Un fiume di soldi passa dalle casse di una società all’altra nel gran bazar del pallone che vede i giocatori cambiare casacca a suon di milioni in questi afosi giorni d’estate. Il calcio giocato offre solo qualche scampolo d’amichevole o dei tornei dove la posta in gioco mobilita ben poche energie da parte dei protagonisti in maglietta, “braghe”corte e scarpe bullonate. Quelle che un tempo erano le “bandiere” dei vari club, giocatori “attaccati alla maglia” fino ai limiti della propria carriera pedatoria, non esistono più, tolta qualche rarissima eccezione ( come nel caso del romanista Francesco Totti che D’Alema ha definito “una risorsa per il paese”, precisando che “in dieci minuti può cambiare le sorti di una partita perchè la classe è intatta e non si rottama con l’età” ). Oggi Gonzalo Higuaín, bomber e leader del Napoli diventa juventino per la “modica” cifra di 94 milioni e Paul Pogba, il perno della Juventus del dopo-Pirlo ( che il Milan, a suo tempo, aveva scaricato ), s’avvia oltre Manica, in direzione di Manchester dove vestirà all’Old Trafford la maglia dei “red devils” dello United. Costo dell’operazione? Si parla di oltre cento milioni. Forse sarebbe il caso di tornare al tempo in cui, più che i soldi, erano le passioni e l’influenza – per dirla alla Brera – della dea Eupalla, protettrice del calcio e del bel gioco, a muovere la sfera di cuoio tra i ventidue uomini sul campo. Una di queste storie è certamente quella di Giovanni Lodetti, grande mediano del Milan ai tempi di Rivera, classe 1942,lodigiano di Caselle Lurani, che sostiene da sempre che “i giocatori di oggi sono troppo viziati” e che “è meglio il calcio delle periferie”. E lui, che correva come un dannato sui campi, con quel mento sporgente che gli valse il soprannome di “Basléta“, sostenuto dalla passionaccia di giocare al calcio, è stato tra quelli coerenti a questo modo di interpretare la vita sportiva. Non che i soldi facessero schifo, anzi. Soprattutto per chi, in famiglia, ne aveva visti pochi. In una intervista, ricordando la sua prima partita da professionista con la maglia rossonera, raccontò: “ Il primo choc è stato dopo l’esordio in A, a Ferrara. 3-0 per noi. E martedì, all’Arena, Maldini mi mette in mano il mio primo premio-partita, 180 mila lire. Diciotto fogli rosa, tant’è che li chiamavano salmoni, grandi come mezzo tovagliolo. Per paura che in tram me li rubassero sono andato a piedi dall’Arena al Corvetto e prima di cena li ho consegnati a mio padre, che guadagnava 45mila al mese. Li ha presi, li ha contati lisciandoli sul tavolo, dopo il sesto già mia mamma piangeva. E alla fine papà m’ha detto “brao Gioannin” e se li è messi in tasca. Un po’ ci sono rimasto male, speravo che almeno un deca ma lo lasciasse, ma mi è passata subito”. Una “vita da mediano”, quella del figlio di un falegname, con una mamma che gli ripeteva “ el dané dana”, il danaro danna, quasi fosse un modo per consolarsi di essere poveri. Grazie a quei polmoni inesauribili che spinsero Liedholm a soprannominarlo “Bikila”, come l’atleta etiope che vinse a piedi nudi la maratona alle Olimpiadi del ’60 a Roma, Lodetti – con il Milan di Gipo Viani, Nils Liedholm e Nereo Rocco – vinse due scudetti (1962, 1968), due coppe dei Campioni (1963, 1969), una coppa Intercontinentale (1969), una coppa delle Coppe (1968) e con la maglia azzurra della Nazionale (17 presenze, 2 gol) fu campione d’Europa nel 1968. Poi, per ragioni di mercato, venne ceduto ai blucerchiati della Sampdoria e, quattro anni dopo, al Foggia per terminare, nel 1978, la sua carriera da professionista con il Novara in serie C. Una carriera di tutto rispetto, che il “Basléta” interpretò con lo spirito di sempre, portandosi da solo la sua valigia anche quando era appesantita dalle amarezze come nei giorni del rientro anticipato dai Mondiali di Messico ’70, rimasti nella memoria per il 4-3 alla Germania e per i sei minuti di Rivera nella finale (persa) con il Brasile di Pelè. La storia è nota. Convocato per il mondiale messicano, Lodetti venne sacrificato dal c.t. Valcareggi quando già si trovava in ritiro con il resto della squadra. La vicenda è curiosa: lo juventino Anastasi si infortunò durante la preparazione e il selezionatore chiamò due possibili sostituti, ovvero Prati (Milan) e Boninsegna (Inter). Non riuscendo a decidere quale dei due tenere, li confermò entrambi, ma a quel punto fu Lodetti a dover tornare a casa e la proposta di passare comunque l’estate in Messico per una vacanza gratis con la sua famiglia venne sdegnosamente rifiutata con un comprensibile moto d’orgoglio. In aggiunta, a far più male, al ritorno in Italia, il Milan lo cedette senza nemmeno avvertirlo. E’ ancora Lodetti a commentare:“ Allora non c’erano procuratori e nemmeno il sindacato dei giocatori. Ti cedevano e basta. Dal Milan alla Samp voleva dire non giocare più per gli scudetti, né per le coppe, ma per salvarsi magari all’ultima domenica. Mi è cascato il mondo addosso anche se poi, alla Samp, mi sono trovato bene”. Ma la parte più bella della storia, quella che servirebbe ancora oggi a tanti, inizia proprio dalla fine della carriera, dal giorno dell’addio ai campi. E’ in quel momento che la passione, nata sul campetto dell’oratorio, dietro la chiesa di Caselle Lurani, nella Bassa lodigiana, si rifiutò di andare in “pensione”. Così, una mattina, mentre guardava dei ragazzi giocare a calcio nel parco di Trenno ( ora parco Aldo Animasi,ndr), nei pressi di San Siro, vide che la squadra che perdeva aveva un giocatore in meno. “Avevo smesso da poco, era ora di dire basta, a 36 anni”, racconta Lodetti. “Non resisto e vado dietro al loro portiere: “Scusa, mi fate entrare?” Quello si volta e mi dice, a bruciapelo:”Ma dai, qui siamo tutti giovani”. Insisto: “Gioco anche in porta”. Alla fine uno mi fa segno di entrare e dopo un po’ mi dice “Sai che sei buono? No, dico sul serio. Come ti chiami?”. Allora gli racconto che ho fatto tornei aziendali. Avevo un giubbotto con scritto “Ceramica”e gli dico “Mi chiamo Ceramica“. Mi hanno guardato un po’ strano ma mi hanno accettato e da quel momento, per più di vent’anni, ogni sabato mattina “Ceramica” se n’è andato al parco di Trenno a giocare, a divertirsi di nuovo: passa Ceramica, tira Ceramica, bravo Ceramica. Solo due anni dopo un tizio mi ha smascherato“. Un uomo in bici, in su con gli anni, l’aveva squadrato per bene e poi aveva detto “ Hei, ragazzi, ma lo sapete chi è quello lì? È uno che giocava nel Milan. E’ il Lodetti. Un giorno l’ho visto cancellare Bobby Charlton”. Finito l’anonimato è continuata la passione. “ A mia moglie dicevo che andavo a giocare a tennis, sennò stava in pensiero. Le scarpe da calcio numero 42 coi tacchetti di gomma me le portavano a Trenno. Solo quando mi sono incrinato quattro costole ha capito che non giocavo a tennis“. Questa è la storia di Giovanni Lodetti, che giocava a calcio con Gianni Rivera e con i ragazzini. Una di quelle storie che ricordano ancora le immagini nelle foto in bianco e nero, dove i contrasti erano più netti e visibili mentre oggi , nel bagliore dei flash e nell’orgia mediatica, si fa fatica a raccapezzarsi. Ancora oggi Lodetti, a chi gli chiede quale sia la differenza tra il calcio dei suoi tempi e quello di oggi, risponde citando “ il controllo telefonico di Cattozzo”, un tecnico del Milan che telefonava a casa dei giocatori alle 22.45. “ Se non rispondevi, multa. Invece a quell’ora o anche più tardi molti oggi escono di casa per andare in discoteca. Io ci ho messo quasi due anni a farmi una 600, Niang aveva la Ferrari appena arrivato al Milan. Ma non so se sono felici, hanno tutto in apparenza ma non la passione“.
Marco Travaglini
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