Torino e la scuola

Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino

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Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
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Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

7  Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino

C’era una volta una ragazzina che aveva capito che cosa le sarebbe piaciuto fare da grande. Un giorno la piccola tornò da scuola e disse ai genitori: “io voglio andare al liceo artistico!”, ma i due adulti presero la sua affermazione come una barzelletta, si misero a ridere e replicarono: “tanto tu andrai al classico”. Una storia breve, triste e autobiografica.
Difficile, se non impossibile, per me è scrivere questo articolo mantenendomi “narratore esterno”, senza raccontare della mia personale esperienza “giobertina” e senza ricordare gli aneddoti di quegli anni che, come mi è già capitato di dire, si vuole che passino in fretta mentre li si vive e li si rimpiange quando poi sono trascorsi.

Del “mio” Gioberti (ho conseguito la maturità classica nel 2009) ricordo le aule prive di LIM, odorose di gessetto da lavagna, rammento le pareti smunte, sulle tinte dell’ocra, i banchi rettangolari dotati di sottobanco, ossia quegli spazi perennemente ricolmi di fogli piegati, di carta delle merendine, di bigliettini dimenticati che mamma mia se fossero caduti all’improvviso! E poi l’armadio di classe, strabordante dei libri che non sempre riportavamo a casa e i grandi finestroni che si affacciavano sul cortile quadrato, che dall’alto mi ricordava quello di una prigione e ancora i lunghi corridoi e i caffè presi sul suono della campanella. “E”, “e”, “e” tante congiunzioni per un’infinità di momenti che non so se posso descrivere così apertamente.
Ma continuiamo con la storia della ragazzina inascoltata. La sventurata non rispose alla replica di mamma e papà, perché a tredici anni non è facile né essere presi sul serio, né rendersi conto di quanto sia importante la scelta della scuola superiore. L’ignara ragazzina obiettò che almeno voleva scegliere in quale liceo classico si sarebbe iscritta e, dopo qualche litigata, riuscì ad avere la meglio almeno su questo punto. Dopo un’attenta analisi di mercato l’inconsapevole tredicenne si convinse che il Gioberti sarebbe stata la sua opzione definitiva: scuola “politicizzata”, di fronte all’Università e le leggende che lo definivano “il più leggero tra i classici”, in cui si facevano autogestioni e manifestazioni a non finire. Così alla domanda: “Allora hai scelto il Gioberti?”, “la sventurata rispose”, e disse “si”.

Il liceo Gioberti è una delle più antiche istituzioni scolastiche presenti a Torino, la storia della scuola si intreccia non solo con quella del capoluogo piemontese ma anche con le trasformazioni politiche, sociali e legislative del Regno d’Italia. L’istituto nasce grazie alla politica sull’istruzione pubblica che prevede l’apertura di Ginnasi e Licei “governativi” o “regi”.
Per essere più precisi è utile ricordare la Legge Casati, che, nel 1859, codifica l’educazione umanistica in due successivi e distinti corsi di studi: il Ginnasio, corso inferiore della durata di cinque anni, detto di “Grammatica”, ed il Liceo, ossia un corso superiore triennale detto di “Filosofia”. Il 4 marzo 1865, sotto il Ministero Lamarmora, viene pubblicato il Regio Decreto n°229, con tale documento vengono istituiti i primi sessantotto licei classici del Regno d’Italia e ad ognuno di essi è assegnato il nome di un grande personaggio italiano. Tra questi sessantotto istituti compaiono il Liceo Cavour e il Liceo Gioberti, la cui denominazione celebra due eminenti protagonisti della nostra storia.

Le cose non accadono mai per caso: lo “spaventoso” Liceo Cavour nasce (almeno come titolazione) in contemporanea al Liceo Gioberti, un po’ come i “Sith” di Guerre Stellari che sono sempre in due.  La nascita dei Licei di Stato risponde al desiderio di favorire una convergenza di intellettuali intorno al nuovo Regno italiano; a sostegno di tale intento è anche istituita una “Festa Letteraria” da tenersi annualmente ogni 17 di marzo in tutti i Licei del Regno, con il nome di “Solennità Commemorativa degli illustri Scrittori e Pensatori Italiani.”
Una festa antica, forse col tempo caduta in disuso, almeno, da che ne so io, il 17 marzo noi “giobertini” non abbiamo mai festeggiato nulla, anzi, non ricordo che le feste fossero ammesse a scuola: comportano inutile dispersione d’energia e sottraggono tempo utile ai compiti in classe!

È opportuno precisare che le due istituzioni scolastiche prese in esame in realtà esistono già anche prima del 1865, ma sono conosciute con un altro nome. Il Liceo Gioberti è in origine il Regio Collegio di San Francesco da Paola, con sede nel complesso conventuale dei Frati Minimi, edificato a partire dal 1627 in Contrada Po, grazie alle ingenti donazioni di Maria Cristina di Borbone-Francia, (moglie di Vittorio Amedeo I di Savoia), e diretto a partire dal 1821 dai Gesuiti. Il Cavour, invece, in origine conosciuto come Collegio dei Nobili, è un’istituzione risalente al XVI secolo un tempo situato presso il convento del Carmine. Tra i licei, secondo quanto riportato nei documenti storici, il Gioberti è sempre stato l’istituto più frequentato. Chissà se tale moltitudine di scolari ha commesso un “errore di valutazione” simile a quello iniziale della ragazzina? E chissà quanti ignari studenti ancora si lasceranno ingannare dalle malelingue, iscrivendosi ad una scuola che per anni -proprio quelli in cui l’ho frequentata io- è stata considerata pari al Liceo Cavour, emblema assoluto della severità e del rigore?
Vorrei altresì ricordare, prima di proseguire con la storia della nostra fanciulla, che nel 1969, proprio il Liceo Gioberti, è stato sede della prima “Commissione Fabbriche” mai costituita in una scuola superiore italiana, anche citata nel film “Vento dell’est” di Jean-Luc Godard.

Torniamo a noi. La ragazza ben presto si rese conto che quella scuola non le calzava proprio a pennello, ma era anche evidente che non le sarebbe stato permesso cambiare corso di studi, quindi era meglio rimboccarsi le maniche e tapparsi il naso. “Tyche” venne in soccorso della studentessa e la inserì nel miglior gruppo classe che avrebbe mai avuto anche in futuro. I compagni erano proprio quelli “giusti” per affrontare quell’avventura. Con il tempo l’amicizia e la complicità limarono gli sforzi dello studio e le risate sommesse – mai durante l’ora di greco- resero la prova sopportabile. Ma voi che siete lettori curiosi vorrete sapere qualche dettaglio in più. Da narratore onnisciente posso dirvi che c’era un’insegnate temutissima, che si mostrò per la primissima volta a noi studenti durante un intervallo, asserendo che già tutti dovevano sapere chi fosse e che il giorno dopo si sarebbero corretti i compiti delle vacanze. Va da sé che in quelle ore di lezione a stento si respirava. Vi era poi un’altra docente, tanto preparata ma non sempre precisa, che alla lavagna era solita scrivere “parola importante” anziché il termine o il nome che sarebbe stato meglio ricordare. Vi posso dire che alla spocchia del primo anno corrisposero altre interrogazioni svoltesi in clima più disteso, addirittura mangiando caramelle e “chupa-chups” oppure versioni così commentate: “bella storia ma non è quella che c’è scritta qui”.

Vi posso raccontare di un “maiale volante” appeso al soffitto, comprato grazie ad una colletta di classe proprio come “mascotte” porta fortuna. E quanto ci sarebbe ancora da dire. Quanti pianti fece la mattina la ragazzina mentre andava a scuola, quante notti passò a studiare per poi prendere talvolta solo delle misere sufficienze, quante sconfitte ma anche quante vittorie. E quante rinunce: inconciliabile con l’intensità dello studio la scuola di danza, che ha dovuto lasciare proprio quando stava imparando a ballare sulle punte. Le scarpette rosa rimasero un ricordo riposto in solaio.

Ma noi abbiamo anche un altro discorso da portare avanti, quello degli storici studenti torinesi: tra i tanti coraggiosi che affrontarono i temibili professori del Gioberti (allora Ginnasio San Francesco da Paola di Torino) ci fu niente meno che Giovanni Giolitti (1842-1928), il grande politico italiano, più volte Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel 1901, Vittorio Emanuele III affida l’incarico di formare il governo a Giuseppe Zanardelli, uno dei principali esponenti della Sinistra; nel 1903 Zanardelli, dopo aver concesso un’amnistia ai condannati politici e aver ristabilito una libertà di associazione, seppur limitata, si ritira dall’incarico a causa di una malattia. Nello stesso anno viene chiamato a capo del governo Giovanni Giolitti, ministro dell’interno; egli tiene la carica per quasi dieci anni, periodo comunemente definito “età giolittiana”. Giolitti, liberale ed esponente della Sinistra Costituzionale, si preoccupa di unire gli interessi dei proletari con quelli dei borghesi e degli operai, a tal proposito si dimostra abilissimo nel riuscire a trovare un neutrale equilibrio tra le varie forze in gioco, infatti da una parte favorisce l’industria e dall’altra promuove la legislazione sociale. Giolitti sostiene che lo Stato deve essere “super partes” rispetto agli interessi delle varie fazioni. Non a caso si può definire la parentesi giolittiana democratica e liberale.  L’intelligente perizia politica, nonché la dirittura morale, dello statista è testimoniata anche dall’ampio spazio che egli concede alla libertà di sciopero e dal modo in cui riesce a mantenere l’ordine pubblico durante le varie manifestazioni, in modo perentorio e vigilato, ma sempre evitando repressioni violente.

Nel corso del decennio dell’”età giolittiana”, egli perfeziona la legislazione in favore dei lavoratori più anziani e degli invalidi, emana nuove norme sul lavoro per le donne e per i lavoratori giovanissimi, inoltre estende l’obbligo dell’istruzione elementare fino al dodicesimo anno d’età. Giolitti favorisce poi l’attuazione di migliori retribuzioni stipendiarie, accrescendo così le possibilità di acquisto delle classi lavoratrici. Da ricordare anche gli interventi nel campo sanitario, come la distribuzione gratuita del chinino contro la malaria, e l’intenso programma di lavori pubblici, che comporta la nazionalizzazione della rete ferroviaria. Uno dei provvedimenti più importanti del governo Giolitti è l’estensione del diritto di voto: secondo la nuova legge del 1912 vengono ammessi al voto tutti i cittadini di sesso maschile purché abbiano compiuto 21 anni, se in grado di leggere e scrivere e con servizio militare svolto, o 30 anni, se analfabeti e non chiamati sotto le armi. Il numero degli elettori sale così da tre milioni e mezzo a otto milioni e mezzo su un totale di 36 milioni di persone.

Mi sento di poter dire che forse un po’ dell’integrità d’animo di Giolitti derivò sicuramente dai suoi studi liceali, anche se non fu proprio uno scolaro modello, come racconta egli stesso.
Ho voluto un po’ ironizzare in questo articolo che più di altri sento “mio”, ma ora siamo seri: la formazione che ho ricevuto è senza dubbio impareggiabile, quegli anni di duro lavoro, di sforzi e di rinunce e di crescita intellettuale mi hanno aiutato ad affrontare le prove successive e mi hanno effettivamente dato quella “formazione classica che apre tutte le porte”.
Com’è finita la storia della ragazzina? Beh ora la fanciulla (è ormai chiaro che sto parlando di me) è cresciuta, ha realizzato il suo sogno di frequentare l’Accademia di Belle Arti e ricorda un po’ in filigrana i bei momenti passati, quelli che l’hanno aiutata a superare le difficoltà che all’epoca sembravano così insormontabili. La ragazza ancora pensa a quel laboratorio liceale pomeridiano che l’ha portata a fare teatro di strada a Mentone e che in un qualche modo l’ha supportata nella scelta del percorso universitario. Pensa alla cara insegnante di educazione fisica che dirigeva il corso, che spesso sul palco la prendeva in braccio e la faceva volare come “Il Gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach. Il “mio” Gioberti è sempre lì, in centro, con le pareti tappezzate di manifesti politici rattrappiti dall’umidità, e ora ammetto che l’unico modo che ho trovato per superare i miei traumi adolescenziali è stato quello di intraprendere, a mia volta, la bella carriera di insegnante.

Alessia Cagnotto

Studenti torinesi: Primo Levi al d’Azeglio

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Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
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6 Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio

“Panem et Circenses”, con queste parole Giovenale, il grande autore satirico romano (I-II sec. d.C.), denunciava una politica manipolatrice, che utilizzava lo svago e i futili passatempi per ingannare il popolo, così che l’apparente benessere della massa corrispondesse al più concreto benessere politico.
Nella nostra epoca contemporanea la celebre locuzione potrebbe variare nei termini, ma non credo poi molto nel significato. Grazie alle numerosissime app dei nostri smartphone risolviamo comodamente da casa il problema del “panem”, giocando a farci portare a domicilio qualunque tipo di cibo ci solletichi e poco ci importa di chi deve appagare celermente il nostro stomaco, né delle difficoltà in cui potrebbe incorrere il nostro corriere nel tragitto. Più o meno secondo la stessa modalità soddisfiamo i “circenses”, le piattaforme multimediali aumentano esponenzialmente a velocità impressionante, la nostra unica difficoltà è rimanere sempre aggiornati per poter scegliere l’offerta migliore e quindi trascorrere il pomeriggio comodamente sul divano, guardando quel film di cui tutti parlano, oppure la serie Tv più in voga al momento. E se non ci sentiamo così tanto “passivi”, allora possiamo ricorrere ai giochi, alla playstation, alla wii, ai giochi on line e via discorrendo. E non sto parlando di questo drammatico periodo, in cui stare a casa ovviamente non è un obbligo, ma un dovere nei confronti degli altri e di noi stessi; mi riferisco a prima, a quando le abitudini non erano poi così diverse da ora, ma nessuno si lamentava.

Non è il caso di sentirsi “complottisti”, ma di certo dà da pensare tutta questa tecnologia “monoporzione”, che impegna e che immerge totalmente, che unisce, ma sempre attraverso uno schermo, e che ci distrae dalla vita vera, quella che scorre fuori dalla finestra, mentre noi non la guardiamo.
Che si può fare per sconfiggere questa apatia dilagante, questa superficialità di massa, questa abitudine all’approssimazione? Si può reagire. Come? Attraverso la cultura e la conoscenza, andando ad investire là dove non c’è rimasto quasi niente, andando a riporre fiducia nei professionisti dell’educazione, riconoscendo nuovamente l’importanza e l’essenzialità della scuola.
Nell’opera “Se questo è un uomo”, nel capitolo “ il canto di Ulisse”, Primo Levi ricorda di aver cercato di insegnare l’italiano al compagno di lager Jean, spiegandogli il XXVI dell’”Inferno” dantesco, la cui parte essenziale è dedicata alla “orazion picciola” dell’eroe greco che dice ai compagni: “fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza”. La tragedia odissiaca mantiene una precisa funzione esemplare, vuole essere un monito per tutti gli uomini, un proposito al di sopra di ogni affetto contingente, all’infuori di ogni preoccupazione di pericolo personale. L’autore combatte così la brutalità e l’ignominia di Auschwitz, appellandosi, in questa parte del testo, alla grandezza invincibile del Sommo Poeta, padre della lingua italiana e indiscusso simbolo di cultura universale.

Non a caso ricordo Primo Levi, perché è proprio di lui che vorrei raccontare qualcosa oggi, sempre continuando nel nostro percorso sulla scuola e sugli studenti torinesi.
Egli nasce a Torino, il 31 luglio del 1919. È stato testimone diretto delle deportazioni naziste, i suoi scritti sono una testimonianza sempre attuale e passai notabile a proposito di quegli anni bui che continuano a suscitare vergogna alla coscienza degli uomini. Di salute cagionevole, Primo era un bambino sensibile e fragile, caratteristiche che lo hanno portato a trascorrere un’infanzia sostanzialmente solitaria. Nel 1921 nasce Anna Maria Levi, la sorella minore a cui lui rimane sempre affezionato.
Nel 1934 Primo viene iscritto al Ginnasio del Liceo Massimo D’Azeglio di Torino, fin da subito si palesa un eccellente studente, dimostrando bravura e preparazione sia nelle materie scientifiche che in quelle letterarie. Da non dimenticare che il primo anno avrà niente meno che Cesare Pavese come supplente di italiano, anche se solo per pochi mesi. Dopo le scuole superiori, Primo frequenta la Facoltà di Scienze, che termina con una laurea con lode nel 1941: sono anni importanti per il brillante giovane, sia per la crescita personale, sia per le amicizie che riesce a stringere tra i banchi di scuola e i laboratori, rapporti sinceri che dureranno per tutta la vita. Eppure c’è un dettaglio da sottolineare, sull’attestato di laurea vi è scritto: “di razza ebraica”. Intanto la guerra incalza, ed egli nel 1942 si trasferisce a Milano, nel 1943 si rifugia ad Aosta e si unisce ad un gruppo di partigiani. Il suo coraggio però non lo ripaga con la stessa moneta e di lì a poco Levi cade prigioniero dei nazisti; il giovane viene deportato prima al campo di Fossoli (Modena) e poi, all’inizio del ’44, nel lager di Monowitz, che faceva parte del sistema dei campi di Auschwitz. Il resto come si suol dire è storia: impossibile riprendersi da tale drammatica esperienza.

Liberato nel gennaio del ’45 dalle truppe sovietiche, per tornare in patria Levi deve attraversare la Polonia, la Russia Bianca, l’Ucraina, la Romania, l’Ungheria, l’Austria, e infine giunge a Torino nell’ottobre del ’45. Inseritosi nella vita civile, sente comunque il bisogno di raccontare ciò che ha subito.
Scrive “Se questo è un uomo”, romanzo-testimonianza edito nel 1947 e ancora oggi letto a scuola, un libro che forse è nato “per forza”, per dovere di imprimere nella memoria collettiva la violenza e la brutalità di cui l’uomo è capace. In una scrittura lucidissima e misurata, il ricordo della vita nel lager di Monowitz si svolge come in un racconto-diario. Tutto è guidato dal desiderio di capire una realtà che appare oltre ogni razionalità. In quel mondo assurdo, il prigioniero tiene costantemente vigile una ragione impotente di fronte alla terribile epopea di una umanità irrimediabilmente offesa.

Nel 1963 Levi pubblica “La tregua”, in cui racconta il ritorno a casa dopo la liberazione, un singolare momento di “tregua” nella vita. Scrive “Vizio di Forma” (1971), “Il sistema periodico” (1975), un insieme di racconti autobiografici disposti in ventuno capitoletti, “L’osteria di Brema”, “La chiave a stella” (1978), “La ricerca delle radici” e “Se non ora quando?”(1982), nitida ricostruzione delle vicende di un gruppo di partigiani ebrei in Russia. Nel 1986 viene pubblicato un saggio, ultimo lavoro dell’autore, dal titolo emblematico, “I Sommersi e i Salvati”, che ha valore di accorato testamento, un inquieto ritorno dell’autore all’esperienza del lager, e alla necessità di interrogarsi su quell’orrore inesprimibile. Una memoria per tutti, per una società che potrebbe ricadere nel male. Primo Levi muore suicida nella casa di Torino l’11 aprile 1987.Chissà se un po’ del coraggio di questo grande uomo gli venne anche dalla formazione scolastica avuta al Liceo D’azeglio, luogo per definizione dell’”intellighenzia torinese”? La storia del Liceo inizia nei primi anni dell’Ottocento, quando viene istituito il Collegio di Porta Nuova. L’istituzione è prima trasferita nel 1852 presso la Parrocchia degli Angeli, poi, nel 1857, viene nuovamente spostata presso il Collegio Municipale Monviso. Con l’aumentare della popolazione della città subalpina, si sente il bisogno di creare un nuovo liceo classico, oltre ai già presenti licei Cavour e Gioberti, risalenti il primo al 1586 (riceverà la titolazione “Cavour” nel XIX secolo) e il secondo al 1865 (l’Alfieri verrà fondato nel 1901); così nel 1882 viene fondato il Liceo D’Azeglio, intitolato al celebre politico risorgimentale. La scuola comprendeva allora i cinque anni di corso ginnasiale e i tre del corso liceale. All’epoca, gli studenti appartenevano per lo più alla borghesia della zona Crocetta, anche se non mancavano iscritti di altre zone e classi sociali.

Molte sono le figure “dazegline” che hanno rivestito un rilevante ruolo politico e culturale nella storia, non solo di Torino, ma di tutto il Paese. Tra i vari nomi è bene ricordare Umberto Cosmo, Augusto Monti, Zino Zini, Franco Antonicelli. Tra gli studenti, Cesare Pavese (che è stato per qualche tempo anche docente), Giulio Einaudi, Leo Pestelli, Massimo Mila, Luigi Firpo, Vittorio Foa, Tullio Pinelli, Giancarlo Pajetta, Renzo Giua, Emanuele Artom, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Primo Levi, Fernanda Pivano. In tempi più recenti hanno frequentato le medesime aule Mario ed Enrico Deaglio, Paolo Montalenti, Gian Savino Pene Vidari, Lucio Levi, Sergio Pistone, Roberto Alonge, Carlo Ossola. Inoltre, nel 1975, durante gli anni della partecipazione attiva al movimento studentesco, viene eletto presidente del Consiglio d’Istituto Primo Levi, il quale promosse come prima iniziativa un rinnovato impegno antifascista del Liceo.

Un importante fatto sportivo si lega poi al Liceo D’Azeglio: nel 1897, un gruppo di studenti della terza e della quarta classe del Ginnasio, che si ritrovavano assiduamente in Piazza d’Armi per giocare a calcio, fondano niente meno che la “Juventus”. Nel 1900 la squadra esibisce la camicia rosa e la cravatta nera nel primo campionato, che affronta presentandosi con il nome Sport Club Juventus. Nell’attuale sede della squadra è tuttora conservata la panchina che un tempo si trovava in C.so Re Umberto, attorno alla quale erano soliti ritrovarsi i ragazzi fondatori della squadra.
Attraverso i registri e i documenti scritti, sono molte le storie del Liceo che per fortuna possono essere ricordate. Le vicende parlano di legami forti che si crearono tra studenti e studenti, ma anche tra scolari e professori, narrano di incontri il sabato pomeriggio, in un caffè di via Rattazzi tra il “Profe” Monti e i suoi allievi ed ex allievi, o raccontano ancora di quell’episodio che vedeva come protagonista Giancarlo Pajetta, espulso per volontà del Ministero della Cultura con l’accusa di propaganda sovversiva: tale avvenimento era stato così commentato dal professor Monti: “Fu bene una fucina di antifascisti il ‘Massimo D’Azeglio’ in quegli anni, ma non per colpa o per merito di questo e quell’Insegnante, ma così, per effetto dell’aria, del suolo, dell’ ‘ambiente’ torinese e piemontese. Quel Liceo era come una di quelle case in cui ‘ci si sente’; dove i successivi inquilini sono visitati nel sonno – e anche da desti – dagli spiriti, dalle anime.”

Altro episodio testimoniato è il rinvio a settembre della prova di italiano nella sessione estiva degli esami di maturità del 1937 di Fernanda Pivano e del compagno Primo Levi, i due scrittori si erano ritrovati a dover sostenere nuovamente la prova nella sessione autunnale. Quante cose accadono a scuola, quante se ne imparano, quante ci rimangono impresse nella memoria per sempre. Non facciamoci distrarre dalle comodità dell’ultimo momento, ricordiamoci di che cosa è importante, di ciò che ci eleva, di ciò che ci fa crescere sul serio.

Alessia Cagnotto

UniTo: quando interrogavano Calvino

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Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
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Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
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UniTo: quando interrogavano Calvino
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9 UniTo: quando interrogavano Calvino

Lo dico subito: tengo molto al tema di questo articolo e non medierò in nulla la mia passione per l’autore che andrò ad affrontare quest’oggi per la mia rubrica sugli studenti torinesi. Si tratta di uno scrittore che purtroppo a scuola non viene approfondito e che rischia, a mio parere, di non essere sufficientemente conosciuto.
Sto parlando di Italo Calvino, nato nel 1923 a Santiago de Las Vegas, (Cuba), da genitori italiani, entrambi docenti universitari di materie scientifiche. In seguito, nel 1925, la famiglia si trasferisce a Sanremo, dove Italo trascorre l’adolescenza e compie il primo ciclo di studi, infine, nel 1941, si trasferisce a Torino per frequentare l’Università di Agraria. Nel 1943 entra nella brigata comunista Garibaldi. Dopo la guerra, nel ’45, Calvino lascia la Facoltà di Agraria e si iscrive a Lettere e nello stesso anno aderisce al PCI. Alla Facoltà di Lettere di Torino si laurea nel 1947 con una tesi su Joseph Conrad. A Torino entra in rapporto con Natalia Ginzburg e Cesare Pavese a cui sottopone i suoi racconti. Inizia a collaborare con il quotidiano “l’Unità” e con la rivista “Il Politecnico” di Elio Vittorini. Nel frattempo si afferma la celebre casa editrice torinese Einaudi (fondata nel ‘33 da Giulio Einaudi), all’interno della quale collaborano Pavese e Vittorini, di cui Calvino è diventato ormai grande amico. Grazie a Pavese viene pubblicato nel 1947 il primo romanzo di Italo “Il Sentiero dei nidi di ragno”. Le sue doti di scrittore non possono passare inosservate, così due anni più tardi esce una prima raccolta di racconti “In ultimo viene il corvo” (1949), seguito da una moltitudine di altri successi. Nel ‘57 lascia il PCI, e nello stesso periodo collabora con diversi giornali, tra cui “Officina”, rivista fondata da Pier Paolo Pasolini, e dirige con Vittorini la rivista “Menabò”.

Dopo i successi lavorativi, nel 1962, Calvino incontra l’amore, conosce infatti Esther Judith Singer, una traduttrice argentina con cui si sposa – a Parigi- nel 1964. Italo rimane con la compagna nella capitale francese fino al 1980, anno in cui si trasferisce a Roma e pubblica “Palomar”. Nel 1984 lascia Einaudi e passa a Garzanti. Nel 1985 riceve il riconoscente invito da parte dell’Università di Harvard a tenere una serie di conferenze. Italo accetta e inizia a preparare le sue lezioni, ma, purtroppo, viene colto da un ictus improvviso nella sua casa a Roccamare, presso Castiglione della Pescaia. Muore pochi giorni dopo a Siena, nella notte tra il 18 e il 19 settembre. I testi tuttavia vengono pubblicati postumi nel 1988 con il titolo “Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio.” Per quel che mi riguarda, Calvino l’ho scoperto per caso, curiosando tra i molti libri che a casa ci sono sempre stati, giocando a leggere titoli che mi suggerivano storie elaborate e fantasiose. Ricordo una copertina sul verde, leggermente consunta, avvolgeva delle pagine ingiallite: era la trilogia de “I nostri antenati”. È stata una delle prime opere che ho letto con attenzione e totale trasporto, ho da subito amato lo stile lineare e lucidissimo dell’autore, il suo modo semplice di raccontare con misurato rigore, le parole fluide che si dispongono quasi in automatico a comporre le frasi, come pezzi di un puzzle che per forza così si devono incastrare.

Leggere Calvino è bello. Lasciarsi trasportare dalle trame dei suoi racconti è un’esperienza avvolgente, completa, rilassante, ma anche occasione di riflessione, perché Italo non è solo maestro della narrazione, ma anche uomo di grande cultura e forbito pensatore. Calvino tuttavia, prima di diventare un grande fra i grandi, fu uno studente fra gli studenti, e viene un po’ da sorridere all’idea di immaginarselo di fronte all’Università, intento a rivedere gli appunti e a ripassare per gli esami, mentre sfoglia velocemente i propri libri. E fa ancora più meraviglia immaginarselo lì, forse lievemente impaurito, in attesa di essere interrogato da qualche professore per cui provava magari timore reverenziale. Certamente di professori che incutevano, diciamolo pure, “paura” all’Università di Torino ne sono passati molti, e la storia dell’istituzione è decisamente antica. Le origini dell’Università degli Studi Torino risalgono ai primi anni del XV secolo. Dopo la morte improvvisa di Gian Galeazzo Visconti alcuni docenti delle Università di Pavia e Piacenza proposero a Ludovico di Savoia-Acaia la creazione dello “Studium Generale” di Torino, in quanto sede vescovile e crocevia della rete di collegamenti tra la Francia, la Liguria e la Lombardia. La nuova Università nacque ufficialmente nel 1404 con la bolla di Benedetto XIII, papa di Avignone.
Dal 1443 fino all’inaugurazione del prestigioso palazzo di via Po vicino a Piazza Castello nel 1720, l’Università ebbe sede nel modesto edificio acquistato e ristrutturato appositamente dal Comune all’angolo tra via Dora Grossa, l’attuale via Garibaldi, e via dello Studio (poi via San Francesco d’Assisi).

L’Università torinese, pur non competitiva rispetto alle altre grandi Università italiane, era comunque di grande rilievo, non dimentichiamo che Erasmo da Rotterdam vi conseguì la laurea in Teologia nel 1506. Particolarmente floridi per l’Università furono gli anni delle riforme di Carlo Alberto (1831-1849). Il periodo albertino è caratterizzato dallo sviluppo di alcuni istituti, dalla creazione di nuovi e dalla presenza sul territorio di docenti di prestigio, quali ad esempio Augustin Cauchy, matematico e ingegnere francese, o Pier Alessandro Paravia, letterato e mecenate italiano di grande fama. Nel corso degli anni molte furono le innovazioni e le modifiche che i vari corsi subirono, per esempio, nel 1844 le Facoltà di Medicina e di Chirurgia furono nuovamente riunite e riformate, mentre nel triennio 1846-48 si provvide, tra forti contrasti e resistenze, a riformare la Facoltà di Scienze e Lettere che il 9 ottobre 1848 cessò di esistere. Si istituirono due Facoltà separate, una di “Belle Lettere e Filosofia” e l’altra di “Scienze Fisiche e Matematiche”, quest’ultima tra l’altro poteva vantare nomi di docenti illustri quali Avogadro, Bidone, Plana, Giulio, De Filippi, Sobrero, e Menabrea. Continuando per una più che rapida carrellata storica, è necessario ricordare un altro momento storico cruciale, non solo per la storia della Scuola, ma per la Storia con la “S” maiuscola. La riforma Gentile, varata nella prima metà del 1923, che riconobbe 21 Università e inserì quella di Torino tra le dieci a carico dello Stato. Siamo durante il ventennio fascista, periodo in cui l’Ateneo torinese cercò di mantenere la massima autonomia didattico-scientifica. Quando il regio decreto del 28 agosto 1931 stabilì che i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo alla monarchia, ma anche al regime fascista, in tutta Italia solo 12 insegnanti su oltre milleduecento rifiutarono di prestare il giuramento, perdendo così la cattedra. Tre di questi erano membri del corpo docente dell’Università di Torino: Mario Carrara, Francesco Ruffini e Lionello Venturi. Nell’ultimo secolo la Facoltà di Lettere ebbe insegnanti come Luigi Pareyson, Nicola Abbagnano, Massimo Mila. A Giurisprudenza insegnarono Luigi Einaudi e Norberto Bobbio. Molti tra i protagonisti della vita politica italiana del Novecento si formarono all’Università di Torino, come Gramsci e Gobetti, Togliatti e Bontempelli.

Alla fine degli anni Sessanta la nuova (e attuale) sede del “Palazzo delle Facoltà Umanistiche”, noto anche oggi come “Palazzo Nuovo”, trovò spazio nella moderna costruzione di Via Verdi. Nel 1998 è stata fondata l’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Nel 2012 è stato inaugurato il “Campus Luigi Einaudi”, nuovo polo accademico con funzione di sede unica per i corsi di studio nell’ambito delle Scienze giuridiche, politiche ed economico-sociali. L’identità dell’Università degli Studi di Torino è costituita dal sigillo, il cui primo esemplare risale al 1615. Vi è rappresentato un toro, che indica lo stretto legame dell’Ateneo con la città di Torino, adagiato su tre libri, che alludono alle prime tre Facoltà dello “Studium” torinese: Teologia, Leggi, Arti e Medicina. Il toro ha la testa volta all’indietro verso un’aquila ad ali aperte che poggia sulla groppa dell’animale. L’aquila fissa il sole, simbolo della sapienza, ed è coronata, perché è il re degli uccelli ed è anche insegna dell’imperatore che, con diploma del 1412, aveva confermato la bolla papale di fondazione, risalente al 1404. Sui tre libri sono incise una crocetta, un fermaglio e un altro segno indistinto. Questa la legenda: “SIGILL(um) UNIVERS (itatis) AUGUSTAE TAURINORUM”. Il logo divenne emblema dell’Università dal 1925.

Dopo questo breve “excursus” possiamo focalizzarci nuovamente sul nostro studente per oggi prediletto.
“Gli artisti usano le bugie per dire la verità” dice V, personaggio mascherato da Grey Fox, disegnato da David Loiyd, protagonista di “V per Vendetta”, una serie di fumetti scritti da Alan Moore, allo stesso modo – se mi è permesso l’ardito accostamento tra l’autore italiano e il mondo fumettistico inglese- Calvino usa le sue narrazioni favolistiche come spunto per un’ardita riflessione sull’esistenza e sulla condizione dell’uomo contemporaneo.  L’autore occupa un posto di primo piano non solo nella storia della narrativa ma anche nel nostro panorama culturale italiano, sia per i suoi lucidi interventi di critico militante, sia per la centralità del suo ruolo di collaboratore nella politica editoriale della casa editrice “Einaudi”, dove ha lavorato per trent’anni.
Calvino sostiene una concezione impegnata del lavoro intellettuale e della letteratura, tanto che nel 1955 scrive nel suo saggio “Il midollo del leone”: “Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura come educazione di grado e di qualità insostituibile”.

La produzione di Calvino, per la varietà di innovazioni fantastiche e per le diverse modalità narrative, non trova eguali in nessun altro autore del Novecento. Il tema costante della sua produzione è la condizione storica dell’uomo, il suo stare al mondo, argomentazione a lui cara sia nei primi scritti, fino al suo ultimo libro “Palomar” (1983) in cui porta avanti una lucida e disincantata analisi della condizione dell’essere umano, che si interroga e che vuole capire se stesso e l’universo in cui vive.
La multiforme produzione calviniana è solitamente divisa in “fasi”: “neorealistica”, “allegorico-fiabesca” e “fantascientifica”. È utile però ribadire che tali classificazioni, che sono elastiche e strumentali, non vanno intese come un’ordinata successione cronologica, con modalità narrative specifiche che si concludono definitivamente una dopo l’altra; è infatti caratteristica preminente in Calvino la coesistenza, spesso anche all’interno dello stesso testo, di atteggiamenti contrastanti, che però egli riesce sapientemente a mediare.

Il suo essere narratore peculiare è evidente già dal suo primo romanzo, edito nel 1947, titolato “Il sentiero dei nidi di ragno”, un testo inseribile all’interno del filone neorealistico. Il libro affronta la tematica della Resistenza, argomento caro a molti altri suoi contemporanei, ma che Calvino espone secondo la sua ottica innovativa e inaspettata, così il lettore si trova catapultato non in un “semplice” romanzo storico, ma in una sorta di “favola a lieto fine”. Protagonista del romanzo è Pin, un bambino maturato velocemente, costretto a conoscere la violenza e la durezza della vita per strada. La vicenda ci è raccontata attraverso il suo sguardo di fanciullo cresciuto, che certo si inserisce nelle vicende degli adulti, ma che comunque non riesce a comprendere del tutto.
La dimensione favolosa e fantastica è di certo la più autentica per Calvino, come dimostrano i romanzi “Il visconte dimezzato” (1952), “Il barone rampante” (1957) e “Il cavaliere inesistente” (1959). Tali opere, conosciute come la trilogia de “I nostri antenati”, fanno capo al genere del racconto filosofico, filone letterario che in Italia non ha mai conosciuto particolari apprezzamenti. Va però detto che, se nel racconto filosofico l’intento è dimostrativo e raziocinante, in Calvino dominano il gusto per l’invenzione e il fantastico. In questi testi favolistici vi è però una sorta di “doppio fondo”, un messaggio nascosto, che il lettore accorto scova se si sofferma a pensare tra un capoverso e l’altro. Si tratta di tre romanzi allegorici sulla condizione dell’uomo contemporaneo, “alienato”, impossibilitato a raggiungere la completezza (come dichiara l’autore stesso nella presentazione editoriale de “Il visconte dimezzato”). Oltrepassiamo la gradevolezza della “fabula” e soffermiamoci dunque sul motivo di fondo del racconto di colui che è “dimidiamento dell’uomo contemporaneo, mutilato, incompleto, nemico a se steso”, o sul principio enunciato dal Barone: “chi vuol guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria” oppure sulla vicenda di Agilulfu, che è solamente un’armatura vuota, metafora dell’essere umano deprivato della sua irripetibile individualità, ridotto a “funzione”, usato come mezzo e non pensato come fine. Favole certo, ma con un “Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι” (o mythos deloi oti: “la favola insegna che”, di esopica memoria) da non sottovalutare.

L’interesse per la condizione umana è altresì evidente ne “Le Cosmicomiche” e in “Ti con zero” (1967). Si tratta di opere inscrivibili alla fase “fantascientifica”, in cui l’autore attinge alla fisica quantistica, alla genetica e alla biochimica per sottoporre a discussione una moltitudine di problematiche scientifiche. Qfwfq è l’impronunciabile nome dell’entità protagonista, vecchia quanto il mondo e con la stessa memoria del mondo. È proprio tale improbabile personaggio ad analizzare un microcosmo lontano dal nostro, esistente prima della nascita del concetto di spazio e di tempo, nel quale però sono già presentati i conflitti, le tensioni e le dinamiche interpersonali che si incontrano nel mondo di oggi. Anche in questo romanzo psichedelico vi è una riflessione celata all’interno del tessuto narrativo, e l’interrogativo costante è “L’uomo non cambia e i suoi problemi sono immutabili e insolubili”? Al lettore l’ardua sentenza.
L’autore ci coinvolge continuamente e ci esorta a rimuginare, a trarre le giuste conclusioni, ma da sommo Maestro com’è, intanto che aspetta ne approfitta per darci ancora una lezione, che forse ci spiazza e ci costringe ad ingoiare quella minuscola frase che stavamo faticosamente formulando. Nell’opera “Le città invisibili” egli scrive: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abbiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce fatale a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”. E la domanda rimane aperta: “la favola insegna che?”

Alessia Cagnotto

Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri

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Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

5  Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri

Il 22 dicembre 1928 nasce a Torino Piero Angela, divulgatore scientifico, giornalista, conduttore televisivo e saggista, celebre soprattutto per la trasmissione “Quark”, programma documentaristico di grande successo, realizzato secondo uno stile anglosassone.
Piero inizia la sua carriera come cronista radiofonico, diventa poi un inviato e infine si afferma come conduttore del telegiornale Rai.
Egli sostiene che la “razionalità” gli sia stata insegnata dal padre, Carlo Angela, medico antifascista insignito della medaglia dei “Giusti tra le Nazioni”, ed afferma altresì di aver ricevuto «un’educazione molto piemontese: molto rigida, con principi molto severi, tra cui quello di tenersi un passo indietro sempre, mai esibire». E sulla durezza dell’educazione non credo possano esserci grandi dubbi, dato che è stato uno studente del Liceo classico Alfieri di Torino, una delle scuole del capoluogo torinese conosciuta sia per l’ottimo funzionamento generale, sia per la preparazione degli insegnanti ma anche per la serietà e la severità della formazione che offre. E se è così ora, figuratevi come doveva essere quando il piccolo Piero adolescente frequentava quelle aule austere.

Non è poi così difficile immaginare il giovane giornalista in prima fila, con i libri foderati, sempre preparato e pronto a rispondere, eppure pare che le cose non stessero proprio così. Lo stesso Piero racconta, in una delle tante interviste, la sua particolare esperienza scolastica: «Personalmente, mi sono annoiato mortalmente a scuola e sono stato un pessimo studente. Tutti coloro che si occupano di insegnamento dovrebbero ricordare continuamente l’antico motto latino “ludendo docere”, cioè “insegnare divertendo”, parole un po’ amare ma d’altro canto, al liceo classico c’è spazio sì per il latino, sì per il greco, ma di certo non per il “ludere”, -e questo mi sento di poterlo affermare per esperienza personale-.
Si dice che chi supera il classico poi possa fare tutto, un po’ come dire “quod non necat fortiorem facit”, affermazioni a doppio taglio su cui vi invito a riflettere in solitaria.
La scuola torinese che porta il nome del famoso poeta e letterato Vittorio Alfieri, viene fondata nel 1901, inizialmente come succursale del liceo classico “Massimo D’Azeglio”. Nel 1904 la struttura acquisisce una sua autonomia e viene denominata “Regio Ginnasio Liceo Vittorio Alfieri”, e trova sede in via Giacosa.
Il primo direttore è il cultore di discipline classiche Eugenio Garisio.

Nel 1968 la sede viene trasferita nel moderno fabbricato di C.so Dante 80, edificato nell’area in cui un tempo sorgeva la “Società Ippica Torinese”, progettata nel 1940 dall’architetto Carlo Mollino e poi demolita nel 1960. Diciamo la verità, tutti i licei classici mettono un po’ di soggezione, eppure, alcuni fanno più paura degli altri. Da sempre l’Alfieri si è guadagnato il titolo di “liceo conservatore”, nomea già riconosciuta nei turbolenti anni Sessanta e Settanta, quando tutti scesero in piazza a manifestare, tutti, tranne alcuni diligenti studiosi dell’Alfieri, che pare siano rimasti indifferenti al trambusto del mondo esterno. È ovvio che non si deve fare di tutta l’erba un fascio, tuttavia tali dicerie possono aiutarci a comprendere l’austerità che vigeva all’epoca in quella scuola.
Ad oggi l’Alfieri è una delle scuole più rinomate di Torino, seria e tradizionale com’è giusto che sia, in definitiva uno dei luoghi istituzionali di cui i torinesi possono andare fieri.
Tornando a noi, Piero sopravvive dunque al suo liceo classico e in effetti pare che dopo la maturità sia tutto in discesa per lui.

Nel corso della sua vita riceve dodici lauree “honoris causa” e altri numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero; nel 1993 l’UNESCO gli conferisce il Premio Kalinga per la divulgazione scientifica, e nel 2002 vince la medaglia d’oro per la cultura della Repubblica Italiana. Nel 2008 arriva un altro premio, il primo dei sette Telegatti che riceverà successivamente, nel 2010 riceve il Premio Speciale della Giuria del Premio Letterario Giuseppe Dessì. Il suo nome collega astri e abissi nel vero senso della parola poiché gli astronomi Andrea Boattini e Maura Tombelli, nominano l’asteroide 7197 “Pieroangela” in suo onore, mentre alcuni studiosi di biologia marina gli dedicano la scoperta della “Babylonia pieroangela”, un mollusco gasteropode del mar Cinese. Padova, città da sempre legata a Galileo Galilei, gli ha riconosciuto la cittadinanza onoraria per il suo “contributo di eccellenza dato alla divulgazione scientifica”, mentre Torino, appunto sua città natale, il 23 ottobre 2017, ha deciso di riconoscergli la cittadinanza onoraria per essere “la conferma vivente della tradizione scientifica della città” e per aver contribuito con la sua carriera professionale ad incrementare “la cultura e la conoscenza degli italiani anche mediante il mezzo televisivo”. Nel 2018 riceve inoltre il premio “Torinese dell’Anno 2017”, assegnato dalla Camera di Commercio di Torino, “per aver rappresentato lo stile torinese dell’impegno e della passione per il lavoro”.

Numerosissimi successi, anche se, diciamoci la verità, quante volte è partita in automatico nella vostra mente la “musichetta” della sigla di “Superquark” dall’inizio della lettura di questo articolo? Difficile non collegare, in maniera quasi stereotipica, il volto del giornalista al programma di divulgazione scientifica che lo ha reso assai celebre.
Tutto ha inizio con “Quark”, una rubrica scientifica trasmessa in seconda serata su Rai 1, settimanalmente dal 18 marzo 1981 al 14 settembre 1994. Tale trasmissione, insieme alle successive derivate, rappresenta la trasmissione scientifica più longeva e di maggior successo della TV italiana.
Con tale programma Piero propone dei “viaggi nel mondo della scienza”, realizzati attraverso documentari e animazioni digitali, presentati con chiarezza e semplicità, con lo specifico scopo di portare la scienza e la tecnologia alla portata del grande pubblico. A tal proposito, il conduttore dichiara di voler “puntare alla più alta soglia dei contenuti con la più semplice soglia del linguaggio. È in quel varco che possono entrare pubblici numerosi e diversi.”

Nella prima puntata lo stesso presentatore esplica il perché della titolazione: «Il titolo “Quark” è un po’ curioso e lo abbiamo preso a prestito dalla fisica, dove molti studi sono in corso su certe ipotetiche particelle subnucleari chiamate appunto quarks, che sarebbero i più piccoli mattoni della materia finora conosciuti. È quindi un po’ un andare dentro le cose».
Questa trasmissione ha originato negli anni a venire tutta una serie di programmi affini, tra cui ricordiamo Il mondo di “Quark” (1984),  “La macchina meravigliosa” (1990), “Il pianeta dei dinosauri” (1993), “SuperQuark”, (1995), “Viaggio nel cosmo” (1997), “Quark Atlante – Immagini dal pianeta” (2014).
Lo studente annoiato diventa da grande un diffusore di cultura e dedica il resto della sua esistenza a portare nelle case degli italiani la conoscenza delle scienze, della storia e dell’arte. Forse se non avesse frequentato il classico non ce l’avrebbe fatta a realizzare tutto questo, forse è vero che gli studi delle “Humanae Litterae” offrono una marcia in più, forse ha ragione Lupo Alberto, quando davanti ad una pinta di birra esclama: “non bisogna fermarsi alla terza media!”, forse è proprio vero che “quod non occidit servat”. C’è scritto anche sull’etichetta del Petrus.

Alessia Cagnotto

Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour

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Torino e la Scuola

1. “Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
2. Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
3. Le riforme e la scuola: strade parallele
4. Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
5. Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
6. Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
7. Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
8. Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
9. UniTo: quando interrogavano Calvino
10. Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

8  Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour

Il problema è che spesso quello che si studia a scuola ci sembra così lontano da noi, troppo affinché ci possa effettivamente essere utile. A che cosa potrebbe mai servirci conoscere le “Rime petrose”? Qual è l’utilità di saper eseguire la parafrasi di un testo poetico o di riuscire a comprendere le cosiddette “lingue morte”? Ci fermerà mai qualcuno per strada chiedendoci il calcolo del “pi-greco” ( π ) con il metodo di Newton? E allora che ce ne facciamo di tutte queste “nozioni”? La domanda rimane sempre la stessa: a che cosa serve andare a scuola? E purtroppo ancora non riusciamo a trovare una risposta abbastanza convincente per motivare i nostri giovani a studiare e ad ascoltare con attenzione le lezioni dei docenti.
Nel nostro “lato del mondo che in fondo in fondo è perfetto” sono molti i diritti sottovalutati o dati per scontati, uno di questi è proprio il diritto all’istruzione. Già, perché di “diritto” si parla, ossia qualcosa che si è conquistato, per cui si è combattuto, e che ora quasi ci scoccia avere, poiché comporta impegno e dedizione e soprattutto ci obbliga a spendere tempo, proprio quello che ci manca in questa società dell’immediato, dell’ “ok Google”, della spunta blu di “WhatsApp”. È ovviamente sbagliato generalizzare, “fare di tutta l’erba un fascio”, quindi mi scusino quei ragazzi che prendono appunti, che seguono con assiduità le spiegazioni, che svolgono gli esercizi e che partecipano attivamente alle lezioni, proprio per crescere intellettualmente. Al contrario si sentano presi in causa quei giovani studenti svogliati che amano poco la scuola e che magari preferirebbero andare subito a lavorare.

Una delle grandi problematiche del moderno Duemila è la dispersione scolastica, fenomeno complesso e articolato, e di non facile soluzione. I fattori che comportano l’abbandono dell’istruzione sono diversi, tra di essi la spendibilità del titolo di studio in ambito lavorativo e la conseguente mancata motivazione dello studente che per forza di cose si domanda: “e poi?”
E mentre gli adulti si ostinano a considerare le aule scolastiche come fucine per creare “lavoratori”, un topolino in completo scozzese prova a convincere i bambini che ricevere un’istruzione serve a formare dei “cittadini” consapevoli in grado di vivere nel mondo, con determinati diritti e doveri. “Andare a scuola è un’occasione per imparare a “vivere” bene con gli altri e a risolvere i problemi di tutti i giorni.” (Geronimo Stilton). Chissà se prima o poi impareremo la lezione. Mi sento in ogni caso di dire che la comunità scolastica è forte, e continua “a combattere contro l’ignoranza” – come dice sempre mio padre prima di incominciare una lezione. Proprio la nostra Torino può vantarsi non solo di ospitare delle ottime scuole, ma anche del fatto che una di queste sia annoverata tra le migliori istituzioni della Penisola. Si tratta del Liceo Classico Cavour.

Il “Regio Liceo-Ginnasio Camillo Benso Conte di Cavour”, insieme al Liceo Classico Vincenzo Gioberti, è uno degli Istituti scolastici più antichi d’Italia. Le due istituzioni così rinominate risalgono al 1865 a seguito del Regio Decreto 229 che istituisce i primi Licei del Regno d’Italia. Le origini del Cavour in verità si possono fissare intorno al 1568, all’inizio l’istituto è conosciuto con il nome di Collegio dei Nobili di Torino, e tale rimane fino al 1805, quando viene convertito in Liceo, pur mantenendo la medesima sede. Con la Riforma Boncompagni diviene Collegio-Convitto Nazionale di Educazione, infine, con la Legge Casati, vengono istituiti il Liceo, il Ginnasio e il Convitto nazionale. Pochi anni dopo, tali istituzioni vengono titolate a Cavour, con il decreto che denomina con il nome di italiani illustri tutti i più antichi istituti superiori. Nel 1900, con altri celebri licei italiani, il Cavour partecipa all’Esposizione Universale di Parigi. Nel 1931 la sede della scuola viene trasferita dall’originale indirizzo a quello attuale, ossia Corso Tassoni 15. A partire dalla fine degli anni Ottanta viene aperta una succursale in via Tripoli 82. Nel corso degli anni, il liceo ha ospitato allievi che si sarebbero poi distinti in diversi ambiti, e illustri docenti: ricordiamo l’italianista Augusto Monti, i latinisti Ettore Stampini e Augusto Rostagni, lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan e il matematico Giuseppe Peano. Furono altresì studenti “cavourrini”, seppure solo per i due anni del ginnasio, Guido Gozzano e Cesare Pavese. Per quel che riguarda la politica, figura rilevante è Luigi Einaudi, ex “cavourrino” divenuto Presidente della Repubblica dal 1948 al 1955; allievi del Cavour furono anche i sindaci di Torino Grosso e Cardetti. Il Cavour merita di essere citato anche per lo sport: una squadra di calcio dell’Istituto si distingueva a livello giovanile all’inizio del Novecento, ed ex allievo è stato l’olimpionico Livio Berruti. Attualmente l’ex- allievo più conosciuto è Alessandro Barbero, Ordinario di Storia Medioevale presso l’Università del Piemonte Orientale.
Tra i tanti nomi indicati ed ex allievi del Cavour, chi scegliere come “studente torinese” da approfondire per la mia rubrica su Torino e la scuola? Con l’augurio di avere presto l’occasione di scrivere anche degli altri, ho deciso di dedicare questo mio pezzo a Cesare Pavese, autore che ho sempre molto amato, anche per quel malinconico “mal di vivere” che caratterizza le sue opere e la sua biografia, figura di intellettuale che ha svolto un ruolo essenziale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura del dopoguerra, attento alla realtà popolare e contadina, aperto agli aspetti della cultura europea e americana. La sua vita è una continua e tormentosa analisi di se stesso e dei rapporti con gli altri; un ossessivo scavo interiore che alla fine lo porta al suicidio, un percorso seguito con ostinata analisi nel suo diario, intitolato “Il mestiere di vivere”, iniziato il 6 ottobre 1935 e chiuso il 18 agosto 1950, poco prima della morte, con le drammatiche parole: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.

Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un piccolo paesino in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. La famiglia si trasferisce poi nel capoluogo piemontese, il ragazzo rimpiangerà sempre i paesaggi delle Langhe, che eleggerà a simbolo di spensieratezza e serenità. Poco dopo il trasferimento, il padre muore; l’infausto avvenimento segna l’intera esistenza del futuro scrittore, che già da bambino dimostra un’indole introversa e riservata. Egli ama rifugiarsi nei libri e fare lunghe passeggiate solitarie nei boschi, piuttosto che giocare con i coetanei. La madre reagisce al lutto irrigidendosi e rifugiandosi nel proprio dolore, mostrando nei confronti del figlio freddezza e riserbo e attuando un ferreo sistema educativo che di certo non è d’aiuto allo sviluppo emotivo del ragazzo. Tutta l’esistenza di Cesare è segnata da tormentose e drammatiche situazioni e lui rimarrà sempre quell’adolescente silenzioso e introverso, forse non del tutto in grado di affrontare le difficoltà che il destino decide di porgli innanzi.

Cesare compie gli studi a Torino, frequenta il biennio ginnasiale presso il Liceo Classico Cavour e termina la sua formazione al Liceo D’Azeglio, dove ha come professore di italiano e latino Augusto Monti, grande studioso e figura prestigiosa della Torino antifascista. Determinante per Pavese l’insegnamento di Augusto Monti, crociano, amico di Piero Gobetti e ammiratore di Antonio Gramsci: il rapporto tra Maestro e allievo si trasforma presto in profonda amicizia e “comunione spirituale”, tanto che così afferma lo stesso Monti di Cesare: “il primo dei miei scolari, il primo che, uscito dalla mia scuola, abbia voluto entrar nella mia amicizia, il primo quindi anche cronologicamente dei miei scolari più miei”.
Al D’Azeglio Cesare è iscritto all’indirizzo moderno, il greco lo studierà da solo, nelle vacanze successive alla licenza liceale (che conseguirà nel 1926 con ottimi voti), “per potere un giorno ben conoscere anche la civiltà omerica, il secolo di Pericle, e il mondo ellenista”.

Al liceo D’Azeglio, importante è la frequentazione di amici come Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Giulio Einaudi.
Cesare si iscrive alla Facoltà di Lettere, mette a frutto i suoi studi di letteratura inglese e si dedica ad un’intensa attività di traduzione di scrittori americani. Si laurea nel 1932 con una tesi sul poeta americano Walt Whitman. Continua negli anni seguenti un intenso lavoro di traduttore delle opere di Defoe, Dickens, Melville, Joyce.
Il 4 novembre 1931 la madre di Cesare muore, un grave lutto che il giovane tenta invano di rielaborare: “Se nascerai un’altra volta dovrai andare adagio anche nell’attaccarti a tua madre. Non hai che da perderci”, scrive. Dopo tale triste avvenimento rimane a vivere presso la sorella Maria, il cognato e le nipotine. Nel 1932 si dedica all’insegnamento in scuole private e serali (Carmagnola, Bra, Saluzzo, Vercelli, Torino).

Nell’inverno del 1932, attraverso Leone Ginzburg, incontra un’insegnante di matematica di cinque anni più vecchia, militante comunista, e tra i due nasce l’amore (una delle tante difficoltose esperienze d’amore di Pavese). Si tratta di Battistina Pizzardo (Tina) che così descrive lo scrittore: “ Cesarino: a quei tempi era un bel ragazzo alto, snello, un gran ciuffo sulla fronte bassa, il viso liscio, fresco, di un leggero color bruno soffuso di rosa, i denti perfetti. Mi piacevano i suoi occhi innamorati, le sue poesie, i suoi discorsi tanto intelligenti che diventavo intelligente anch’io, mi piaceva il senso di fraternità, che ci veniva dalla stessa origine bottegaio-contadina, da un’infanzia vissuta nei nostri paesi delle Langhe, e per tanti versi simile”.
Sono anni difficili per il giovane, e poi egli non è iscritto al partito fascista e la sua condizione lavorativa è decisamente altalenante.

Nel 1934 sostituisce Leone Ginzburg, arrestato dai fascisti, nella direzione della rivista “La cultura” e inizia la sua collaborazione alla casa editrice Einaudi. Per i suoi rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà viene arrestato nel 1935 processato e inviato al confino a Bracalone Calabro fino alla fine del 1936, anno in cui esce il suo libro di poesie “Lavorare stanca”, una poesia realistica e simbolica, caratterizzata da una lunga cadenza del verso, quasi un verso narrativo, un verso libero. Egli stesso aveva precisato già nel 1928: “in mezzo alla vita che ci circonda, non è più possibile scrivere in metro rimato come non è lecito andare in parrucca e spadino”. L’arresto avviene di mattino (il 15 maggio 1935), proprio il giorno in cui avrebbe dovuto sostenere il concorso generale per i licei e istituti magistrali. Al momento dell’arresto era supplente al liceo D’Azeglio e, di sera, presso gli istituti privati Bertola e Dainotti. Quando è al confino, scrive alla sorella facendo riferimento agli attacchi d’asma (ne soffriva fin da ragazzo): “L’asma qui viene così forte che non basta fare il fumo prima di coricarsi, ma bisogna ripeterlo alle tre di notte, dopo un doloroso risveglio per soffocamento”, e intanto sollecita l’invio di libri da parte della famiglia e degli amici per poter leggere e tradurre, soprattutto dal greco, Omero e Platone.

Il 13 marzo 1936 ottiene il condono e il 19 marzo ritorna a Torino e apprende che Tina è prossima al matrimonio. Ne rimane colpito e cade in una profonda crisi depressiva. Continua a tradurre scrittori inglesi e americani e a collaborare attivamente con la casa editrice Einaudi, un impegno senza orari né risparmio di energie. Tra i tantissimi lavori da cui è sommerso, (dice egli stesso che “nel caldo bestiale di agosto”, “gira per le grandi stanze solo come Bellerofonte nel campo Aleio”), merita ricordare il suo consistente intervento di revisione di un saggio di traduzione da Omero di Rosa Calzecchi Onesti, una delle versioni omeriche che diverranno classiche, e che egli giudica fin da subito “notevole”. Nel periodo compreso tra il 1936 e il 1949 la sua produzione letteraria è ricchissima. Ma le delusioni della vita e soprattutto del cuore sono troppo pesanti. Alla fine della guerra si iscrive al partito comunista e pubblica sull’Unità “I dialoghi col compagno” (1945); seguono anni di intenso lavoro, in cui egli scrive le sue opere di maggior successo, e approfondisce studi sul mito e sul folklore. Nel 1950 pubblica “La luna e i falò”, e nello stesso anno vince il Premio Strega con “La bella estate”. La vita sembra aver preso la piega giusta, Cesare è circondato da intellettuali con cui passa gradevolmente il tempo e i suoi scritti circolano senza difficoltà. Eppure Cesare non riesce a vincere quella pesantezza del cuore, convinto della insuperabile falsità nei rapporti umani, a cui si aggiunge l’amarezza della sua difficoltà a vivere i rapporti amorosi, e decide che il mondo non è più il suo posto. Nonostante il successo e la mondanità egli è profondamente solo e disincantato.

Nella sua Torino, in una camera dell’hotel Roma di Piazza Carlo Felice, nella torrida notte tra il 26 e il 27 agosto 1950, Cesare si toglie la vita con una eccessiva dose di sonnifero, compiendo il gesto definitivo del suicidio che lo aveva ossessionato fin dall’adolescenza.  Un proposito divenuto un “vizio assurdo” in seguito al progressivo disadattamento esistenziale. Sul comodino, una copia dei “Dialoghi con Leucò” su cui scrive: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Particolarmente significativo il giudizio di Calvino sulla figura di Pavese: “Vero è che non bastano i suoi libri a restituire una compiuta immagine di lui: perché di lui era fondamentale l’esempio di lavoro, il veder come la cultura del letterato e la sensibilità del poeta si trasformavano in lavoro produttivo, in valori messi a disposizione del prossimo, in organizzazione e commercio di idee, in pratica e scuola di tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale moderna”.

Alessia Cagnotto

Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi

Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
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2 Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi

La strada che parte dall’Accademia di Platone e arriva alla temutissima Didattica a Distanza è lunga e tortuosa, fatta di riforme e controriforme, di miglioramenti e di tagli, di innovazioni e ripensamenti. La storia della scuola è intricata e complessa, al punto che ogni tanto sembra ci si scordi dei pezzetti. Qualche volta si ha l’impressione che anche lo scopo principale della scuola passi in secondo piano, poiché la burocrazia, sempre più arzigogolata, pare mettere in ombra l’unica vera missione dell’istituzione, che è quella di educare. La storia della scuola è in realtà la storia dell’“imparare”, o meglio, di quanta importanza le varie epoche conferiscono all’istruzione.

Nell’attuale sistema formativo assistiamo ad una sorta di involuzione. La scuola di massa, nell’intento di allargare l’istruzione alle fasce sociali più deboli, ha in realtà prodotto una scuola pubblica sempre più “facilitata”. La scelta della scuola media unificata nel 1962, la liberalizzazione degli accessi all’Università nel 1969, l’abolizione degli esami di riparazione sono elementi volti a rendere uguali gli allievi per non discriminare nessuno. Buone intenzioni che però hanno suscitato l’effetto contrario, in realtà l’elevazione per tutti del livello d’istruzione ha comportato l’abbassamento qualitativo delle materie.

Seduti dietro ai banchi, tra il lancio di un bigliettino e un’interrogazione sono tante le competenze –per utilizzare un termine assai di moda- che gli studenti acquisiscono; tali apprendimenti vanno, a mio parere, tutti posti sullo stesso piano, non ci può essere qualcosa di più o meno importante. Le nozioni e i saperi delle varie discipline accompagnano e supportano la socializzazione, d’altro canto come si fa a pretendere che gli studenti imparino a relazionarsi e a rispettarsi senza dar loro la possibilità di studiare a fondo gli insegnamenti dei grandi della storia, della filosofia, della letteratura? Com’è possibile accompagnarli nella crescita e nella formazione della propria persona senza spiegare loro e approfondire le azioni dei pionieri, degli uomini di scienza e di tutti quei coraggiosi che hanno sfidato il mondo in nome di un’idea? Come si può credere di affinare l’animo dei giovani senza educarli in modo adeguato all’amore per l’arte e la creatività?
“Non intendo rimpiangere una scuola ideale che non è mai esistita. Però so che nessuno vuole che la nuova scuola affronti il futuro semplificata e impoverita non soltanto nei soldi ma nei contenuti” queste le parole di Gian Luigi Beccaria, professore emerito dell’Università di Torino, parole che a mio sentire andrebbero soppesate con particolare attenzione, perché è questo il rischio che la nostra scuola sta correndo: una scuola “smart”, lezioni che possono essere seguite dal cellulare, insegnanti che devono improvvisarsi tecnici informatici e “counselor” familiari, studenti che devono sapere un po’ di tutto senza approfondire nulla.

“Se abbasso il livello della scuola di tutti, la scuola di tutti diventa deteriore” altro monito di Luciano Canfora (docente di Filologia greca e latina presso l’Università di Bari).
C’è da chiederselo, stiamo andando davvero nella direzione più giusta? Riforma dopo riforma i vari ministri dell’istruzione hanno proposto ciascuno una propria versione di come dovrebbe funzionare la scuola, lamentandosi dei precedenti interventi ma mai andando a modificare proprio quelle “decisioni sbagliate” tanto sottolineate in campagna elettorale.
“Something is rotten in the state of Denmark” e forse non solo lì “c’è qualcosa che non quadra”.

La domanda che ora ci possiamo porre è: nella nostra società liquida, in cui le conoscenze trasversali si trasmettono attraverso internet, quasi come se le nozioni si assorbissero toccando un pc, quanto è importante l’istruzione? In quest’epoca del “problem solving”, che ruolo può ricoprire il luogo in cui fare domande non solo è consentito ma dovrebbe essere d’obbligo?
La storia della scuola non è solo l’evoluzione del sistema scolastico e delle istituzioni, è anche storia dell’insegnamento, di come da sempre e per fortuna, alcuni si sentano votati a guidare le nuove generazioni verso il futuro, a consigliarle affinché tentino di sistemare le cose che non vanno o semplicemente ad aiutare gli studenti a diventare degli adulti preparati, capaci e con le menti aperte.
L’argomento è assai vasto, complesso, ricco di suggestioni, e vediamo allora, sia pur velocemente, che cosa è accaduto al sistema scolastico nel corso delle varie epoche storiche.
Con la caduta dell’impero romano le istituzioni scolastiche pubbliche chiudono i battenti e per molto tempo l’istruzione e la scolarizzazione vengono gestite interamente dalla Chiesa. Le scuole parrocchiali, la cui presenza è attestata dal VI sec., forniscono un’alfabetizzazione di base, sono le uniche accessibili a tutti; le scuole vescovili o cattedrali, aperte anche ai laici, offrono un medio livello di istruzione, mentre le scuole monastiche consentono una formazione universitaria.

Nel 614 in Italia viene fondata la celebre abbazia Bobbio, che grazie alla biblioteca, allo “scriptorium” e alla scuola annessa, diviene uno dei principali centri culturali monastici d’Europa. Presso i cenobi vi sono due scuole, quella “interior” per i novizi e quella “exterior” per i laici. In tali strutture si impara a leggere, scrivere e fare di conto; le materie base sono le stesse dell’epoca tardoromana, organizzate secondo il “trivium” (grammatica, retorica, dialettica) e il “quadrivium” (aritmetica, geometria, astronomia, musica) . Questa sistemazione del sapere medievale si deve a Marziano Capella (IV-V d.C.), che non ignora comunque la tradizione classica. Le sette arti sono poste a fondamento dell’istruzione superiore, e divengono le basi dell’educazione dell’uomo colto medievale.

Dopo l’anno Mille si attesta l’apertura degli “studia”, istituzioni scolastiche private, gestite da maestri liberi, in cui si insegnano principalmente materie giuridiche, teologiche e mediche.
Tra l’XI e il XII secolo nascono le università, evoluzione di un modello di insegnamento impartito nelle scuole delle chiese cattedrali e nei monasteri, a seguito di una sempre maggiore richiesta di istruzione. Prima fra tutte quella di Bologna (fondata nel 1088), famosa per il diritto, e anche Salerno, con la sua antica Scuola medica, Padova e Montpellier per la medicina; Parigi e Oxford per la teologia e la filosofia.

Nel XII secolo si assiste ad un primo grosso cambiamento: le scuole parrocchiali chiudono, altri ordini monastici si affiancano ai benedettini per impartire l’istruzione superiore e i singoli stati sembrano interessarsi al fenomeno dell’alfabetizzazione, sovvenzionando l’apertura di strutture che potremmo paragonare alle nostre scuole primarie, secondarie ed universitarie.
Aumentano piano piano le scuole elementari private e comunali, ogni scuola impegna un unico maestro, che può avere un numero di scolari che oscilla tra i cento e i centocinquanta. Quando il numero degli allievi supera un limite massimo il maestro può assumere un “ripetitore”.

Nel corso del XIII secolo vengono aperte scuole laiche secondarie, per alunni già alfabetizzati, si tratta delle scuole d’abaco, nelle quali si apprendono le tecniche di calcolo con le cifre arabe e i metodi della matematica mercantile e delle scuole di grammatica, incentrate sullo studio della lingua latina, della letteratura e sull’approfondimento di autori classici e medievali.
In epoca rinascimentale il sistema scolastico delle città italiane rimane fondamentalmente quello che si era delineato nel corso del Duecento. Il numero delle scuole aumenta notevolmente, così come il livello di alfabetizzazione, soprattutto in centri come Firenze e Venezia.

L’essenziale novità dell’epoca cinquecentesca è l’apertura di scuole comunali gratuite. A Lucca, ad esempio, nella prima metà del Cinquecento, si attesta la presenza di ben sei maestri comunali di latino ai quali era stato proibito esigere pagamenti dagli alunni.
Altrettanto rilevanti sono le modifiche dei programmi d’insegnamento delle scuole di grammatica, in cui, grazie al diffondersi degli “Studia humanitatis”, vengono approfonditi autori quali Cicerone, Cesare o Sallustio.

Vengono istituite delle vere e proprie scuole umanistiche, di livello superiore a quelle di grammatica, all’interno delle quali lavorano umanisti di fama, si tratta nella maggior parte dei casi di scuole-convitto private, come la celebre Casa Giocosa fondata e diretta da Vittorio da Feltre. È opportuno sottolineare come le scuole d’abaco non fossero un’alternativa agli studi umanistici, bensì un’aggiunta, come dimostra la formazione di Niccolò Machiavelli, il quale le dovette frequentare entrambe.

Durante il Settecento è lo Stato e non più il Comune a promuovere e gestire le scuole pubbliche.
È stata la Repubblica di Sardegna a inaugurare per prima la nuova politica scolastica: Vittorio Amedeo II di Savoia, tra il 1717 e il 1727 promulga varie riforme inerenti alle scuole laiche statali di vario grado, inoltre istituisce un’apposita figura, il “Magistrato”, incaricato di vigilare contro la possibile ingerenza di ordini religiosi nella materia.
Nel 1774 Maria Teresa d’Austria diviene promotrice della più importante riforma scolastica del periodo. La regina appoggia il progetto dell’abate Giovanni Ignazio Felbiger, progetto che prevede oltre all’obbligatorietà scolastica per bambini dai sei ai dodici anche l’apertura di “Normalschulen”, scuole normali per la preparazione dei maestri.

Tale riforma in Italia interessa soprattutto la Lombardia, grazie anche all’intervento del padre somasco Francesco Soave; a Milano infatti, nel 1788, viene fondata la prima scuola pubblica per la preparazione dei maestri, chiamata Scuola di Metodo.
Nel Gran Ducato di Toscana Pietro Leopoldo I espelle i gesuiti e i barnabiti e affida la gestione delle scuole agli Scolopi, sacerdoti regolari appartenenti alla congregazione delle Scuole pie; il fine principale dell’ordine è l’educazione e l’istruzione della gioventù; Leopoldo ordina inoltre l’apertura di numerose scuole elementari pubbliche.

All’interno dello Stato pontificio la gestione dell’istruzione rimane integralmente affidata agli istituti religiosi.
Nel Regno di Napoli Carlo III e suo figlio Ferdinando si occupano di istituire la prima istruzione scolastica pubblica nei Regni di Napoli e di Sicilia.
Nel 1766 Antonio Genovesi, su richiesta del ministro Tanucci, elabora un sistema che prevede l’istituzione di scuole pubbliche gratuite per i figli dei contadini e dei meno abbienti. Il piano viene attuato solo parzialmente.

Con la Rivoluzione Francese si afferma una concezione nuova della scuola, che trova la sua formulazione più chiara e completa nel “Rapport et project de décret sur l’organisation génerale de l’Instruction publique”, redatto da Condorcet nel 1792 e presentato all’Assemblea Nazionale a nome del “Comité d’instruction publique.”
L’istruzione primaria deve essere pubblica, obbligatoria e gratuita: tutti i cittadini, sia maschi che femmine, “devono” accedervi. Gli studi successivi hanno l’obbligo di valorizzare i talenti degli studenti e garantire uguaglianza di opportunità. Va da sé, la scuola in generale deve essere laica, basata sulla trasmissione di capacità professionali utili, di contenuti verificabili e metodi razionali e sulla formazione civile.

Le indicazioni di Condorcet rimangono a lungo un punto di riferimento, fino al periodo napoleonico, quando nascono quattro livelli di istruzione nettamente distinti: elementare, medio-inferiore, medio-superiore e universitario. È in questo periodo che, a fianco alle scuole normali per la preparazione dei maestri e all’istruzione professionale, nascono i “lycées”, i licei.
I primi licei italiani ideati sul modello francese sono introdotti con la legge del 4 settembre 1802, tali istituzioni si affiancano ai ginnasi di stampo austriaco. “Il Piano d’istruzione generale”, varato nel 1808 decreta di istituire nel Regno d’Italia un liceo in ogni capoluogo di dipartimento e un ginnasio in ogni comune con più di 10.000 abitanti. In un primo momento le scuole sono gratuite ma poi vengono introdotte delle tasse scolastiche. Nel regno di Napoli sorgono collegi governativi in ogni provincia, il cui corso di studi viene poi articolato in un ginnasio propedeutico e un successivo liceo con due indirizzi, uno umanistico e l’altro scientifico.

Nel 1810 Gioacchino Murat decreta l’obbligatorietà della scuola primaria.
Durante la Restaurazione in Italia le innovazioni scolastiche subiscono dei rallentamenti, anche se numerosi pedagogisti ed educatori continuano a lavorare a favore dello sviluppo di un moderno sistema scolastico. Un esempio per tutti è il marchese Basilio Puoti, il quale apre nella sua nobile abitazione una scuola libera, di carattere laico e classicista, con lo scopo di educare le giovani menti del regno. (Frequenta la scuola del grande purista Basilio Puoti -1782-1847 – il nostro critico letterario più autorevole, Francesco de Sanctis, 1817-1883).
Nel Regno Lombardo Veneto, sotto la dominazione austriaca, risulta di particolare importanza il “Regolamento normale per le scuole elementari” redatto nel 1818, e riguardante le norme di funzionamento di una capillare rete di scuole elementari pubbliche.

Altri personaggi degni di nota sono Raffaello Lambruschini (1788-1873) e il pedagogista Vitale Rosi (1782-1851), il quale è figura essenziale nel porre le basi per una scuola più moderna. Un’ultima menzione merita il movimento iniziato da Ferrante Aporti (1791-1858) a proposito del funzionamento degli asili infantili.

Caro lettore, all’alba della terza pagina si ha l’impressione di essere a metà dell’opera e invece siamo solo alla premessa. Le notizie che vi ha raccontato altro non sono che le radici nascoste e profonde della nostra scuola, e forse è proprio grazie alla loro robustezza che ancora essa non crolla sotto i colpi del livellamento della cultura di massa. È ora il caso che mi fermi, poiché sarebbe il momento di trattare delle revisioni scolastiche, a partire dalla Legge Casati (1859), la Legge Orlando (1904), la Riforma Gentile (1923), poi ancora delle innovazioni degli anni del dopoguerra fino alle riforme dei cicli scolastici in epoche decisamente più recenti. Tali argomenti saranno affrontati prossimamente, intanto vi lascio riflettere su come la storia stessa ci insegni quanto nelle epoche passate sia stata ritenuta essenziale l’educazione, quanti sforzi siano stati fatti affinché tutti potessero usufruire del sistema scolastico. I documenti attestano la costruzione degli edifici, ma non sempre ci parlano delle difficoltà degli studenti e dei docenti, delle piccole vittorie e delle grandi delusioni degli uni e degli altri. Non cadiamo nel tranello dei tempi moderni, ricordiamoci dell’essenziale: “L’insegnante non si deve abbassare al livello del ragazzo, ma è vero il contrario in quanto il ragazzo non vuole rimanere prigioniero del suo mondo ma è alla ricerca di strade per uscirne. E l’insegnante deve offrirgli l’opportunità.” (Pier Paolo Pasolini).

Alessia Cagnotto

Anche gli artisti Studiano: l’equipollenza Albertina

Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
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Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

10 Anche gli artisti Studiano: l’equipollenza Albertina

Da bambina volevo fare la paleontologa. Un giorno però mi resi conto che quella passione era sì grande ma non abbastanza stimolante, così mi ritrovai a rimuginare su che cosa mi coinvolgesse veramente. Non ci misi poi molto a capire che ciò che mi rendeva davvero felice era “creare”, “inventare”, utilizzare le mani per rendere visibili i mie pensieri; disegnavo molto, mi piacevano tutti i tipi di colori, dalle matite, ai pennarelli, agli acquerelli, mi divertivo a copiare i personaggi dei cartoni animati ma ricordo anche che mi cimentavo a riprodurre le illustrazioni dei libri sugli animali, soprattutto quelli marini.
Crescendo i miei interessi di bambina maturarono con me. Al disegno si affiancò la curiosità per la storia degli artisti e delle loro opere, al bisogno di manualità si affiancò quello della ricerca intellettuale e al desiderio creativo corrispose un giusto studio degli autori del passato, poiché se prima non ci si confronta con il passato come si può dire la propria sul presente?
Cosa vogliamo fare da grandi in realtà lo decidiamo da piccoli. In quegli anni in cui l’ingenuità la fa da padrone, quando il mondo fuori appare così enorme da pensare che ci sia sicuramente posto anche per la realizzazione del nostro desiderio, in quel lasso di tempo durante il quale convinzioni e obiettivi si fondono, ci mettevamo le mani sui fianchi, a mo’ di Superman, e affermavamo impettiti: “Io da grande sarò…”

Volevo fare l’artista. Ecco, l’ho detto, l’ho confessato. E forse sarebbe stato meglio se fossi rimasta dell’idea di diventare paleontologa. Ma quelli nati sotto il segno dell’ariete, come me appunto, sono noti per la loro testardaggine e una volta che si mettono in testa una cosa, non c’è niente che li faccia desistere. Decisi quindi che avrei frequentato l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, e questa mia ineluttabile convinzione si alimentava giorno dopo giorno, quando, uscendo dal Gioberti, andavo a prendere il pullman per tornare a casa proprio alla fermata davanti all’ingresso dell’istituzione artistica e vedevo tutti quei ragazzi “strani”, con i capelli colorati e i vestiti alternativi, armati di grosse tele o altrettanto scomode cartelline contenenti chissà quali opere. Non c’erano dubbi: quello doveva essere il mio mondo.
Oggi, quando mi chiedono se consiglierei a qualcuno di iscriversi in Accademia mi viene da storcere un po’ il naso, non di certo per la preparazione che la scuola offre, su cui non ho assolutamente nulla da obiettare, quanto per l’impatto con “il mondo vero” che si deve affrontare al termine degli studi. Al contrario, quando mi viene domandato se, potendo tornare indietro, rifarei la stessa scelta, la risposta è immediata: certo che sì.

L’ “Università dei Pittori, Scultori e Architetti”, è presente a Torino già dalla prima metà del Seicento, nel 1652 prenderà il nome di “Compagnia di San Luca”, la quale, a sua volta, verrà poi nominata “Accademia dei Pittori, Scultori e Architetti” per volere di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, vedova di Carlo Emanuele II, che si ispirò volutamente alla Académie Royale de Paris.
Dopo circa un secolo dalla prima fondazione dell’istituzione, iniziano le riforme del regno di Vittorio Amedeo III, il quale porta avanti una politica di promozione e di aggiornamento culturale; tra i primi provvedimenti che inaugurano tale periodo, nel 1778 viene costituita la “Reale Accademia di pittura e scultura”.

Successivamente Carlo Alberto, grande appassionato d’arte e uomo di raffinata cultura, decide, nel 1833, di riformare tale istituzione, denominandola “Regia Accademia Albertina”.
Sempre grazie al sovrano, la sede della scuola per gli artisti trova la sua sistemazione definitiva in un palazzo donato proprio da Carlo Alberto, situato in Via Accademia Albertina 6. Al luogo di formazione si affianca una pinacoteca, con scopi prevalentemente didattici, i cui dipinti sono stati per la maggior parte donati da Monsignor Mossi di Morano, tra questi è il caso di segnalare la preziosa pala d’altare di Filippo Lippi. In pochi anni la pinacoteca si arricchisce di opere, non solo quadri, ma anche varie riproduzioni in gesso di statue in bronzo, marmo o terracotta e diversi volumi preziosi, stampe pregiate, schizzi e fotografie di grande valore, ampliando così la sua originaria funzione e diventando a tutti gli effetti anche gipsoteca e biblioteca.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’Accademia è un luogo d’avanguardia per qual che riguarda la particolare transizione artistico-culturale che dal realismo porta alle nuove correnti artistiche, a sostegno di tale affermazione basti pensare alla presenza all’interno della scuola di artisti quali Antonio Fontanesi, Giacomo Grosso, Vincenzo Vela, Odoardo Tabacchi ed Edoardo Rubino.

Successivamente, intorno agli anni Quaranta del Novecento, l’Accademia si trova di nuovo a vivere un periodo di particolare prestigio, grazie al lavoro di altre personalità illustri che sostennero l’importanza della scuola, tra di essi mi piace ricordare Felice Casorati, Enrico Paulucci, Francesco Menzio, Sandro Cherchi, Mario Calandri.
Questi nomi altisonanti dovrebbero bastare per far capire che, quindi, anche gli artisti studiano, e molto.
Negli ultimi anni l’edificio ha subito molti restauri e interventi di modifica soprattutto degli spazi laboratoriali. Anche la Pinacoteca è stata riorganizzata e resa più fruibile al pubblico.
Non solo in passato, ma ancora tutt’oggi gli studenti dell’Accademia hanno la fortuna di studiare a contatto con importanti nomi di artisti o personalità rilevanti nel settore, due esempi per tutti, gli storici dell’arte contemporanea Luca Beatrice e Maria Teresa Roberto.
Prima di proseguire ci terrei a soffermarmi sul motto dell’Accademia, che è “J’attends mon astre”. Carlo Alberto, nel 1843, fece incidere tale frase su una medaglia in cui era riprodotto un sigillo del 1373 appartenuto ad Amedeo VI di Savoia, detto il Conte Verde. La versione originale in francese antico era “Je atans mon austre”.

Sulla medaglia si vede una sfinge con Calea, abbassata sul volto con maschera di Scimmia. La sfinge schiaccia col corpo un serpente (l’Austria) e ha il collare di catene spezzato, attorno il motto “Je atans mo: astre”. Si potrebbe incominciare un interessante quanto complesso discorso a proposito dell’Ordine dei Cavalieri del Leone e della Scimmia, misteriosa associazione costituita in Germania verso il 1780, ramo della massoneria templaria, diretto discendente di un ordine templare dell’ XI secolo, ma le fonti sono assai poche e poi si andrebbe eccessivamente fuori argomento, vi basti sapere che in massoneria il leone rappresenta il potere e la gloria, mentre la sfinge è sinonimo di mistero esoterico.
Ora posso dire che il mio sogno di ragazzina è stato realizzato per ben cinque anni, sia durante il Triennio di Scenografia, e soprattutto durante il Biennio Specialistico di Decorazione.
Per tutta la durata della mia Alta Formazione Artistica (questa la definizione ufficiale del corso accademico) mi sono sentita totalmente coinvolta in quella realtà così peculiare, ho dato tutta me stessa sia nello studio sia nella realizzazione degli elaborati; mi preme tuttavia sottolineare che far parte di quella realtà non si esaurisce nel solo ruolo di studente, frequentare l’Accademia vuol dire rimanere in laboratorio quasi tutti i giorni fino a tardi, finché la scuola chiude, o, talvolta, “tagliare” e andare al bar di fronte, dove però ci si incontra con altri compagni di scuola e con cui si discute di arte, di artisti, di mostre da andare a visitare; e poi ci sono i mesi in cui fa bel tempo e il luogo di ritrovo diventa il cortile, dove si chiacchiera, si studia, si disegna, si fa amicizia con i ragazzi di altri corsi, ed è sempre tutto un continuo “crescere senza accorgersene”.

Sono sempre stata conscia della mia scelta di studi poco ortodossa, ci ho sempre scherzato sopra, sia con gli amici che mi dicevano che frequentavo “la scuola del pongo”, sia con i miei compagni di corso, con i quali ridevamo riguardo al difficile trasporto dei nostri lavori sui pullman (tra cui modellini in scala in compensato o tavole formato minimo 50×70 cm), oppure per quei fogli scritti a penna appiccicati alla porta della classe con scritto che la lezione era stata rinviata, peccato che noi eravamo carichi come muli e la lezione doveva tenersi all’ultimo piano senza ascensore.
Sono molti i ricordi che mi porto appresso, troppi da raccontare. Così come sono numerose le persone che ringrazio di aver incontrato, tra compagni e professori, che più o meno inconsciamente hanno contribuito alla mia formazione e alla mia crescita intellettuale e personale. Con loro ho condiviso non solo le fatiche degli esami e la preparazione delle due tesi, ma anche momenti di vita quotidiana, con loro ho parlato dei miei dubbi e delle mie idee, di cosa mi capitava nel frattempo al di fuori del laboratorio e a mia volta li ho ascoltati, studenti e docenti, cercando di carpire gli insegnamenti che sempre sono presenti quando il dialogo è vero e privo di barriere.

Ma tutto ha un prezzo e quello che sto ancora pagando io per aver perseguito i miei desideri si chiama “equipollenza”.
Non sto nemmeno a spiegarlo, dopo la tesi specialistica (110 su 110 e lode) non ci ho messo tanto a capire che il “momento artista” era terminato e che ora c’era “il mondo vero” da affrontare.
Permettetemi l’espressione colloquiale, ma è stata proprio “una bella botta!”
Reimpostare la bussola significa doversi guardare dentro, questa volta con la maturità intellettuale di un’adulta e non più con la frivolezza dell’adolescenza, accettare i proprio successi così come i propri errori, rimuginare ancora sul dove si vuole andare e soprattutto sul come arrivarci.
Il mio nuovo percorso aveva il sapore amaro dell’accettazione dei miei limiti, ma come sappiamo i fiori non nascono dai diamanti, e da quei pesanti pensieri è sorto il nuovo e attuale obiettivo di diventare insegnante di arte.

Ma torniamo a noi e a quella strana parola: “equipollenza”.
Se vi chiedessi che differenza c’è tra uno studente dell’Accademia di Belle arti e uno dell’Università, cosa rispondereste? Non è una barzelletta, è una semplice riflessione. In entrambi i casi si pagano le tasse universitarie, si viene immatricolati, gli studenti sono tenuti a frequentare le lezioni e a sostenere gli esami a cadenza regolare, i sacrifici delle famiglie per mantenere gli studi dei figli sono gli stessi da una parte e dall’altra eppure la situazione non sembra così semplice. Certo, siamo nella patria della burocrazia e tutto ruota attorno a cavilli e terminologie che hanno tutta l’aria di essere delle vere e proprie prese in giro, ma la questione resta: chi esce dall’Università ha una “Laurea” mentre chi ha frequentato l’ Accademia o il Conservatorio ha un “Diploma di Secondo Livello”. E, cari lettori, non avete idea di quando quel termine “diploma” possa risultare fastidioso dopo cinque anni di studio e fatica.
La lotta dei titoli tra Università e istituzioni AFAM è tutta dibattuta a suon di norme e leggi e va avanti dagli albori del tempo. Ma come in tutte le battaglie a rimetterci sono sempre i poveri fanti appiedati. Nella Legge 509 del ’99, che assegna alle istituzioni dell’Alta Formazione Artistica e Musicale un ruolo centrale nel sistema formativo italiano, si legge che: “L’Accademia con la riorganizzazione dell’assetto didattico, pedagogico, tecnologico ha perseguito l’intento di privilegiare anche il diritto allo studio. I corsi presenti (…) dialogano efficacemente con il variegato e affascinante mondo delle sperimentazioni (…). Appare sempre più evidente che produzione dell’arte ed elaborazione teorica non possono più essere viste come funzioni distaccate, ma devono divenire patrimonio comune di un fare e di un sapere contemporaneo in grado di sostenere il confronto dialettico con la complessità. Oggi, infatti, inevitabilmente i campi si intrecciano, poiché non esiste produzione senza riflessione teorica, né teoria che possa prescindere dalla creatività.“

Il sistema AFAM è costituito dai Conservatori statali, dalle Accademie di Belle Arti (statali e non statali), dagli Istituti musicali ex pareggiati promossi dagli enti locali, dalle Accademie statali di Danza e di Arte Drammatica, dagli Istituti Statali Superiori per le Industrie Artistiche, nonché da ulteriori istituzioni private autorizzate dal Ministero al rilascio di titoli aventi valore legale.
I titoli di Alta Formazione Artistica e Musicale hanno valore legale equiparato ai titoli universitari. Detto così sembra proprio che si possa dire che “siamo pari”, ma a tutti gli effetti non è così, come ben si evince, ad esempio, dal fatto concreto degli sconti sull’acquisto dei libri: gli studenti delle Accademie non ne possono quasi mai beneficiare poiché “quella non è Università”.
In attesa del completamento del processo di riforma del sistema AFAM, la costituzione di nuove istituzioni statali è possibile esclusivamente attraverso specifiche disposizioni di legge.
Il “contentino” ci è stato dato grazie alla Legge 228 del 24/12/2012, Art. 1, Commi da 102 a 107, in cui si attesta che, “al fine esclusivo dell’ammissione ai pubblici concorsi per l’accesso alle qualifiche funzionali del pubblico impiego per le quali ne è prescritto il possesso, è dichiarata l’equipollenza dei titoli di studio rilasciati dalle Accademie di Belle Arti del Decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 2005, n. 212”.
Quanto mi sta facendo faticare il mio sogno di bambina, ma è pur vero che “Solo nei sogni gli uomini sono davvero liberi, è da sempre così e così sarà per sempre.” (John Keating, “L’attimo fuggente”).

Alessia Cagnotto

Il Metodo Montessori: la rivoluzione raccontata in TV

Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata in TV
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

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4 “Il Metodo Montessori: la rivoluzione raccontata in TV”

Voi ve li ricordate i vostri insegnanti?  Ogni scuola ha il suo professore “preferito” e quello “che fa paura”, così come c’è quello “nuovo”, l’ultimo arrivato, che si controbilancia con il docente “storico”, che pare sia lì da quando hanno edificato le mura.  Quante persone abbiamo incrociato nei corridoi, quanti docenti di ruolo, ad oggi esseri mitologici, e quanti precari, che appena iniziavano a imparare la disposizione delle aule dovevano ricominciare a sperare di essere richiamati l’anno successivo, in chissà quale altra struttura. Quel che è certo è che ognuno dei docenti che avete incontrato si differenziava dagli altri, non solo per carattere o indole, ma perché, a livello più o meno inconscio, adottava una differente metodologia educativa. C’erano sicuramente i personaggi più autoritari, quelli che seguivano pedestremente il libro di testo, quelli che vi lasciavano più liberi nella gestione del tempo e del lavoro, probabilmente avrete incontrato professori che passeggiavano tra i banchi intanto che spiegavano, o altri che non si allontanavano mai dalla cattedra, quasi a voler sottolineare che c’è un confine ben preciso tra chi “docet” e chi deve imparare. Se siete stati fortunati avrete conosciuto anche docenti che osavano spostare i banchi o che addirittura chiamavano attorno alla cattedra gli studenti, tentando di portare un senso di democrazia e parità all’interno dell’aula. Qual è il giusto approccio? E chi lo sa. Di certo più metodologie si conoscono, più se ne possono utilizzare, e più si è in grado di relazionarsi con la classe, tenuto in debito conto gli studi pedagogici. Personalmente penso sia corretto alternare diversi metodi educativi, e proporre il “cooperative learning” o il “debate”, passando per la “peer education” e il “tutoring”, senza dimenticare, tuttavia, l’importanza e l’essenzialità della lezione frontale.

La storia della scuola si intreccia con il quadro delle metodologie didattico-educative, che a loro volta si incatenano alle vicende di alcuni personaggi specifici, i quali, grazie ad un particolare coraggio o ad una straordinaria lungimiranza e intelligenza, si sono distinti dai più, e hanno mostrato a tutti che c’è un’altra via, un altro modo di fare le cose.
Le avventure di tali pionieri non sono mai semplici, al contrario, queste personalità innovatrici hanno dovuto nella maggior parte dei casi combattere strenuamente per far affermare le proprie teorie.  Una di queste figure coraggiose si chiama Maria Montessori. Il nome completo è Maria Tecla Artemisia Montessori, che nasce a Chiavarella (AN), il 31 agosto del 1870. È educatrice, pedagogista, medico, neuropsichiatra infantile, filosofa e scienziata, nonché una delle prime donne a laurearsi presso la Facoltà di Medicina. Il suo nome passa alla storia grazie al suo metodo educativo, ovvero il “metodo Montessori” il cui intento è dare al bambino la libertà di manifestare la propria spontaneità.

L’educatrice sostiene che la salute, fisica e mentale, sia il risultato della “liberazione dell’anima”. Secondo la sua visione il processo educativo è in realtà un percorso di liberazione che il bambino deve intraprendere quasi in completa autonomia; il ruolo dell’adulto, in questo contesto, è quello di un accompagnatore che deve intervenire solo laddove risulti necessario un aiuto per proseguire in un tale progetto di conquista. Nel metodo Montessori l’insegnante ha il ruolo di agevolare le attività dei bambini ed è molto di più di una persona che tiene una lezione su determinati argomenti che vorrebbe insegnare.  Centrale per tutta la filosofia montessoriana è l’ambiente. Il luogo dell’apprendimento deve essere “a misura di bambino”, oltre che familiare, inoltre è necessario che vengano posti a disposizione degli alunni oggetti pedagogici appositamente studiati per favorirne lo sviluppo intellettuale. Gli scolari, da soli, saranno in grado di imparare dal proprio comportamento e di autocorreggersi. È opportuno che l’ambiente sia altresì ordinato, poiché l’abitudine all’ordine aiuta i piccoli a comprendere quanto sia importante riporre i giochi e gli oggetti dopo l’utilizzo. Il bambino apprende meglio in un ambiente stimolante e ricco di oggetti interessanti che attirino la sua attenzione. Egli dovrebbe poter disporre di diversi tipi di materiali anche di differenti dimensioni, nonché di strumenti per disegnare e colorare, in modo tale che il piccolo possa stimolare la propria creatività. Sono dunque consigliate attività incentrate sull’utilizzo delle mani, in questo modo il bambino, divertendosi, impara a concentrarsi e a coordinarsi. È importante inoltre che gli argomenti e i concetti da apprendere siano inseriti nel giusto contesto. In questo modo i bambini li comprenderanno e li ricorderanno meglio. Esempi concreti sono più facili da capire rispetto a concetti astratti. Tale indicazione sottolinea come i bambini imparino meglio “facendo” qualcosa piuttosto che rimanendo semplicemente ad ascoltare.

Il principio più importante attorno a cui ruota tutto il pensiero montessoriano è la libera scelta. I bambini imparano e assorbono più informazioni quando vengono lasciati liberi di compiere le proprie azioni. Ovviamente ciò non significa “libertà di fare ciò che si vuole senza alcuna regola”, al contrario, in questo modo lo scolaro impara a responsabilizzarsi e a capire qual è la scelta giusta da compiere.  Il metodo Montessori incoraggia i bambini a sviluppare indipendenza e autodisciplina; con il tempo e con la possibilità di agire in autonomia, gli studenti iniziano a riconoscere quali siano le proprie passioni e inclinazioni. È bene ricordare come alla Montessori non stiano a cuore i metodi di insegnamento basati su premi e punizioni, in quanto la studiosa ritiene che la vera ricompensa per il bambino sia rappresentata dall’apprendimento stesso e dalla sua capacità di aver imparato qualcosa di nuovo grazie alla propria curiosità e alle proprie capacità.
Altra peculiarità della sua metodologia riguarda l’apprendimento in gruppi misti, costituiti da bambini di diverse età; la Montessori sostiene infatti che tale difformità possa essere uno stimolo aggiunto per l’apprendimento. Ad esempio i bambini più piccoli potrebbero essere incuriositi da ciò che fanno i più grandi e potrebbero chiedere loro delle spiegazioni; così i grandi saranno felici di insegnare ai piccoli ciò che sanno fare e che hanno già imparato.

Tutto questo Maria Montessori lo propone a fine Ottocento, opponendosi ad un sistema scolastico più che mai rigido e classista. Possiamo dunque giocare a fare meno i “dottoroni” quando inseriamo appositamente nei nostri discorsi quei termini anglofoni che tanto vanno di moda oggi, il lavoro di gruppo non è una novità e il dibattito è un metodo educativo utilizzato già dagli antichi.  La letteratura che riguarda Maria Montessori e i suoi studi è decisamente vasta, molto si è detto a riguardo delle sue scoperte e delle innovazioni che ha apportato al sistema scolastico.
Nel 2007 Canale 5 le dedica una miniserie televisiva di due puntate, intitolata “Maria Montessori -Una vita per i bambini”. A interpretare la protagonista è stata scelta Paola Cortellesi, camaleontica attrice nota sia per i suoi numerosi spettacoli teatrali sia per le numerose parodie, abile interprete di ruoli comici e drammatici, ma mai scontati o banali.
Proprio per ricollegarci al discorso iniziale delle varie metodologie didattiche, mi sento di poter affermare che ogni tanto ci possiamo concedere anche l’utilizzo di strumenti “meno scolastici” come la televisione o le fiction per imparare divertendoci. È ovvio che in questo caso si tratta di un riadattamento romanzato della vita di Maria Montessori, e non di un vero e proprio documentario biografico; infatti la miniserie presenta tutte le caratteristiche che un programma televisivo in onda in prima serata deve contenere: la biografia della pedagogista diventa narrazione piacevole e scorrevole e le difficoltà private della protagonista si intrecciano con i suoi successi professionali: insomma la nostra eroina è la classica grande donna capace di affrontare le proprie fragilità e sconfiggere l’ingiusto sistema supportato dalla tradizione.

Una bella storia raccontata con la leggerezza della fiction televisiva. Ma è dalle cose semplici che si impara di più. E forse la drammatizzazione non è poi così lontana dalla realtà.
La Montessori è stata una donna coraggiosa, una pioniera e un’innovatrice, i posteri hanno ben giudicato le sue metodologie e le sue azioni.
Certo è che il mestiere dell’insegnante non è facile, anche se a mio parere è tra i più belli che esistano. Ogni tanto anch’io penso: chissà se sto facendo bene, se il mio approccio con i discenti è adeguato, se sto commettendo degli errori. Dovrei chiedere ai miei studenti, che da sempre sono i giudici più severi.

Alessia Cagnotto

Le riforme e la scuola: strade parallele

Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

3 Le riforme e la scuola: strade parallele

La storia della scuola, come ho già ho avuto modo di dire, è assai complessa e articolata.
Il sistema scolastico italiano si è da sempre modificato, riforma dopo riforma, nel tentativo di adattarsi alle richieste e alle necessità dei vari periodi storici.
E’ possibile dunque affermare che la scuola è, con tutti “i pro e i contro”, il riflesso dei mutamenti sociali. Essa è costantemente coinvolta in processi di adeguamento strutturali, organizzativi e didattici. L’argomento “scuola e riforme” è assai vasto, poiché alle tematiche più prettamente legate all’ambito educativo-didattico si annettono diverse problematiche come la dispersione scolastica (L. 496/94, L. 296/2006, DM 139/2007), l’obbligo scolastico (L. 144/99, L. 53/03), l’abolizione degli esami di riparazione (L. 352/95), l’edilizia scolastica (L. 23/96, DM 11 aprile 2013), e inoltre vi sono tutta una serie di normative che, pur essendo di diversa natura, toccano comunque il mondo della scuola. Come divincolarsi dunque in una materia così articolata ed arzigogolata? Proviamo a partire, come si suol dire, dall’inizio.  La prima importante riforma che è bene ricordare è la Legge Casati, promulgata dal Ministro della Pubblica Istruzione Gabrio Casati nel 1859, considerata come il vero e proprio atto di nascita della nostra scuola italiana. Tale norma pone a carico dello Stato la responsabilità dell’educazione del popolo e sancisce per la prima volta l’obbligatorietà e la gratuità della scuola elementare. Il primo ciclo scolastico, secondo tale normativa, era articolato su due bienni, (di cui solo il primo obbligatorio), a cui seguiva una duplice scelta: il ginnasio (a pagamento) o le scuole tecniche. Dopo questi anni di studio e formazione vi era l’università a cui però accedevano solo gli studenti che avevano frequentato il ginnasio, spesso figli di famiglie agiate e che potevano permettersi di supportare i giovani nello studio. Con la legge Casati, inoltre, si cerca di affrontare per la prima volta la grave problematica dell’analfabetismo dilagante in tutta la penisola: la situazione non viene risolta e tale aspetto si va a sommare con gli altri difetti della normativa, a noi evidenti.

Nel 1860 il ministro Terenzio Mamiani approva i primi programmi scolastici, che includono tra le materie fondamentali la religione cattolica e si propongono di assicurare un’alfabetizzazione di base per tutta la popolazione. Nel 1867 i programmi vengono modificati, lo spazio dedicato alla religione viene meno, e le ore dedicate a tale materia sono attribuite a educazione civica. Il 15 luglio 1877 venne promulgata la Legge Coppino, che porta l’obbligo elementare inferiore fino ai nove anni. Tale legge è assai importante per l’istruzione italiana in quanto contribuisce ad innalzare il tasso di alfabetizzazione. I risultati delle leggi attuate nel mondo della scuola iniziano a vedersi intorno agli inizi del XX secolo, il grado di analfabetismo cala visibilmente, eppure emergono nuove difficoltà, come il fenomeno della disoccupazione intellettuale e un generale malcontento diffuso tra la classe borghese, preoccupata per un possibile sconvolgimento dello “status quo” sociale.

In questo contesto si inserisce la Legge Orlando, promulgata l’8 luglio del 1904, con la quale si estende l’obbligo scolastico a 12 anni, si impone ai Comuni di istituire scuole fino alla classe quarta e si assicura assistenza economica agli alunni meno abbienti. Il provvedimento non riscuote i risultati sperati e a tale riguardo risultano emblematiche le parole di F.S. Nitti, (discorso pronunciato in Parlamento l’8 maggio 1907): “In Italia la popolazione scolastica è così scarsa ancora, dopo 50 anni di unità e dopo 30 anni di istruzione obbligatoria, che si può dire che lo scopo della legge del 1877 non fu mai realizzato. Vi sono almeno 4 milioni e mezzo di bambini che avrebbero l’obbligo di seguire le scuole, ma sono appena 2 milioni e 700 mila che le frequentano”.
Di certo una delle riforme più conosciute e discusse è la così detta Riforma Gentile. Il contesto storico in cui viene attuata la legge sono gli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale: in questo periodo lo Stato è fermamente impegnato a dare un assetto organico al sistema scolastico, vengono riesaminate le norme in vigore e si rimuove dal sistema ciò che è considerato improduttivo o imperfetto. Viene eletto Ministro della Pubblica Istruzione il filosofo Giovanni Gentile, il quale afferma: “nella scuola lo Stato realizza se stesso. Perciò lo Stato insegna e deve insegnare. Deve mantenere e favorire le scuole”. Tale riforma consiste in una moltitudine di norme, decreti e regolamenti, raccolti in un T.U. (R.D. 5-2-1928, n. 577) e nel relativo regolamento di esecuzione (R.D. 26-4-1928, n. 1297) che interessano le scuole di ogni ordine e grado, comprese le università. Sono previsti cinque anni di scuola elementare uguale per tutti, suddivisi in un triennio e in un biennio, a cui segue la scelta di un duplice percorso, o un triennio professionale, (le scuole di avviamento) o un ginnasio; dopo di che vi sono le scuole superiori: tre anni per il liceo classico, quattro per il liceo scientifico, tre o quattro anni per gli istituti tecnici, magistrali o per i conservatori. Alle classi meno abbienti viene riservata l’ “educazione del lavoro”, svolta attraverso la frequenza della scuola di avviamento professionale, riordinata dalla L. 22-4-1932, n. 490, e le scuole dell’ordine tecnico.

La riforma Gentile è complessa e articolata, è possibile comunque evidenziarne alcuni punti chiave, come l’estensione dell’obbligo scolastico fino ai 14 anni, l’ istituzione di scuole speciali per allievi in condizione di disabilità sensoriali della vista e dell’udito, l’ istituzione di rigidi controlli per l’inadempienza dell’obbligo scolastico e la creazione di appositi istituti magistrali per la preparazione dei maestri elementari. I programmi delle scuole elementari ripristinano l’insegnamento della religione cattolica, salvo richiesta di esonero, e valorizzano il canto, il disegno e le tradizioni.  La struttura del sistema scolastico italiano resta sostanzialmente improntata a tale modello anche dopo la fine del fascismo, ed i programmi della scuola elementare non subiscono variazioni significative per oltre quarant’anni.  Nel 1939 il Ministro Giuseppe Bottai propone una nuova riforma volta a sottolineare la necessità di una scuola di massa, distinta e gerarchizzata al suo interno, che risponda alle esigenze economiche del paese e del governo. Tale riforma rimane però sulla carta, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fa sì che venga approvata solo la Legge del 1940 riguardante la scuola media, che diventa così un unico triennio uguale per tutti i corsi inferiori ai licei e agli istituti tecnici e magistrali; rimane inalterato il sistema dell’avviamento professionale. Essenziale, per il nostro discorso sulle riforme scolastiche, è la Costituzione della Repubblica italiana, promulgata il 27 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948. Il documento dedica alcuni articoli all’istruzione, che viene considerata essenziale per procurare un maggior benessere alla collettività e per migliorare ed elevare le condizioni di vita dei cittadini. Si sottolinea la necessità di avere una scuola democratica, che sia d’aiuto alla formazione della persona e che prepari i singoli individui a vivere nella società, intesa come luogo di integrazione e di esplicazione della propria personalità.

La Costituzione è certamente un testo articolato e forse, in alcune parti, di difficile lettura, ma ogni cittadino dovrebbe impegnarsi a leggerla, almeno una volta, anche se non nella sua interezza. Per questo nostro discorso sulla scuola e l’istruzione, oltre all’art.33 c1 (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”), è bene soffermarsi sull’art. 34 che così recita: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria ed è gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. Parole importanti, che richiederebbero una riflessione approfondita. La seconda metà del XX secolo è scandita da un ulteriore susseguirsi di cambiamenti. Nel 1962 viene abolita la scuola di avviamento a favore di un’unica tipologia di scuola media che permette agli studenti di accedere a tutti gli istituti superiori; nel 1969 gli ingressi all’università vengono estesi agli studenti provenienti da qualsiasi istituto superiore, togliendo così il privilegio al liceo classico. Nel 1974 vengono introdotte una serie di figure che diventano presto fondamentali per la scuola, ossia il rappresentante degli studenti, i rappresentanti dei collaboratori scolastici e i rappresentanti dei genitori. Di grande rilievo è la Legge Ferrucci del 1977 che introduce l’assegnazione di insegnanti di sostegno per gli studenti disabili. Gli anni Settanta si concludono con la rimozione del latino dalle discipline autonome delle scuole medie.

Siamo ormai giunti a tempi decisamente più recenti. Le riforme che avvengono tra gli anni Novanta e Duemila seguono pedestremente l’andamento della scena politica e l’alternarsi delle “fazioni” vincitrici.  Berlinguer, con il “Documento di discussione sulla riforma dei cicli di istruzione”, dichiara la volontà di annullare la distinzione tra formazione culturale e formazione professionale, tale scritto sottolinea inoltre la volontà di introdurre un’istruzione, successiva alla scuola materna, a due cicli oppure a ciclo unico. Il 3 giugno 1997 il governo, con la presentazione della “Legge Quadro in materia di Riordino dei Cicli dell’Istruzione”, vota per l’introduzione di un sistema educativo a due cicli, primario e secondario. Il primo ciclo ha come obbiettivi sia la formazione della personalità dello studente, attraverso la promozione dell’alfabetizzazione e dell’apprendimento di conoscenze fondamentali, sia il favorire la nascita di un’attitudine all’apprendimento, perché vengano riconosciuti i valori della convivenza civile e democratica.
Il secondo ciclo deve invece fornire agli studenti le competenze necessarie ad affrontare gli studi universitari o il mondo del lavoro, a seconda degli obiettivi e delle capacità di ogni alunno.
Tale riordino riguarda tutti i cicli scolastici, anche le università nelle quali vengono introdotte le lauree triennali e le specialistiche. Inoltre viene innalzato l’obbligo scolastico fino ai 16 anni.
La riforma Berlinguer, viene approvata nel 2000 ma è destinata a non entrare in vigore.

Arriviamo dunque alla Riforma Moratti, promulgata con la Legge del 28 marzo 2003 n.53, con la quale viene abolita la precedente riforma Berlinguer e vengono effettuate diverse modifiche sull’ordinamento delle istituzioni. La normativa interessa tutti gli ordini scolastici, a partire dalla scuola dell’infanzia fino alle università. Tra le disposizioni principali ricordiamo l’introduzione dello studio della lingua inglese e dell’informatica già dal primo anno della primaria, l’abolizione dell’esame alla fine del primo ciclo d’istruzione, mentre alle superiori viene inserita l’alternanza scuola-lavoro e ancora all’università viene introdotta l’idoneità scientifica nazionale, requisito fondamentale per accedere ai concorsi per professori universitari.
I provvedimenti del Ministro Moratti vengono frenati dal Ministro Fioroni.
Per me le riforme Moratti e Gelmini sono reminiscenze del liceo, le prime manifestazioni a cui si partecipava “in massa”, con il fervore accresciuto dalla sensazione di far parte di qualcosa. Ricordo che con quasi tutta la classe ci si ritrovava o a Palazzo Nuovo, (luogo comodo per una ex giobertina) o in Piazza Albarello, poi partiva il corteo; si cantava e si mostravano gli striscioni alla cittadinanza con la certezza che quelle azioni non violente e svolte con razionalità e giudizio, avrebbero sicuramente cambiato la storia.
Protestavamo, ma le riforme venivano promulgate costantemente, come se ai piani alti nessuno si interessasse di noi poveri studenti delusi.
Nel 2008 il Ministro Mariastella Gelmini dà il via ad un’altra riforma scolastica, i suoi provvedimenti riguardano prevalentemente degli ingenti tagli economici, in generale provocano scontento e scalpore, come il ripristino del maestro unico e la reintroduzione del voto in condotta.

Senza essere troppo di parte, va detto che da tale programma non siamo più tornati indietro.
Infine arriviamo alla Legge 13 luglio 2015, n. 107, nota come “La Buona Scuola”, che è la riforma del sistema nazionale di istruzione, formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti. Essa comprende, tra il resto, il Regolamento dell’Autonomia, il Fondo di Funzionamento, il Piano Triennale dell’Offerta Formativa, il Percorso formativo degli studenti, l’Alternanza scuola-lavoro, l’Innovazione digitale, la Didattica Laboratoriale. Riformare la scuola non è facile, come dimostrano tanti progetti rimasti incompleti nel corso del tempo. “La Buona Scuola” è un progetto di riforma di ampio respiro, con al suo interno numerosi aspetti positivi, come ad esempio l’organico dell’autonomia, cui si collega l’assunzione di tantissimi precari. Ampi poteri vengono conferiti al Dirigente Scolastico, che viene ad assumere effettivamente la figura di Preside manager. La scuola è un organismo complesso, fatto di componenti diverse che devono muoversi in sinergia, il che richiede grandi capacità gestionali, impegno assiduo, intelligente assunzione di responsabilità da parte di chi la dirige.
Sin dagli anni Novanta, gran parte dell’ Europa è impegnata nel comune intento di migliorare le politiche autonomistiche nel campo dell’ istruzione, nella prospettiva di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento.  Cosa stia accadendo ora all’intero delle scuole, devo ammettere, non è chiaro. Il virus imperversa quasi incontrastato e costringe sia professori (me compresa) che studenti in condizioni difficoltose e scomode, destabilizzanti per un buon funzionamento della macchina scolastica, ma la situazione attuale impone spirito di sacrificio.

Alessia Cagnotto

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati

Torino e la Scuola

1. Educare, la lezione che ci siamo dimenticati
4. Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
5. Studenti torinesi: Piero Angela allAlfieri
6. Studenti torinesi: Primo Levi al DAzeglio
7. Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
8. Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
9. UniTo: quando interrogavano Calvino
10. Anche gli artisti studiano: lequipollenza Albertina

1“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati. Come i greci e i latini ci hanno insegnato “la scuola”

Una delle prime raccomandazioni che Geppetto fa a Pinocchio è di comportarsi bene e di andare a scuola, ma quanto sarà arduo per il burattino portare a termine questa elementare impresa! La favola di Collodi racconta che il bambino di legno si avvia verso la meta prestabilita, con tanto di quaderno e sussidiario, ma subito incontra diverse distrazioni che lo allontanano dalla sua destinazione: si tratta ovviamente di una metafora sulla strada della vita, lungo la quale sono molti gli ostacoli che dobbiamo superare. Limpresa che Pinocchio deve affrontare è in realtà quella di crescere, egli infatti incontrerà sul suo percorso persone malvagie e individui buoni, dovrà imparare a scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, finché, una volta divenuto responsabile e saggio, capirà qual è la via giusta da percorrere e potrà infine vedere esaudito il suo desiderio più grande.
Vi è un altro episodio, allinterno della stessa narrazione, che sottolinea limportanza attribuita dallo scrittore fiorentino al tema dello studio: il capitolo riguardante il Paese dei Balocchi.

Questa volta lingenuo protagonista si ritrova in un luogo dove tutto appare meraviglioso, i bambini giocano incessantemente da mattina a sera, addirittura possono fumare, bere e rompere le cose (una scena della versione disneyana mostra anche la distruzione del celebre dipinto della Gioconda), ma non tutto è come sembra. I fanciulli a furia di divertirsi e basta si trasformano in asini, e, una volta divenuti bestie, vengono venduti per lavorare nei campi. Il messaggio è crudo e drammatico ma ancora una volta molto chiaro: la mancanza di istruzione porta alla schiavitù.
Ma quanti sono i bambini che da sempre piagnucolano per non voler andare a studiare in classe?
Non c’è niente da fare, nessuno, dallalbore dei tempi, è mai stato contento di svegliarsi presto per andare a farsi interrogare, eppure a scuola bisogna andarci.
Lultimo drammatico periodo pandemico ci ha fatto sicuramente aprire gli occhi su quanto le istituzioni scolastiche siano essenziali. Mai come negli ultimi mesi si è sentita così tanto pronunciare la parola scuola.

Ma, nonostante tutte le riflessioni fatte, se vi si chiedesse a cosa serve andare a scuola? cosa rispondereste?

Ricordo che una volta incontrai un mio professore del liceo, chiacchierando mi disse che la scuola è quella cosa che rimane invariata mentre il resto cambia e si trasforma; non capii allepoca il senso della sua affermazione, non mi trovai daccordo  con lui, poiché, come ben si addice ad una giovane studentessa, pensavo che la didattica dovesse modificarsi con il passare delle epoche, adattarsi agli studenti e scrollarsi di dosso un po di vecchiume.

Ebbene, ora che sto tentando di passare dallaltra parte della barricata, sento di aver cambiato idea, o, quantomeno, di aver compreso che la questione è assai complessa.
Forse, distratti dalla frenesia costante della vita contemporanea, ci siamo dimenticati del vero motivo per cui è necessario ed essenziale  che gli studenti si siedano dietro i soliti banchi sgangherati, allinterno di aule pregne di spifferi. Vediamo se riusciamo a ricordarcelo.

Per prima cosa credo sia importante partire dalletimologia di alcuni termini, come, appunto, scuola: pop. o poet. scòla s. f.,  lat. schŏla, dal gr. σχολή, che in origine significava (come “otium” per i Latini) libero e piacevole uso delle proprie forze, soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico, e più tardi luogo dove si attende allo studio (Enciclopedia Treccani). Già con questa definizione potremmo ritenerci sufficientemente soddisfatti: a scuola si va per ricevere uneducazione. Ma allora che cosa significa educare? Il termine ha una doppia derivazione latina, esso si riconduce sia a ex duco ossia tiro fuori, sia a educo, cioèconduco. Ed è proprio qui che sta linghippo: dalla duplice significazione del termine derivano anche due differenti modelli pedagogico-educativi.  Appurato dunque che la scuola serve ad educare, ora è quindi necessario capire come farlo: è meglio lesempio della paideia (sistema educativo) di Socrate o quello platonico tanto caro alla patristica medievale? È più giusto che il maestro ricopra il ruolo di stimolatore, come si evince dal romanzo didattico Emilio di Rousseau o è preferibile che colui che insegna sia una vera e propria guida, e che educhi il discente alla moralitàattraverso la ragione, come diceva Kant? Ha più senso un tipo di apprendimento laboratoriale o uno basato sullaccumulare nozioni?
Il file rouge che lega levoluzione della storia delle istituzioni scolastiche è proprio questo dualismo di metodologie pedagogiche, luna incentrata sulla libertà delleducando e sullimportanza dellesperienza e laltra invece a sostegno dellautorità delleducatore, unico detentore della verità.


Ma partiamo dallinizio. Chi lha inventata questa scuola così tanto mal voluta? Ancora una volta è colpa dei greci. La civiltà europea nasce dalla civiltà greca, e da questa ha innegabilmente ricevuto le forme essenziali del pensiero e dellespressione.
Nel lontanissimo 594 a.C., larconte Solone promulgò alcune leggi che disciplinavano le attività scolastiche. E chissà se già allepoca i piccoli scolari erano soliti inventarsi pestiferi stratagemmi per ingannare le madri al fine di scampare allinterrogazione di matematica?
Altre testimonianze dellesistenza di un sistema distruzione sono costituite da ritrovamenti di cocci di vasi risalenti al VI secolo a.C., rinvenuti ad Atene; tali reperti sono essenziali per comprendere che il saper scrivere era, almeno nella polis egemone, unabilità ordinaria.

Vi sono altri reperti, risalenti al V secolo, di vasi a figure rosse che ritraggono specificatamente scene di vita scolastica, con alunni che imparano a leggere e scrivere. In realtà le informazioni sul reale funzionamento del sistema scolastico sono assai poche. Sappiamo che i ragazzi (pare non ci fossero scuole femminili) erano istruiti in ginnastica da un paidotribes; in musica (cioè a eseguire pezzi cantati con accompagnamento di cetra) da un chitaristes; a leggere e a scrivere da un grammatistes. Secondo Platone (Protagora 325e), il grammatistes poneva davanti a loro sui banchi i carmi di maestri della poesia da leggere e da imparare a memoria. Si può dedurre che tali istituzioni non fossero statali, poiché i figli dei ricchi, secondo il Protagora di Platone, sono i primi a intraprendere gli studi nelle scuole, e gli ultimi a uscirne. L istruzione elementare non era obbligatoria, non di meno lo stesso Aristofane (il grande commediografo greco, V-IV sec. a.C.) afferma che perfino i cittadini più disagiati, anche se non potevano permettersi di studiare musica e poesia con un kitaristes, a leggere e a scrivere in qualche modo imparavano. Gli studenti più piccoli trascorrevano i primi cinque anni del percorso scolastico con il grammatistes, un vero e proprio maestro elementare che insegnava loro dapprima lalfabeto, poi le sillabe, poi le parole intere, con la corretta suddivisione in sillabe. I papiri ci testimoniano i mille esercizi di copiatura e di scrittura sotto dettato. I testi scelti per la copiatura erano lineari, ma ricchi di contenuto morale, favole, racconti su figure illustri della storia o del mito. La seconda fascia scolastica interessava i ragazzi fra i dodici e i quindici anni,  i quali, sotto la guida del grammatikos, imparavano ad esercitarsi nella lettura e nel comporre. La materia base di questi specifici anni scolastici era la poesia, materia assai importante, che forniva agli studenti conoscenze mitologiche, geografiche, storiche, associate alla comprensione delle regole grammaticali e stilistiche. Vi erano poi i gymnasia, dove i discenti erano seguiti da docenti di retorica e filosofi.
Lo schema educativo greco venne ripreso a Roma, anche se qui la questione sembra complicarsi ulteriormente. La scuola romana èsuddivisa in tre momenti differenti: dai sette ai dodici anni, dai dodici ai sedici anni e infine dai diciassette ai ventanni.


I primi anni di formazione sono affidati al magister ludi, il maestro di gioco, che ha il compito di insegnare a leggere e a scrivere e a fare i calcoli più semplici. Accanto a tale figura vi è il paedagogus, pedagogo, lo schiavo greco incaricato di accompagnare a scuola i bambini (e anche i ragazzi più grandi), in tal modo il giovane era costretto ad assimilare perfettamente la lingua greca. Segue poi la scuola del grammaticus, in questi anni le materie di studio aumentano e diventa centrale lapprofondimento dei testi poetici e il loro commento. Gli studenti affrontano anche le prime esercitazioni retoriche, ad esempio composizione di favole di tipo esopico, e brevi e semplici composizioni moraleggianti. Altre materie erano la musica, la geometria, la recitazione e la ginnastica.
Avanzando nel percorso scolastico,  spiccano gli insegnamenti di retorica, diritto e filosofia.
Lo sviluppo delle scuole retoriche viene tenuto in gran considerazione, soprattutto sotto i Flavi, a tal proposito è bene ricordare il noto provvedimento di Vespasiano di assegnare uno stipendio statale annuo di 100.000 sesterzi ai retori di Roma, con lo scopo di fare dei giovani usciti dalle scuole dei funzionari imperiali capaci di valorizzare la loro azione di governo con laiuto delleloquenza. I punti fondamentali dellinsegnamento retorico erano i seguenti: esercizi preliminari; insegnamento sistematico dei cinque momenti competitivi delloratoria: inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio; declamatio, recitazione a memoria, da parte di ogni discepolo, di orazioni da lui preparate sotto la guida del docente. La scuola di diritto rappresenta la sola innovazione originale latina rispetto allinsegnamento greco. Alla sua base sta la grande tradizione e sensibilità giuridica romana, potenziata e approfondita dalle esperienze filosofiche del mondo greco.

La storia del sistema scolastico è assi lunga e complessa e nei prossimi articoli di questo ciclo che ho voluto dedicare al tema dellistruzione e della scuola ne ripercorrerò le tappe fondamentali attraverso i vari periodi storici.
Che dire ancora? Volenti o nolenti da sempre la scuola bisogna frequentarla, e da sempre dapprima non ci si vuole andare e poi la si rimpiange. Ad un certo punto poi la scuola finisce ed inizia la vita vera e propria, e alla domanda a che cosa serve la scuola ognuno risponderà a modo suo.

Alessia Cagnotto