte, il castello è ormai in ombra, lo guardo e mi ricorda un valoroso combattente, un vecchio generale innamorato della propria divisa, con lo sguardo fiero, che non si spaventa di fronte all’invincibile decadimento. C’è chi dice di aver visto delle figure fluttuanti affacciarsi alle finestre, altri iniziano a giurare che ci siano delle luci che si accendono e si spengono sulle torri, ma per ora sono solo parole inconsistenti. La leggenda sta nascendo ma deve ancora formarsi, tuttavia ci sono delle ottime basi per una futura storia di fantasmi: un castello abbandonato che scolorisce al sole, dimenticato nel silenzio della periferia e che, come ultimo dettaglio, fu costretto ad ospitare il comando Torino Sud dell’esercito tedesco durante l’occupazione nazista.
Alessia Cagnotto
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