“…poi s’aggiustó la barbonica sulle ginocchia, regoló, le cinghie e partí, sparato con La formica rossa, trascinando tutti nel canto all’infuori del Gianí che, per il casót, non ricordava piú, chi avesse fatto in prima mano cinque e uno sei e uno sette…”. Uno dei più fortunati romanzi di Benito Mazzi, giornalista e scrittore di talento, s’intitola proprio “La formica rossa”, dal titolo della canzone che rappresentava un vero e proprio cavallo di battaglia per chi suonava nelle osterie e nelle feste popolari di Vigezzo negli anni dell’immediato dopoguerra ( “E la furmìa rusa la rampia sù pal mùr, cun la camisa cùrta la mustra tùt ul cùl”). La valle Vigezzo, la “valle dei pittori”, con i suoi sette comuni che si distendono da Druogno a Re, è la “patria” di Benito Mazzi, il luogo dell’anima dove raccoglie gli spunti per le sue storie, dal “Piano delle streghe” a “La formica rossa“, da “La valle del miracolo” a “La ragazza che aveva paura del temporale“, solo per ricordare alcuni titoli dei suoi innumerevoli lavori. Scrive bene, Mazzi. E inchioda il lettore, pagina dopo pagina, a queste storie di confine, su quest’altipiano stretto tra le montagne sul crinale della frontiera con la Svizzera. Ma “La formica rossa” é molto più di un romanzo: è l’autobiografia dell’autore, la storia di una comunità, delle sue tradizioni e della cultura di una valle alpina, un atto d’amore per la sua gente e il suo dialetto espressivo e colorito. Quando nelle vallate alpine e nelle campagne imperava la miseria anche le volpi affamate si spingevano alle porte dei paesi e “abbaiavano” come cani. Era il tempo, per dirla con Mazzi, in cui “ i più fortunati tra gli uomini avevano il posto in ferrovia, nella Vigezzina, o si seccavano i polmoni a oncia a oncia nei forni a Domodossola; agli altri non restava che dire sì ai mercanti di boschi e rompersi la schiena dietro le teleferiche e nei canaloni a inviar giù bore, con la socia della ranza sempre lì pronta a tirargli lo sgambetto”. L’incidente mortale, per i boscaioli, era sempre in agguato e bastava una piccola disattenzione per rimetterci la pelle. “Chi aveva ancora energie da spendere – scrive Mazzi – alla festa tagliava il fieno nei prati e di notte viaggiava di contrabbando coi canarini (la guardia di finanza, ndr) dietro a soffiargli sul collo. A vangare, seminare e regolare la magra campagna provvedevano le donne. E anche alle bestie. Le donne e i vecchi. Con la rela che girava c’era poco da sfogliar verze”. Come dire che, con la fiacca che c’era, non era proprio il caso d’essere ottimisti e occorreva stringere oltre alla cinghia anche i denti. La penna di Mazzi anima una folla di personaggi che irrompono nelle vicende narrate, con il loro modo di parlare e di prendere la vita di tutti i giorni che affascina, coinvolge, fa pensare. In questo suo lessico famigliare s’incontrano la maestra Lina ,mamma dell’autore, l’Albért – suo padre – e il fratello Lauro, insieme a quell’umanità varia del Cicia, l’Andre, il Luganiga, il Jepe, il Gianca, la Gianna, il Giampi, il Fede e tutti gli abitanti della vigezzina Re, il paese del Santuario della “Madonna del sangue”, dove la vicenda è ambientata. Benito Mazzi – giornalista, narratore e saggista – ha pubblicato per le più importanti case editrici decine di libri ed è tradotto in diversi paesi europei e negli Usa. Il suo legame con la valle dove è nato e da sempre abita è stato il filo conduttore di gran parte delle sue storie, come nel caso di “Fam, Füm, Frecc. Il grande romanzo degli spazzacamini”, edito da Priuli & Verlucca. Tra l’altro è l’autore di alcuni libri sul ciclismo (“Palmer, borraccia e via”,” Morello, la fugascìna e la febbre del Giro”,” Coppi, Bartali & Malabrocca”, “Kubler,Koblet,croci torti e pianezzi”) molto belli e appassionanti. Il tempo dell’infanzia e dei ricordi, della “formica rossa” suonata nelle osterie e nelle balere, passa e lascia una punta d’amaro anche in Mazzi quando riflette che“..ne erano passati di anni, eppure sembrava ieri il tempo delle elementari. Com’era mutato il paese!. Da bocia mi vergognavo di chiamare mio padre in italiano, mi vergognavo del suo vestire in ordine, con cravatta e colletto inamidato; ora a vergognarsi era chi parlava in dialetto, chi indossava le braghe alla sbof di fustagno… La Svizzera coi suoi franchi aveva profondamente modificato uomini e cose… La gente, invece di godere assennatamente del nuovo benessere, non ne aveva mai a basta,s’affannava dietro qualcosa di indefinito, di irraggiungibile, era inquieta, fredda come le case, non avvertiva più il piacere, la necessità di stare unita come quando abbaiava la volpe…”. E allora, non potendo rovesciare la clessidra e tornare indietro nel tempo, leggendo e rileggendo “La formica rossa” si può almeno immaginare quel mondo, apprezzandone i valori che saranno stati anche semplici ma certamente sani e genuini.
Marco Travaglini
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