Flamini e la “Rassa nostrana”. Chi ne raccoglierà il testimone?

 L’aspetto meno conosciuto e sicuramente il più importante di Flamini : è la paziente, diuturna raccolta ,diventata negli anni davvero imponente, di documenti e libri sulla storia e sull’arte piemontesi. Le stanze di via Vanchiglia sono piene zeppe di un vero e proprio tesoro

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di Pier Franco Quaglieni*

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Il video diffuso dal “Torinese” relativo all’imponente funerale di Andrea Flamini mi inducono ad alcune riflessioni sul Gianduia più noto ed amato,giunto alla soglia dei 90 anni, quasi senza accorgersene. Era sicuramente un uomo straordinario e poliedrico, cultore delle tradizioni piemontesi e savoiarde (peccato non abbia mai pensato a Nizza ),portate con i suoi spettacoli folcloristici in tutto il mondo, soprattutto nelle comunità italiane all’estero che rischiavano di perdere le loro radici. Senza risparmio di sé e in collaborazione con l’associazione “Piemontesi nel mondo” del comm. Colombino,stretto collaboratore di Calleri, ha girato il mondo con le insegne del Piemonte che si identificavano nella bianca croce di Savoia. Ripristinò la Festa di San Giovanni il 24 di giugno, una festa che era andata perduta. Soprattutto i non torinesi di origine capirono perché a Torino si festeggiasse San Giovanni a cui non casualmente è intitolato il Duomo della città.

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Meno convincenti sono le presenze ai diversi Carnevali che ormai hanno perso quasi d’interesse, se si esclude quello di Ivrea in cui risalta lo spreco di arance e il non sempre buon trattamento praticato nei confronti dei cavalli, obbligati a partecipare ad un rito ormai superato, se è vero che il berretto frigio usato a Ivrea ci fa riandare ai tempi della Rivoluzione francese e della dominazione francese della città della Dora. L’aspetto meno conosciuto e sicuramente il più importante di Flamini : è la paziente, diuturna raccolta ,diventata negli anni davvero imponente, di documenti e libri sulla storia e sull’arte piemontesi. Le stanze di via Vanchiglia sono piene zeppe di un vero e proprio tesoro. Sentendo i discorsi di circostanza del Sindaco/a di Torino e del Presidente della Regione ai suoi funerali mi sono chiesto perché tanti elogi in morte a fronte dello scarsissimo interessamento per la sede dell’associazione fondata da Flamini che ospita il tesoro da lui accumulato. La sede dell’associazione ha avuto lo sfratto, sembra per morosità. I suoi costi erano diventati insostenibili. Tenere in piedi un’associazione è cosa difficile, se non disperata in questa città che privilegia solo una certa cultura schierata e considera intellettuali sono gli amici di certe persone.

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Flamini non apparteneva al solito giro, alla solita compagnia di giro ,potremmo dire, al “sistema Torino” che ,lungi dal tentare di smantellare, come aveva promesso durante la campagna elettorale, il Sindaco/a sta di fatto appoggiando. Flamini poteva intendersi con grandi presidenti come Aldo Viglione che aveva un’idea alta del Piemonte e fu l’iniziatore del progetto relativo alle Regge sabaude, lui socialista e repubblicano. Così come si intese a prima vista con Gianni Oberto, presidente anche lui della Regione, a cui è intitolato un centro studi della Regione Piemonte. Il cuneese Viglione e il canavesano Oberto avevano una grande sensibilità verso la cultura piemontese, anzi direi verso le culture piemontesi. Un altro grande tutore delle tradizioni piemontesi, Renzo Gandolfo ,ha avuto ben altra sorte rispetto a quella di Flamini(addirittura un pezzo di via a lui intitolato nel centro di Torino),ma Gandolfo, in fondo, era un aristocratico persino nel volto e nel portamento. La sua barba bianca faceva pensare ai grandi piemontesi dell’’800. L’immagine di Gianduia era cosa diversa e toglieva di credibilità all’immagine di Flamini difensore della cultura piemontese,almeno agli occhi degli intellettuali snob che egemonizzano questa città.Sicuramente il folclore non è sempre cultura,spesso è mero divertimento e basta.

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Ma i libri raccolti da Flamini sono invece senz’altro cultura e qualcuno dovrà provvedere a salvarli e a renderli fruibili in una biblioteca pubblica della città.Ebbi scarsi rapporti con lui.Io sono un piemontese che ha cercato di “spiemontizzarsi “ come aveva fatto Alfieri e anche Bobbio. Non ho mai voluto parlare in dialetto, anche se lo capisco perfettamente:mio padre me lo proibì,invitandomi sommai a studiare l’Italiano e le altre lingue.Forse solo qualcuno dei miei compagni di scuola sapeva parlare in dialetto, forse due o tre in tutto.In casa ed a scuola si parlava italiano. Guardare nel 1968 al lucchese e romano Pannunzio significava una scelta precisa: non voler restare ad ogni costo sotto la Mole, ma guardare alla cultura nazionale e internazionale, come aveva fatto Giuseppe Baretti e pochi altri piemontesi. Nel 1998 mi conferì in Comune, alla presenza del Sindaco Castellani, il Premio San Giovanni insieme a don Luigi Ciotti e Lia Varesio, l’eccezionale animatrice di un’iniziativa umanitaria davvero straordinaria, “la Bartolomeo & C”. In quell’occasione sentii l’inutilità del mio lavoro intellettuale rispetto all’impegno concreto degli altri premiati. Fu l’unica occasione per me di parlare con don Ciotti, che ritengo a me molto distante e che pure ebbe parole gentili nei miei confronti.
Poi passarono anni senza incontrarci e Flamini nel 2011 mi invitò a presentare il mio libro su Cavour alla sua associazione. Fu un clamoroso insuccesso. Parlai in una sala semivuota. Alla fine si scusò e mi disse che l’Associazione non era più quella di un tempo e che doveva fronteggiare difficoltà che l’età gli rendevano gravose.Provai una profonda e sincera vicinanza nei confronti di un uomo che si era votato ad una missione con grande dispendio di energie e con disinteresse.

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Chi raccoglierà il testimone di Flamini? E’ difficile dirlo, ma bisogna auspicare che la sua associazione non muoia con lui. Sarebbe una grande perdita per il Piemonte e non solo. Le comunità piemontesi all’estero perdono infatti, con la sua morte, l’unico capace di tenere saldo un rapporto tra passato,presente e futuro di tanti immigrati piemontesi nel mondo che tengono alto il nome del Piemonte con il loro lavoro,la loro testardaggine, il loro impegno.Sono i piemontesi di cui scrisse Nino Costa:non a caso, papa Francesco,di origini piemontesi,citò, nel suo saluto alla città in piazza Vittorio,sia pure intraduzione italiana,il poeta piemontese. Mi piace pensare che qualcuno ai suoi funerali abbia citato Costa, parlando di lui Flamini era davvero un piemontese degno della “Rassa nostrana”,”dritt e sincer,testa quadra”fino all’ultimo respiro. Una razza ,purtroppo, in estinzione.

 

*direttore del Centro Pannunzio

(foto: Associassion Piemonteisa)

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