DAL NOSTRO INVIATO AL TFF
Elio Rabbione
È il regista israeliano Ram Nehari a stravincere con il suo Al Tishkechi Oti / Don’t forget me il premio per il miglior film del TFF 35 che si è chiuso ieri. La giuria, capitanata da Pablo Larrain, ha scelto questa storia dove ad un sottofondo di amarezza s’intrecciano messaggi e momenti d’amore, di disperata esistenza, di rappresentazione vera della instabile condizione psichica con cui convivono i due giovani protagonisti, una ragazza anoressica lei, un suonatore di tuba lui, entrambi nella speranza di una vita normale, eccezionali attori, lui, Nitai Gvirtz, si porta a casa il premio per la migliore interpretazione maschile, lei, Moon Shavit, lo condivide con Emily Beecham, sconquassata eroina di Daphne dell’inglese Peter Mackie Burns. Eccezionale ritratto di ragazza disinibita e dolorante, giri nei bar alla ricerca di alcol e sesso, qualche tiro di cocaina per tenersi a galla, l’aspirazione ad una promozione a secondo chef nel ristorante in cui lavora. Il film, pur con una bella scrittura, approfondita, capace di scavare in ogni piega, è tutto dell’attrice, capace di nascondersi e di mettersi sfacciatamente in gioco dietro quel visino cui tutti regalano i vent’anni, mentre ha già superato il decennio successivo.
Con il premio di 7000 euro della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo vivaddio la giuria si è ricordata di A fabbrica de nada del portoghese Pedro Pinho, il racconto della lotta di un gruppo di operai cui viene “rubato” il posto di lavoro, un caso singolo che drammaticamente, con grande incisività, ci rende il quadro della situazione del paese lusitano. Paiono al contrario a chi scrive sopravvalutati (forse) quel Kiss and cry delle francesi Chloè Mahieu e Lila Pinell, ad inseguire un gruppo di giovani pattinatrici, emblematiche nella loro instabilità di gesti e movimenti, tra bullismo e malate amicizie, l’amore per lo sport e le insicurezze, che si guadagnano il premio per la miglior sceneggiatura e la menzione speciale della giuria; e (decisamente) Lorello e Brunello di Jacopo Quadri (ancora qui una menzione della giuria), chiacchierate quotidiane su quanto è dura la campagna, la lotta contro l’industrializzazione, i commenti dei vecchi saggi, il ripetersi delle azioni, le solitudini, il lavoro. Dimenticando più alti esempi, come À voix haute del francese Stéphane De Freitas, intorno al concorso che ogni anno all’interno dell’Università di Saint-Denis, alle porte di Parigi, intende premiare il miglior oratore, un traguardo che arriva tra divertimento e ricordi dolorosi, tra tecniche precise ed emissioni di fiato perfette, tra gestualità mai gratuita, inneggiando alla bellezza e alla importanza della parola in un’epoca che ormai ne è priva. Un premio a questo titolo è arrivato dal pubblico, e questo dovrebbe dirla lunga: ma, al di là della nota di entusiasmo, ci pare davvero poco. O il clima di amori e sospetti soprattutto che è alla base di Beast di Machael Pearce o The death of Stalin di Armando Iannucci, scozzese di padre napoletano, dove si ride con rabbia davanti alle trame e ai comportamenti dei dirigenti sovietici all’indomani della morte del dittatore.
Fuori dal concorso, rimangono titoli che anche si sono amati, di cui speriamo poter riparlare ad una auspicabile uscita italiana. Quasi tutti di area angloamericana, da Darkest Hour di Joe Wright, con un eccezionale Gary Oldman nelle vesti di Churchill in un maggio del ’40 in cui dover decidere, ancora privi dell’appoggio statunitense, l’entrata in guerra contro un nemico nazista pronto a impadronirsi dell’intera Europa (in uscita a gennaio), a The disaster artist dove un altrettanto efficace, ed istrionico, James Franco, si cala nel personaggio di Tommy Wiseau, colpevole di essere entrato nella storia del cinema con quello che fu definito “il più brutto film che sia mai stato girato”; da L’uomo che inventò il Natale, ovvero l’occasione per Dickens a corto di quattrini e con una affollata famiglia da sfamare di trovare l’idea letterariamente giusta, a Final portrait, firmato da Stanley Tucci, dove Geoffrey Rush impersona Alberto Giacometti o Mary Shelley con Elle Fanning. Come per puro divertimento, nella sua semplice onestà, aspettiamo il film inaugurale, Ricomincio da me, non fosse altro per la recitazione di tre glorie britanniche, o il film che ha chiuso il festival, The Florida Project, già in odore di Oscar, o la riserva indiana che nasconde delitti in The wind river di Taylor Sheridan. O ancora Cargo di Gilles Coulier, che non avrebbe sfigurato in concorso, tre fratelli pescatori, differentemente coinvolti con la vendita del peschereccio di famiglia, al momento in cui il padre è in coma.
Restano i premi e i titoli che vedremo, restano assai più pressanti i tanti problemi del festival che all’indomani della sua chiusura lascia un conto negativo di sale a disposizione in meno (e la mancanza s’è sentita), di quattrini tagliati, di titoli eliminati. Certo, rimangono le file interminabili e compatte del pubblico (ma le cifre ufficiali non sono ancora comparse), le discussioni, la certezza che questo festival può e deve vivere senza tappeti rossi, senza il gossip del momento o senza le presenze di gente di cinema che hanno la faccia di essere riempitivi o pubblicità al lavoro fatto e presto in uscita; e poi la vivacità, la disponibilità dei tanti volontari e, uscendo dalle sale, i bar e i ristorantini dove fare un boccone veloce che negli otto giorni di festa e programmazione credo non se la siano poi tolta tanto male. Ma si è avvertito che la macchina non era ben oliata, che i sorrisi erano stretti, che l’inverno del nostro scontento aveva ormai bussato alle porte (per ripetere un film poco amato, quello di Roberta Torre). Emanuela Martini è giunta alla fine del suo mandato, vicedirettrice prima e piena responsabile negli ultimi quattro anni, continua a ripetere che ripartirebbe volentieri, che ha imparato ma che ha anche dato molto, che il pubblico torinese è impagabile: “Ma ogni decisione spetta al Museo”. Un Museo che, tra le tante e pericolose mareggiate, ha un direttore pro-tempore e ne attende uno stabile. Insomma, è necessario pensare già al futuro e il futuro, su cui stanno scritte per ora soltanto le date del 2018 (23 novembre – 1 dicembre), è troppo vicino. È necessario avere il tempo per lavorare, per mantenere la cifra di sempre e inventarsi cose nuove, per combattere contro i soldi che hanno tutta l’aria di voler scendere ancora, per svegliare una giunta che pare credere sempre meno nell’operazione (non soltanto culturale). Tutto per evitare che un grosso bagaglio torinese prenda altre strade, tutto per scongiurare che quello che si è costruito negli anni di scoperte, di piacere visivo, di intelligenza ci venga a mancare.
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