Nel “referendum di Pasqua” il futuro della Turchia

FOCUS / di Filippo Re

Il futuro della Turchia è nella mani del popolo turco che domenica 16 aprile dovrà decidere se approvare o meno la riforma costituzionale che consegnerebbe super poteri al presidente Recep Tayyip Erdogan. Lui, il nuovo sultano, per sottolineare l’importanza dell’evento e per raccogliere il voto del maggior numero possibile di turchi prepara un gesto clamoroso che sa di provocazione. Nel Venerdì Santo dei cristiani vuole andare a pregare in Santa Sofia con alcuni ministri e con i capi religiosi di Istanbul alla vigilia del referendum che potrebbe trasformare il Paese della Mezzaluna in una repubblica presidenziale di stampo neo-ottomano modificando radicalmente il volto istituzionale della Turchia.

L’uomo forte di Ankara è pronto a seppellire il kemalismo laico e a proseguire sulla via dell’islamizzazione progressiva della nazione. Nella rete integralista cade dunque anche Santa Sofia. Il decreto firmato da Ataturk nel 1934 che convertiva l’ex basilica da moschea a museo non sarebbe autentico, almeno secondo alcuni storici turchi, e la firma di Kemal Ataturk sarebbe falsa. Pertanto Santa Sofia dovrebbe rimanere moschea come avvenne dopo la conquista turca di Costantinopoli nel 1453. Ma il Paese arriva al giorno del referendum in un clima teso e in un contesto difficile segnato dal calo degli investimenti esteri e dei flussi turistici. Gli attentati terroristici degli ultimi mesi e la crisi diplomatica con alcuni Paesi europei hanno creato un clima di incertezza e di paura. La repressione non accenna a diminuire. Sono già 47.000 le persone arrestate in Turchia dal fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 con l’accusa di legami con la presunta rete golpista del predicatore Fethullah Gulen, in esilio volontario negli Stati Uniti. Tra questi ci sono 10.700 poliziotti, 7600 militari (tra cui 170 generali), 2570 magistrati, 26177 civili e 208 amministratori locali. Le persone poste in stato di fermo dopo il mancato golpe sono state complessivamente 113.000. Si tratta di cifre ufficiali, aggiornate qualche giorno fa dal ministro dell’Interno, ma sono soprattutto numeri da dittatura sudamericana anni Settanta e non certo all’altezza di un Paese che è un pilastro fondamentale della Nato e che fino a poco tempo fa aspirava a entrare in Europa.

La campagna di repressione scatenata dopo il tentato golpe di luglio continua senza sosta e i numeri sono allarmanti anche a marzo: 500 arresti e 2600 persone fermate in un solo mese tra esponenti della minoranza curda e sostenitori di Gulen. E non finisce qui perchè altre centinaia di cittadini sospetti sono ricercati e con tutta probabilità finiranno quanto prima in carcere. É in questo clima minaccioso e repressivo che il Paese della Mezzaluna va al referendum presidenzialista del 16 aprile. Mentre proseguono le purghe di Erdogan la campagna referendaria si incattivisce e le autorità minacciano di tagliare i finanziamenti assegnati ai distretti che voteranno contro la riforma costituzionale. È una caccia all’uomo contro dissidenti e oppositori a cui viene imposto il silenzio mentre il presidente e i suoi ministri compaiono in modo martellante sui mezzi di informazione per far prevalere le ragioni del “sì” alla riforma, oltre 4000 minuti su tv e radio di Stato per il governo a marzo e appena pochi minuti per i curdi.

Le modifiche alla Costituzione, se approvate, segneranno una deriva autoritaria che preoccupa l’opposizione turca, la stessa società civile, l’Europa e la diplomazia internazionale. In caso di vittoria, al presidente turco andrebbero pieni poteri tali da stravolgere la Carta costituzionale attuale. Il leader turco diventerebbe anche primo ministro con il potere di nominare i ministri, sciogliere il Parlamento e dichiarare lo stato di emergenza, la cui decisione, prima della riforma, spettava al Consiglio dei ministri. In pratica il “Consiglio dei ministri” viene rimosso e sostituito dal concetto di “Presidente dello Stato” mentre il Parlamento, ridimensionato nelle sue funzioni, non potrà più porre la fiducia o la sfiducia al governo. Se un disegno di legge verrà respinto dal Parlamento, Erdogan potrà emanare ugualmente la legge senza problemi. Durante lo stato di emergenza, come quello in vigore ancora oggi dopo il fallito golpe di luglio, il presidente avrà il diritto di promulgare decreti con forza di legge. La magistratura perderà la sua indipendenza e sarà sottomessa al presidente della Repubblica mettendo fine alla separazione dei poteri che è uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto. Erdogan potrà nominare gran parte dei giudici dell’Alta Corte di Giustizia, simile alla nostra Corte Costituzionale, e indebolire l’autonomia delle Forze armate con la prevista abolizione dei tribunali e dei magistrati militari. Anche l’esercito, che per decenni ha difeso la laicità della Turchia sorvegliando strettamente i partiti di ispirazione religiosa, andrà sotto il controllo del presidente compreso lo Stato maggiore. I generali, i capi di Stato maggiore e gli ufficiali di grado più alto saranno scelti direttamente dal Leader supremo. Erdogan rimarrà anche il leader del proprio partito e sarà quasi impossibile allontanarlo dal potere.

Se la riforma passa, Erdogan potrà restare in carica fino al 2029. Il 27 marzo hanno cominciato a votare i cittadini turchi residenti all’estero, circa 3 milioni di emigrati, molti dei quali residenti in Germania mentre in Turchia le votazioni sul referendum riguardano 55 milioni di persone. La consultazione referendaria segue le aspre polemiche delle ultime settimane in cui Erdogan criticò duramente la Germania e l’Olanda per aver impedito a funzionari e ministri turchi di tenere comizi elettorali a favore della riforma voluta dal presidente. Tra sondaggi incerti e con molti elettori ancora indecisi, la battaglia referendaria vede schierati a favore della riforma l’Akp, il partito di Erdogan, promotore del referendum, alleato al partito della destra ultranazionalista Mhp che però, scegliendo il “Sì” alle modifiche costituzionali, ha subito una spaccatura interna. Sul versante opposto, per il “no” al referendum c’è il partito filo curdo Hdp il cui leader Demirtas è in carcere con l’accusa di essere un terrorista. Contrari alla svolta presidenzialista e islamista del sultano sono anche i repubblicani del Chp, il principale partito laico del Paese. Erdogan d’altronde è stato molto chiaro: “coloro che sono per il “no” sono nemici della Turchia e sono legati agli organizzatori del fallito golpe del 15 luglio”. Contro il referendum si scaglia con violenza anche l’Isis che in un messaggio apparso su Rumiyah, la rivista del Califfato, minaccia di attaccare i seggi e uccidere chi vota.

Filippo Re

dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 

 

 

 

 

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