…le code e i film che non si riescono a vedere: ma poi si entra nel vivo della festa!
Innanzitutto i numeri. Film a disposizione per la truppa dei cinéphiles che quotidianamente si mettono in file chilometriche, raggiungono l’agognata poltrona e si sciroppano, con gusto o con disgusto la storia di turno, per poi rimettersi in coda dopo nella migliore delle ipotesi aver agguantato un panino al bar più vicino – e il giochetto dura per l’intera giornata -, ebbene quei film per l’edizione del TFF 2017 ammontano a 169. L’anno scorso 213. Bene, dirà qualcuno, meno visioni meno impegno, meno impegno meno stress. No. Sempre meno spazi (ci hanno pure tolto le tre sale del Lux, visti gli affitti che non saranno proprio delle bazzecole e i tagli doverosi (?) al budget finale), publico che pare aumentare a vista d’occhio, code che è capitato di vedere fare il giro su se stesse, il piacere di vederti arrivare al limitare della sala ed essere respinto perché i posti erano finiti. Ma anche questo è festival.
È anche festival – di quest’anno – che si rinunci la più rigorosa sala del Lingotto per “rifugiarsi” sotto il tetto della Mole (evvia, siamo pur sempre a casa nostra, si saranno detti tutti), alla madrina agghindata a dovere o al madrino di recente scoperta e si spalmino i doveri introduttivi su quattro belle personcine che ancora adesso ti chiedi ma che ci azzecca? Vabbe’ incrociare le arti, ma di “una performance inedita che racconterà il rapporto con il cinema” prodotta dallo chef stellato Ugo Alciati, dello scrittore Luca Bianchini, del designer Chris Bangle e del musicista e produttore Max Casacci, con tutto il rispetto, ma che ce ne facciamo? Come è anche festival inaugurare con un’operina che può andare diritta al mondo variopinto dei sentimenti, che può addolcire le pene di una certa età in cerca di rivincite esistenziali ma che resta di una leggerezza troppo impalpabile e scontata per lasciare un qualche segno. Succede in Finding your feet – Ricomincio da me di Richard Loncraine che l’agiatissima Lady Sandra (Imelda Staunton, la “Vera Drake” di Mike Leigh e la balia di “Shakespeare in love”) scopra nel bel mezzo di una festa che il consorte con cui ha trascorso un’intera vita la tradisca da anni con la sua migliore amica. Detto pane al pane al fedifrago, si fionda dalla sorella Bif (Celia Imrie), spirito da sempre libero, che buttandola nella girandola della propria esistenza le fa conoscere una taumaturgica scuola di ballo, i più o meno attempati allievi, i piccoli problemi e le felicità e le giornate che non sono poi così male. Come i ragazzotti della monaca Whoopy Goldberg, anche i vegliardi parteciperanno ad un concorso, tra i cliché più scontati di una due giorni romana, per uscirne chiaramente vincitori: senza tuttavia potersi sottrarre alla tragedia, dolorosa per Sandra ma anche capace di farle compiere quel “salto di fede” che la legherà allo spirito innamorato di Charlie (Timothy Spall, l’eccellente pittore Turner, premiato a Cannes tre anni fa). A parte i quindici minuti finali pasticciati in un andare e venire di decisioni prese e cancellate, la storiella corre via prevedibilissima ma piace quel trio di facce britanniche e soci, il loro modo di recitare, l’impegno a guardare ancora una volta avanti, la sfacciataggine di prendere la vita con un bel grido d’allegria.
Da segnalare nella sezione “Festa mobile” Casting di Nicolas Wackerbarth, un dietro le quinte che vuole mostrare con uno sguardo crudele e disilluso gli inganni e le frustrazioni del mondo del teatro, che il pubblico non conosce. Nell’anniversario della scomparsa di Fassbinder, la televisione tedesca vuole realizzare il remake delle Lacrime amare di Petra von Kant, affidandone la realizzazione ad una regista sicura e inflessibile che a pochi giorni dalle riprese non ha ancora deciso quale sia l’attrice scelta cui affidare la parte. I provini si succedono ai provini, le incertezze, i litigi e gli abbandoni non si contano, il clima e i rapporti si fanno sempre più difficili, è sufficiente che un trucco venga rifiutato o un’unica battuta non soddisfi, perché si contatti un altro nome, un altro viso. Ma ad interessare non è soltanto la protagonista, a poco a poco pare rubare spazio la frustrazione dell’attore che fa da spalla nei provini alle tante candidate, quel vedersi arrivare il vero pretendente al ruolo maschile, la sfiducia verso quella regista che cancellando promesse lo accantona in un ridicolo ruolo secondario. Un mondo di insicurezze e di sottrazioni, lucidamente rappresentato e interpretato da attori per noi sconosciuti con un piglio davvero reale e concreto.
Elio Rabbione
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