Deludono le due opere italiane, le stagioni dei fratelli di Quadri e i fratelli assassini di Tagliaferri

DAL NOSTRO INVIATO  Elio Rabbione

Possibile che, tra le opere prime e seconde predisposte sul versante italiano del TFF 35, per la quindicina di film da sistemare nel cartellone del concorso, Emanuela Martini e il suo staff non abbiano scovato null’altro che non fossero Jacopo Quadri e Andrea Tagliaferri? Il primo, attingendo ai quattrini di mamma Rai e a quell’Ubulibri di paterne radici, inventa un “soggetto”, scrive con una coppia di amici una “sceneggiatura” e ci sottopone Lorello e Brunello, ovvero le quattro stagioni in un anno recente della vita dei fratelli Biondi, tra le campagne del Grossetano. Vita grama e sempre eguale, a capitoli, le giornate che si aprono all’alba e si chiudono con fatica al tramonto, i compiti abituali dell’agricoltura, le chiacchiere di niente con i compari, la cucina e Trump in tivù, la vita dell’uomo che si confonde con quella degli animali, la mungitura delle pecore e il terrore dei lupi che creano carneficine, gli alberi e le semine, le macchine cui fare manutenzione, gli steccati e le reti a protezione, una vecchia parente cui accudire, un’altra filosofa pratica della vita e dei destini. 85’ con questo e altro ancora, camera fissa per la maggior parte del tempo, ricerca facile della bella immagine, azioni e parole che non producono sentimenti e non portano a nulla. Tagliaferri – con la paterna produzione di Matteo Garrone, di cui è stato assistente -, tra i pescherecci di Comacchio e certi freddi, solitari centri del Ravennate, considera invece in Blue kids il legame morboso che lega fratello (Fabrizio Falco) e sorella (Agnese Claisse), costruisce per la coppia la scomparsa della madre, fatta di lacrime finte, un’eredità completamente trasmessa al padre, l’uccisione di costui quasi fosse un gioco, un rituale che li lega e che deve essere compiuto con il sorriso sulle labbra. Una cronaca che certe vicende non solo di oggi ci hanno fatto conoscere, i nomi li abbiamo tutti nella memoria, il disaffetto, i quattrini, la noia, tutto può essere la molla che fa scattare quelle malvagità che non hanno tempo. Ricercare le tante cause ed esatte, entrare negli animi, scovare i meccanismi e il nulla che sta forse all’inizio di tutto: invece qui ogni cosa è freddamente raccontata, e la non partecipazione porta ad un vuoto di scrittura e di direzione che la bella fotografia di Sara Purgatorio cerca di colmare, serpeggiando tra dialoghi inesistenti, tra sguardi che vorrebbero accrescere i rapporti ma li svuotano, tra un fondo d’inerzia narrativa che azzera anche il marcio dei due ragazzi.

Batte bandiera francese uno dei film che più ci sono piaciuti del concorso, quel À voix haute di Stéphane De Freitas in cui, nell’epoca della letteratura spiccia, dei tanti surrogati colloquiali che vengono usati, dei termini abbreviati per fretta e per comodità, qualcuno vivaddio vuole resuscitare la parola. Quella pensata, costruita, tondeggiante, emessa con i fiati giusti, colorita, porta a dovere. Quella improvvisata, quella condivisa, quella aiutata dalla recitazione. Succede nella periferia parigina, all’interno dell’Università di Saint-Denis, dove ogni anno viene indetto il concorso “Eloquentia” per l’elezione del miglior oratore. Succede con una ventina di studenti provenienti da paesi anche lontani, che riconoscono nella parola, nella sua costruzione e nel suo uso, il passaggio obbligato verso la vera espressione, autentica, verso la sua libertà, verso un vivere che esprima crescita, scioltezza, fiducia in se stessi. Si improvvisa, si narra, si discute, si mettono in campo le proprie doti, il proprio carattere, le timidezze e la piccola cialtronaggine, il divertimento e i ricordi della propria terra. Anche qui un documentario, ma tu ci senti equilibrio e verità, piacere dell’ascolto, un susseguirsi vitale di giorni, un panorama di facce difficilmente dimenticabili.

 

Come difficilmente dimenticabile è Daphne dell’inglese Peter Mackie Burns con il faccino bello di Emily Beecham. Decisamente disinibita, riempie la solitudine con lettura di Slavoj Zizek e sesso senza troppi problemi, qualche incontro con l’amica per rinfacciarsi quale delle due sia più “stronza”, giri nei bar per qualche bicchierino di troppo e per qualche tiro di cocaina per tenersi a galla, il suo lavoro in un ristorante dove il proprietario è innamorato silenziosamente di lei e lei aspira ad una promozione a secondo chef. Poi una madre che sta morendo di cancro e si rifugia negli affetti recalcitranti di una figlia e nella fiducia in una religione che le insegni una nuova sopportazione; e una rapina che la sbalza dall’andamento sempre eguale delle sue giornate: forse sarà una nuova salvezza, uno sguardo mai considerato, un momento inaspettato per andare incontro agli altri e riscoprire se stessa. Un bellissimo ritratto di donna circondato da altre partecipazioni che non sono indifferenza, una storia triste e brillante al tempo stesso, gli angoli della vita con la drammaticità e le sfide espressi in modo narrativamente piacevole e forte, le annotazioni giuste, la concretezza dei vari passaggi più che apprezzabile. Non si chiede poi troppo!

 

Elio Rabbione

 

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