Felice di essersi ripreso con S.O.B. – son of bitch la propria sfacciata rivincita sui produttori e sugli studios che per una decina d’anni l’avevano osteggiato, nel 1982 Blake Edwards firmò il film che molti considerano il suo capolavoro e il manifesto per eccellenza dell’eleganza e della bravura della consorte Julie Andrews, quel Victor Victoria che definì quanto i Cahiers du Cinéma avevano chiamato in precedenza Edwards touch. Un’ambientazione perfetta, gag infilate una dopo l’altra con una incredibile disinvoltura, un carico di intelligenza e raffinatezza, una sarabanda di travestimenti, canzoni e musiche, una artista in cerca di scrittura capace di convincere tutti di essere un uomo che finge di essere una donna, premi e incassi. La storia non era nuova. Già l’aveva portata sullo schermo il tedesco Reinhold Schünzel, esattamente cinquant’anni prima, ambientando la vicenda nei giorni della Repubblica di Weimar, tra barricate e disordini, con la grave crisi economica che attanagliava il paese, con l’estrema sinistra degli spartachisti e l’assassinio di Rosa Luxemburg, con il nazionalsocialismo che correva verso il potere. Liberamente ispirandosi a quella sceneggiatura – la fame e la solitudine di un’attrice che arriva dalla provincia, l’amicizia con l’immigrato Vito Esposito, la reinventata Viktoria che si finge Viktor, gli spettacoli en travesti e il successo insperato quanto grandioso, la vita notturna e il mondo nuovo che s’è aperto davanti, una baronessa/impresario dai più che dubbi costumi, una bionda ballerina di fila dal cuore grande, un attrezzista pieno di pratica filosofia che pare uscito dalle immagini di Cabaret, un giovane conte innamorato che vuole spalancare la porta dell’amore -, l’autrice Giovanna Gra e il regista Emanuele Gamba propongono, all’insegna della simpatia di Veronica Pivetti, con Viktor und Viktoria uno spettacolo che intenerisce e diverte il pubblico ma che non convince appieno. Ne risulta uno svagato susseguirsi di scenette che hanno vita propria ma che con difficoltà riescono a dar vita ad un affresco unico e compatto, che vogliono farci spiare dal buco della serratura il mondo dello spettacolo con tutti i dolori e le gioie ma che a fatica ce lo sanno rendere con qualche benedetta zampata, che strizzano l’occhio ad un linguaggio (del tutto fuori luogo) e ad una realtà di oggi ma dimenticano di calarsi con convinzione in quella che fu la società del tempo. È come se non si volesse approfondire, sempre che si voglia dare alla Storia il posto che le spetta, se si volesse incentrare ogni sviluppo drammaturgico nell’attenzione al disordine sessuale di chi abita la scena, con un buon spazio ai doppi sensi che inevitabilmente accaparrano risate. Per cui lo spettacolo soffre di una certa “povertà” di scrittura soprattutto e di messa in scena, mentre le ingombranti scenografie inventate da Alessandro Chiti (due alte quinte girevoli, che altrettanti volenterosi attrezzisti, accomunati negli applausi finali, pensano a manovrare per l’intera serata) sembrano rallentare il tutto. Dentro i costumi davvero belli, questi senza alcuna riserva, di Valter Azzini, la prof amata da mezza Italia – l’altra stravede – è servita malamente dal testo (assai meglio dalle canzoni brechtiane arrangiate da Maurizio Abeni) e non riesce, pur nella ricerca continua dell’effetto più che azzeccato, nella battuta veloce, nello sfruttamento appropriato di quella sua faccia da monella e incasinata cronica che tutti le conosciamo, a convincere appieno. Con lei Giorgio Lupano che ha quasi paura di farsi avanti con le emozioni e i sentimenti del suo conte, Yari Gugliucci che semina un po’ di napoletaneità in terra tedesca, Pia Engleberth, Nicola Sorrenti e l’amabilissima Roberta Cartocci, che comunque, a dispetto delle spiegazzature di cui sopra, la sala stracolma del Gioiello ha alla prima ampiamente applaudito. Si replica sino a domenica 18.
Elio Rabbione
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