La Sala Blu ha ospitato la presentazione del libro dell’autore iraniano di lingua olandese Kader Abdollah
È arduo credere che sotto gli occhialoni e i folti baffoni a spazzola, un viso un po’ da Groucho Marx, il carattere istrionico, il vocione che scandisce un inglese dove si mescolano accenti levantini e olandesi, si celi una storia difficile di esilio, fuga dall’Iran khomeinista, la morte dei fratelli a causa della repressione politica, la lontananza dall’anziana madre cui manda via Whatsapp le foto di tutti i posti in cui va come conferenziere, ma questo è il riassunto dell’esistenza dello scrittore Khader Abdollah, uno degli invitati al Salone del Libro 2018, di sicuro tra i più appropriati ad affrontare i temi e le famose “cinque domande” che hanno fatto da fil rouge all’edizione. Ora, giochiamo subito a carte scoperte: chi scrive non aveva la minima idea di chi costui fosse, tutto ciò che sa lo ha intuito dal candore e l’intensità con cui il personaggio ha parlato di sé alla conferenza e da una rapida scorribanda su Wikipedia, né aveva mai letto alcunché, come persevera a fare pur facendosi la blanda ed accidiosa promessa di colmare quella che all’improvviso gli è sembrata una, se non imperdonabile, certamente fastidiosa lacuna. Quello che si offre ai lettura è quindi semplicemente il resoconto di un’oretta di dialogo tra lo scrittore e i suoi intervistatori, seguito comodamente sprofondato in una delle poltrone della Sala Blu, tra i sonni tentatori del dopopranzo. Tutto è figlio del caso, o quasi: la scelta era tra questo intervento e quello sulla Transiberiana allo stand “Romania” e solo all’ultimo l’orientalismo giovanile di chi scrive ha preferito il più caldo e vicino Medio Oriente alle visioni dell’estremo est d’oltre Urali; ad ogni modo, non può dirsi pentito della decisione.
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L’incontro presenta l’ultima fatica di uno scrittore molto celebre nei Paesi Bassi: esule da una trentina d’anni in Olanda, ha ormai da tempo deciso di scrivere in neerlandese “ Per ringraziare il paese che mi ha ospitato, perché ormai in persiano potrei scrivere un libro di settecento pagine, ma senza metterci l’anima come faccio con l’olandese. A parte il mio diario, che mi ostino a redigere nella mia lingua madre, l’unica cosa che forse i miei parenti potranno mai leggere”. E la sua anima si è così impastata della cultura olandese, anzi, come sottolinea Abdollah, europea, da aver ottenuto nella sua nuova patria diversi premi e il riconoscimento di aver scritto uno dei più bei libri di sempre nella lingua di Rembrandt, nonché il Premio Grinzane Cavour 2009. La sua ultima fatica si intitola “Uno scià alla corte d’Europa” (Iperborea, 488 pp. 19.50 euro) e narra in forma romanzata il viaggio dello scià di Persia alla fine dell’800 in Europa, un’Europa, nelle parole dell’autore, che era in via di formazione e stava cercando di darsi un’identità, quella della Belle Epoque, che ha dominato e influenzato il mondo, ci fa capire Abdollah, praticamente fino ad oggi, un oggi in cui l’Europa si trova nuovamente nella necessità di capire dove andare e che cosa fare. È un libro che nasce dall’invidia, l’invidia dell’autore – i cui antenati hanno incrociato davvero l’esistenza del sovrano – nei confronti di un uomo che non amava essere re, che ha lasciato un pessimo ricordo in patria ma affascinato dalla cultura europea dell’epoca, ribollente di invenzioni, scrittori e pensatori, che poté attraversare il continente in treno in lungo e in largo, incontrando i maggiorenti dell’epoca, la Regina Vittoria, Bismarck, la Russia, dove lo scià, appassionato lettore di Tolstoj, passa a dieci chilometri dalla dacia dell’autore di “Guerra e Pace” senza saperlo e tirando dritto fino a Mosca.
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Una disavventura, osserva l’autore, che dimostra come il sovrano, nonostante la sua buona volontà e il fascino di cui risentiva verso la nostra Europa, spesso guardasse senza vedere, senza capire fino in fondo, lasciandoci sfuggire le occasioni uniche: Abdollah pone rimedio alla vicenda immaginando che Tolstoj venga effettivamente chiamato ad incontrare il Re dei Re e, sfruttando il personaggio della principessa Banu, si infila nelle corti e nelle vicende dell’Europa dell’epoca con più libertà di quelle che l’aderenza alla storia ufficiale gli permettono.Un atto questo, scherza l’autore, che diventa catartico: “ora mi sento più potente del re, ora la mia invidia è sopita, perché lo scrittore può inventare il modo in cui i fatti sono andati”. Ma il romanzo non si inerpica soltanto per i mille sentieri della fantasia letteraria, o sulla libertà di fingere ed ingannare: torna, e altrettanto fanno intervistato ed intervistatori, all’attualità, all’incontro scontro tra oriente e occidente, all’integrazione di culture e di uomini.Il confronto tra la nobile e antica cultura persiana e l’occidente è una vicenda antica, il regno degli scià era già una metafora del relativismo e degli orizzonti diversi di genti lontane nei lavori di Montesquieu e di altri illuministi, e Kader Abdollah lo sfrutta sapientemente per parlare di culture che si mescolano, non solo nella dimensione “alta” dello scambio intellettuale, ma anche in quella quotidiano dei flussi migratori.
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Una delle ragioni principali per cui si è messo a scrivere il romanzo, racconta, è stata la terribile immagine del piccolo Aylan morto sulla battigia, ma a questo si mescola un punto di vista sicuramente originale, e molto intelligente, sulle questioni all’ordine del giorno sui nostri giornali. Tra il serio e il faceto, ricorda come l’anno scorso, durante una sommossa degli abitanti di un paesino olandese che non volevano sentirne di ospitare alcuni rifugiati, lui si sia recato per capire le ragioni di tanto odio, per ispirarsi a scrivere e prendere il polso della realtà: dopo aver sentito i cori, le ingiurie, i lanci di pietre, anche lui, a un certo punto, si è sentito trascinato nella folla, e ha provato il piacere indescrivibile di poter gridare anche lui con gli altri “ Refugees go home”, sentendosi “un vero maschio olandese bianco”; è questo quello che vogliamo, è questo quello che noi stiamo difendendo, il nostro privilegio di essere occidentali? “Siete liberi di amare e odiare gli altri, capisco le vostre paure, anche se non giustificate, ma fatelo a viso aperto, non lasciate che il vostro odio covi in silenzio” conclude “ perché dovete sempre ricordarvi che questo è il vostro tempo, tra venti o trent’anni chissà dove sarete, probabilmente sostituiti da una generazione che avrà idee completamente diverse dalle vostre. Anzi, fate la prova, invitate un immigrato, un rifugiato, un profugo siriano a casa vostra, offritegli pane e formaggio e sussurrategli sette volte nell’orecchio ‘ ti odio, ti odio, ti odio!’. È probabile che il giorno dopo vi sveglierete pensando ‘ehi, questi migranti non sono poi così male!’”.
Andrea Rubiola