La realtà e i fantasmi nella Napoli magica e contraddittoria di Ferzan Ozpetek

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

 

Napoli come immagine di vita e di morte, con i suoi riti e le sue magie, i selciati delle piazze e i vicoli stretti e affollati, il sole che illumina e le ombre che nascondono, gli antri e i sontuosi palazzi di una nobiltà antica. Decadente e vitale, sacra e profana. La Napoli – è lei la vera protagonista del film, a lei il film è dedicato, in basso a destra sull’iniziale sfondo nero: “A Napoli” – della morte, e Ferzan Ozpetek ha avuto ben presente il “forte senso di morte” che occupa la città campana e su questo senso ha costruito Napoli velata, mescolando ancora una volta la realtà e una suprema immaginazione, la vita di tutti i giorni e i ricordi che accompagnano i personaggi e lo spettatore allo stesso tempo in un passato che stupisce e sconvolge e coinvolge come già in un domani che si stabilisce in ben diverse dimensioni, frutto di sciamaniche premonizioni. Una cifra che amiamo – in una filmografia che ha toccato piccoli capolavori e che ha pure avuto riuscite assai inferiori -, da Saturno contro a Mine vaganti, qui il maggior termine di paragone potrebbe essere Magnifica presenza, se là il tono, dentro gli incubi di Elio Germano, non fosse stato quello prepotente e sinistramente allegro della commedia.

La professione di anatomopatologa obbliga anche Adriana (una Giovanna Mezzogiorno più sconcertata che convinta, lontana dal viaggio nel cuore e nella mente che era stato La finestra di fronte) a vivere con i morti, a immergersi in quel senso mentre attraversa con le sue solitudini i corridoi sotterranei dell’ospedale. È il rito antico e ambiguo della “figliata”, del “parto maschile” rappresentato attraverso un finissimo velo a iniziare la sua vicenda e l’incontro con uno sconosciuto con cui trascorrerà una notte ad alta componente erotica, come raramente s’è visto sullo schermo. Una storia che potrebbe continuare, un altro appuntamento stabilito ma il ragazzo, tra le sculture e gli affreschi carichi d’amplessi staccati dalle case di Pompei del Museo archeologico non si presenterà: Adriana lo ritroverà cadavere sul tavolo freddo del suo lavoro. Di qui non si dovrebbe raccontare più nulla di Napoli velata, lasciando a chi guarda il piacere di addentrarsi, accompagnato dai movimenti lenti e barocchi della macchina da presa, nella costruzione, non sempre perfetta (la sceneggiatura è firmata con il regista stesso da Gianni Romoli e Velia Santella) dei fantasmi – perché di fantasmi ci parla Ozpetek sopra ogni cosa – di Adriana, del dramma che l’ha segnata sin dall’infanzia, delle sue scoperte che potrebbero spingerci troppo malamente a definire un thriller il film, del doppio che è un’altra cifra cardine della storia, delle sovrapposizioni (forse potremmo scomodare anche il grande Eduardo di Questi fantasmi) e degli sguardi e delle parole artefatti, del vedere e del sentire (uno dei momenti più belli è il riandare con la memoria della zia Anna Bonaiuto al perduto amore, con le voci che s’accavallano in un misto affascinante di passato e presente), della vita della protagonista rimaneggiata e rifatta a propria immagine, negativamente (il frigo pieno di roba messa lì a imputridire, da mettere nei sacchi di plastica per essere buttata via, quando in altre occasioni il cibo era messo al centro con l’allegria di questa o quella situazione).

A tratti anche il film resta velato, colpevole di un egoismo che t’impedisce di squadernarlo in ogni sua piega, rimanendo nascosto, ondivago, ben lontano dalla volontà che ogni cosa alla fine si chiarisca. Un ultimo sobbalzo di irrealtà, Adriana scompare dietro l’angolo, in modo definitivo, mentre la macchina da presa si blocca sul nulla. Ma nei film di Ozpetek ti piace anche perderti e forse anche questo è bello. Come ti apri in questa Napoli primattrice a certi squarci indimenticabili, dalla casa del principe Caracciolo già set per Viaggio in Italia e L’oro di Napoli, alla farmacia degli Incurabili con le proprie nascoste simbologie alla cappella Sansevero con il Cristo velato, alla grande terrazza dove un gruppo di travestiti in là con gli anni sta giocando a tombola, dinanzi a un panorama indimenticabile. Sono anche i fantasmi di Ozpetek, le sue tematiche qui disordinatamente dilatate, perse in una solare irrazionalità ma pur tuttavia prova – ancora una volta – di un carico di sentimenti che non indietreggia mai dalla più assoluta coerenza.

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