Forse è già tutto chiaro, fin da quel semplice puzzle in locandina che ci mostra un Goldoni di cui non resta che l’immagine mentre il resto, giacca calzoni rossi e sneakers immacolate, è catapultato nei giorni nostri. Ieri e oggi, insomma. Senza tanto sottilizzare. Per cui la scena, in gran movimento da parte degli attori (cresciuti tutti alla scuola dello Stabile torinese), di queste Baruffe chiozzotte firmata da Carlo De Marino è un gran tripudio di trovarobato ligneo, porte e finestre, scalette e piccole pedane a dare sul porto per l’attracco delle tartane, tutto illuminato a dovere; come gli abiti che sono quelli di ogni giorno, jeans e magliette e quant’altro di pratico, salvo poi solleticarci (il lavoro è dovuto ad Alessio Rosati) per un attimo quantomai inconsistente di una mezza dozzina di abiti della festa che nessuno indosserà mai. Perché tutto è immaginato dalla regia di Jurij Ferrini come una prova, una tappa in divenire, pronta tuttavia a consolidarsi, tanto da sentirsi costretto all’inizio a nominarci i personaggi, il dove, a leggerci le didascalie della commedia. Un gioco che potrebbe continuare, le baruffe alla prova, forse quei costumi alla fine dei conti potrebbero ben servire a qualcosa. Un’idea che avrebbe dovuto trovare forse più spazio, maggior concretezza: e invece nulla.
Poi c’è il testo, le parole di questa gioventù del luogo che urla e si spintona, che sarebbe pronta per amore a prendersi a rasoiate, anzi è pronta a tirar fuori i coltelli (e le ultime cronache ci dicono quanto poco sia cambiato da Goldoni a noi), che sbraita e si tira i capelli, che ruzzola a terra, che sbrodola maldicenze, che inganna e fa la sfrontata, che innesta liti. Insomma c’è la lingua che accompagna le Baruffe, quella goldoniana, che era un originale chioggiotto e di cui Ferrini ci risparmia. Sì, ci dice una parlata più aspra della veneziana, ma pur sacrosanta. Certo i capelli bianchi non ci devono obbligare ad andare a riassaporare il (solito) lavoro di cesello che in decenni ormai lontanissimi fece Giorgio Strehler con la sua edizione (ma comunque chi vuole se la vada a rispolverare!), ma certo ci spingono a rimpiangere quella musicalità che ne nasceva, quel panorama di laguna che era un tutt’uno, parole gesti caratteri, quel cantilenare che imboccava questo o quel personaggio. C’è ancora chi combatte per l’arroccamento di Eduardo nella difesa della propria lingua, c’è chi fa carte false per la genuinità di Camilleri e Montalbano, c’è chi si rilegge con avidità il “Pasticciaccio” di Gadda: e Ferrini si preoccupa della nostra comprensione, si lascia intimorire dalle chiusure e affida a Natalino Balasso una “traduzione”, “non è stato operato un adattamento, ma una vera traduzione”, forse per il ricordo delle antiche collaborazioni, forse perché il sunnominato era in un periodo di pausa lavorativa? Aggiornando inoltre e immettendo in quella “traduzione”, per abbracciare meglio la spiccia quotidianità degli abiti, i vari “stronza” e “vacca” e “vaffa” e altro ancora, sdoganatissimi, che ormai “necessariamente” devono far scoppiettare i tanti alterchi della meglio gioventù.
Ce ne faremo una ragione, chiosava dall’alto il nostro amato ex premier. E anche noi, in questa occasione. Anche perché lo spettacolo è divertente e diverte, Ferrini gioca un paternalistico coadiutore, specchio dell’autore che ricoprì la carica per una quindicina di mesi proprio a Chioggia, e soprattutto agita con grande slancio il materiale giovanile che ha per le mani. In una commedia che manca di nobili e di vecchi, sono i giovani che tornano dalla pesca durata per mesi e le ragazze che mentre cercano gli occhi del moroso lavorano al tombolo, che strepitano e baruffano, che con una stretta di mano, per qualcuno sembra una camminata sui carboni ardenti, si maritano. È un piacere guardarli e sentirli, la forza che ci mettono, quello che un tempo veniva chiamato il sacro fuoco, irose, svenevoli, bugiarde, passionali, incantevoli, tutte da citare: Sara Drago che è Checca, la scoperta da continuare a seguire che è l’Orsetta di Barbara Mazzi, Rebecca Rossetti e la sua Lucietta che mi pare un istrice, Elena Aimone e Beatrice Vecchione; mentre sul versante maschietti da tener d’occhio le prove di Matteo Alì, un Titta-Nane sanguigno e pronto a chiamare in causa il pubblico sulle sue tragedie amorose e sulla loro conduzione, e di Raffaele Musella, un Toffolo tutto vivacità, pronto a punteggiare con Ferrini un elenco di pericolosi manigoldi e di testimoni degno di tutto l’umorismo di Totò e Peppino. Bravi, e lo spettacolo finisce con l’essere in gran parte davvero loro.
Elio Rabbione
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