D’Abbraccio/Gleijeses tra ribellione e rappacificazione

“Filumena Marturano” di Eduardo, regia di Liliana Cavani, per la stagione dello Stabile


Quante Filumene. Titina prima, poi via via Regina Bianchi e Moriconi, Isa Danieli e Sastri e Melato, senza contare la Sophia nazionale con il film di De Sica. Il testo è uno dei capisaldi del Novecento, non parliamo della fama di questa donna indomita che rappresenta l’assoluta libertà e il sacrificio delle madri del mondo. Il testo di Eduardo, datato 1946, è grande e lo hai visto tante volte, eppure questo titolo-monstre ti acchiappa sempre e ti fa ad ogni occasione tornare la voglia di andare a teatro. Che avrà fatto questa volta il regista (per carità, lasciatelo così come l’autore l’ha scritto, non pensate di rigirarlo come usano fare oggi certi metteurs en scène della lirica, scongiurerebbe qualcuno…), quale voce e quali gesti usciranno dalla bravura dei protagonisti. Per cui ti vai “anche” a vedere Mariangela D’Abbraccio e Geppy Gleijeses. Ed è vera, enorme bravura. Di lei, che scende nella sua madre con tutta la rabbia e l’ardore e l’artistico sotterfugio che a sipario appena aperto già è concluso, balzata dal letto a ribadire la propria dignità di donna, a rigovernarsi i capelli, a ripiegare la “robba” finalmente sua e sopratutto a reclamare pienamente uno status che per anni, venticinque lunghi anni, ha inseguito, quando lui la tolse diciassettenne da un povero basso e dalla fame per farle abbracciare il mestiere più antico del mondo. E poi, con quei sentimenti rimessi in gioco, nell’andare a raccogliere i tre figli disseminati che per anni ha sorvegliato, tre differenti caratteri, tre diversissime professioni, un incrociarsi di spavalderia, di giocosità familiare, di pacatezza; nel suggerire a Domenico Soriano, a Dun Mi’, la verità di una paternità inattesa verso uno di quei tre ragazzi e di uno soltanto, nel portarlo davanti al prete, nel ritrovare una calma che tuttavia non può ancora cancellare qualche battito di troppo del cuore. E di lui, che percorre l’opera tutta dall’esasperazione della belva presa in gabbia, del maschio svelato che dovrà prima o poi rinunciare ad un passato di comodità e privilegi, che dovrà affrontare un percorso di educazione sino alla rappacificazione punteggiata da un “papà!”, convinto e privo di ogni sdolcinatura, che arriva dalla bocca dei figli.

A dirigerli Liliana Cavani, l’autrice di “Galileo” e di “Portiere di notte” e del doppio “Francesco”, alla sua prima prova teatrale (lei che al di là di quelle cinematografiche tanto ha già frequentato i teatri lirici). Ha compattato lo spettacolo, cancellando gli intervalli, ad un’ora e 50’, è stata giustamente attenta a non allontanarsi dalla tradizione e dal naturalismo che la fa da padrone, ha scavato negli angoli più intimi dei suoi due attori, li ha fatti esplodere e li ha tenuti a bada, ha costruito con saggezza – dentro le scenografie di Raimonda Gaetani, la camera da letto e il salotto buono di chi ha fatto fortuna, senza dimenticare le sonorità della chitarra e il resto di Teho Teardo che accompagnano con struggenti melodie la vicenda – la lotta quasi fisica del primo atto, pedana di una doppia ribellione, con una stretta napoletaneità, con un linguaggio esasperato, con un gesticolare plateale, con le voci alte, gettate l’una contro la faccia dell’altro: mentre poi ha asciugato parole e gesti verso i territori della conciliazione, della tranquillità, della famiglia salvaguardata, in un percorso dove ogni sconquasso poco a poco si rimette al proprio posto, rallentandosi i tempi, le azioni, le voci. Sino al quadro finale. Una regia che non si pone soltanto al servizio “freddo” del testo e della volontà dell’autore, ma che butta là una personalissima cifra, ovvero non ancorando la vicenda agli anni dell’immediato dopoguerra, sino a schiacciarla, ma lasciandola venire un po’ più verso di noi, senza troppe ristrettezze. Con i più giovani attori, che pur con qualche inciampo rientrano appieno nel successo dello spettacolo, non possono passare senza citazione le prove di Mimmo Mignemi, uomo tuttofare di Soriano da sempre, che sfugge a tratti dal partenopeo per tradire origini siciliane, e soprattutto di Nunzia Schiano, “salvata” da Filumena, pure lei a squadernare un passato fatto di sacrifici e un presente dove per i figli non c’è più posto (bravissima: del resto, basterebbe ricordarla come madre di Siani in “Benvenuti al Sud”, pronta a sfornare per colazione strani sanguinacci ad un Bisio quantomai sconcertato e recalcitrante).

 

Elio Rabbione

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