Torino e i suoi teatri
1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.
9 Il fascino dell’Opera lirica
Cari lettori, eccoci quasi arrivati al termine di questo ciclo di articoli dedicati ai maggiori teatri di Torino.
Manca tuttavia uno dei fiori all’occhiello della nostra città, il più che famoso Teatro Regio, importante centro nevralgico per l’intrattenimento culturale torinese, un cuore che pulsa al suono dell’orchestra e dei cantanti lirici che lì si esibiscono.
Così come vi ho proposto una breve Storia del Teatro prima di affrontare nello specifico le vicende del Gobetti, del Carignano, del Colosseo, dell’Alfieri e dell’ormai abbandonata “Bomboniera” di Macario, ora mi accingo a presentarvi un sunto – ridotto ma esaustivo al meglio delle mie capacità – della storia dell’opera lirica, che precede il prossimo ed ultimo pezzo dedicato al Regio.
Le informazioni che vorrei fornirvi sono tante, è quindi il caso di smettere di “cincischiare” e avviare il nostro percorso.
Con il termine “opera” si indica un peculiare genere teatrale e musicale, in cui l’azione scenica si abbina alla musica e al canto.
Il vocabolo, di uso internazionale, come ci dimostra ad esempio la titolazione dell’iconico album dei Queen “A Night at the Opera” (1975), è la forma abbreviata di “opera lirica”; vi sono diverse parole o locuzioni che possono essere adoperate come sinonimi, tra le quali “melodramma”, “opera in musica” o “teatro musicale”, espressioni largamente utilizzate nel linguaggio comune o mediatico.
Mi preme altresì sottolineare che, a partire dal 2013, l’Associazione Cantori Professionisti d’Italia ha depositato presso il MIBACT il dossier per la Candidatura UNESCO per l’opera italiana, con l’intento di iscrivere l’opera all’interno del Patrimonio dell’Umanità protetto da UNESCO.
Possiamo inorgoglirci un po’, dato che la vera patria dell’opera è proprio la nostra bella Italia. Tale forma artistica si sviluppa nella penisola a forma di stivale in tempi assai lontani; solo a partire dal Seicento il gusto per il melodramma si espande nel resto dell’Europa, consolidandosi con caratteristiche proprie nei vari Stati.
Nel corso del tempo si sono formati diversi generi di opera lirica, tutti in continua contaminazione reciproca e sempre sottoposti a modifiche, per accontentare i gusti scostanti del pubblico e l’ego smisurato degli artisti. Fanno parte di tali tipologie: l’“opera seria”, una rappresentazione incentrata sui drammi e sulle passioni dell’uomo; l’ “opera buffa”, che nasce a Napoli verso la metà del XVIII secolo, ma presto si diffonde anche a Roma e nel nord della penisola; diversi compositori famosi, come Mozart, Rossini o Donizetti, contribuiscono al diffondersi di questa modalità operistica. Vi è poi il “melodramma giocoso”, un intreccio sentimentale che si conclude con un lieto fine, l’espressione è utilizzata per la prima volta da Cosimo Villafranchi (1646-1699) nella prefazione del suo “L’ipocondriaco” e diventa in seguito di largo uso grazie a Carlo Goldoni, che inizia a impiegarla regolarmente a partire dal 1748. Vi è poi la “farsa”, che piace soprattutto a Venezia e a Napoli, e si presenta come un’opera di carattere buffo con un solo atto, a volte rappresentata insieme a dei balletti.
Tipiche della Francia sono invece l’ “Opéra-comique” e la “Grand opéra”. La prima è un genere operistico che deriva dal “vaudeville” dei Theatres di St Germain e St Laurent; la seconda domina la scena dagli anni Venti agli Ottanta dell’Ottocento, sostituendosi alla “tragédie lyrique”; grandi esempi inscrivibili in questa categoria sono“La muette de Portici” di Auber (1828) e “Guillaume Tell” di Rossini (1929).
Nell’area tedesco-austriaca troviamo il “Singspiel”, letteralmente “recita cantata”, diffusosi tra il XVIII e il XIX secolo e costituito dall’alternanza di parti cantate e recitate; la peculiarità del “Singspiel” è l’uso della lingua tedesca al posto di quella italiana durante i recitativi. Ancora nel valchirico nord si diffonde anche il “Musikdrama”, termine tedesco che definisce l’unità di prosa e musica; a coniare l’espressione è Theodor Mundt, nel 1833, in seguito sarà poi il compositore Richard Wagner (1813-1883) ad utilizzare questa stessa terminologia per identificare le proprie opere, come “L’olandese volante”, “Tristano e Isotta”, o il “Parsifal”.
Risulta difficoltoso indicare quale sia l’origine esatta del genere operistico.
Alcuni studiosi riconducono le radici della lirica alla tradizione del teatro medievale e fanno riferimento ad autori quali Guido d’Arezzo o alla religiosa Ildegarda di Bingen, autrice del dramma “Ordo Virtutum” (1151). Non di meno va ricordato che nel Cinquecento l’uso delle canzoni è presente nella Commedia dell’arte, nel “ballet de court” francese o nella “masque” inglese, mentre per quel che riguarda l’importanza dell’impiego degli spazi musicali è opportuno menzionare i drammi pastorali.
Tuttavia è di comune avviso far risalire la nascita dell’opera a cavallo tra i secoli XVI e XVII, quando la “Camerata de’ Bardi”, un gruppo di intellettuali fiorentini, dediti in principal modo allo studio della civiltà classica, vuole realizzare spettacoli similari alle antiche tragedie greche.
I componenti del gruppo in realtà non dispongono di sufficiente materiale storiografico per comprendere come effettivamente venissero inscenate le tragedie nell’antica Grecia, né conoscono appieno la musica ellenistica. Ad oggi, l’unico esempio di dramma greco pervenutoci è un brevissimo frammento incompleto appartenente ad un coro dell’ “Oreste” di Euripide (408 a.C.).
Se con la datazione rimaniamo possibilisti, è pur certo che le rappresentazioni risalenti al periodo rinascimentale avvengono nei palazzi privati, edifici spesso dotati al loro interno di piccoli teatri, utilizzati esclusivamente dalle famiglie reali e dalla nobiltà. Inizialmente dunque assistere ad uno spettacolo lirico è un privilegio del tutto aristocratico.
La questione muta durante l’epoca barocca, momento di grande espansione per la lirica, quando vengono inaugurati a Venezia due teatri pubblici, il Teatro San Cassiano (1637) e il Teatro Santi Giovanni e Paolo (1639). Il grande pubblico può ora partecipare a tali tipologie di intrattenimento e gli autori devono dall’altra parte adeguarsi alle esigenze della nuova platea; gli scrittori scelgono di mettere in scena trame vicine alla quotidianità, compongono melodie più orecchiabili e arie che permettono ai cantanti di dimostrare il proprio talento canoro.
Da questo momento in poi l’opera riscuote sempre più successo, si diffonde in Europa, a partire dalla Francia e dalla Germania fino alla Russia, con modalità e caratteristiche specifiche che si rifanno alle tradizioni locali.
In epoca seicentesca i soggetti prediletti sono i poemi omerici, gli scritti virgiliani e le vicende cavalleresche, con una predilezione per Ariosto e Tasso; gli spettacoli sono impreziositi da spunti comici e fantasiosi e caratterizzati musicalmente da un basso continuoaccompagnato da strumenti a fiato e ad arco.
In Italia, a segnare l’effettivo stacco dal gusto rinascimentale è Claudio Monteverdi (1567-1643), che propone opere definite da espressioni alte e colte, varietà di musiche e intrecci inaspettati. Con il compositore cremonese le arie, che si fanno accattivanti esibizioni canore, rubano sempre più spazio al recitativo; con Monteverdi infatti l’aspetto letterario perde d’importanza, mentre diviene centrale l’elemento del canto.
In Francia, più o meno nello stesso periodo, è Jean Baptiste Lully(1632-1687)) a dominare la scena. Dopo un’infanzia difficile, Lully emerge dai problemi dovuti alla povertà e grazie al proprio talento e alla buona sorte, riesce a farsi apprezzare dal re in persona. È proprio Luigi XIV che lo vuole prima direttore dell’orchestra reale poi sovrintendente della musica di corte e infine direttore del primo teatro d’opera fondato a Parigi. Lully, consapevole del fatto che il pubblico francese non ama la lirica italiana poiché non riesce a comprenderne i dialoghi, si adopera per comporre opere basate su libretti francesi, dando così vita ad un nuovo genere: la “tragédie-lyrique”. Tali spettacoli presentano uno struttura a cinque atti preceduti da un prologo, inframmezzati da balletti e caratterizzati da canti più vicini alla prosa che al “bel canto” dell’opera italiana. Le rappresentazioni hanno come soggetti prediletti il mito o le gesta di personaggi storici del passato.
In generale possiamo dire che per la prima metà del Seicento è l’ “opera seria” a farla da padrone: gli argomenti sono storici o mitologici, le vicende sono ambientate in epoche indefinite e il vero protagonista dell’esibizione è il cantante. Succede spesso che gli artisti, durante l’esecuzione dello spettacolo, si cimentino nei propri “cavalli di battaglia”, proponendo al pubblico “spezzoni” di altre opere, estranee alla narrazione. Sono le “arie da baule”, così definite perché gli attori se le portavano dietro in ogni teatro, come una sorta di valigia, da cui di volta in volta estraevano occasioni per mandare in visibilio il pubblico. Tipiche di questo periodo sono anche le cosiddette “arie da sorbetto”: le arie sono esibizioni canore in cui il cantante dimostra le sue qualità tecniche, ma durante le quali sulla scena non accade nulla, succedeva dunque che i nobili, che avevano già udito numerose volte quei passi, ne approfittassero per farsi servire dai lacchè sontuose coppe di gelato.
A inizio Settecento, in Italia, incontriamo un altro grande nome che ha segnato la storia dell’opera lirica: Pietro Metastasio (1698-1782), nominato poeta di corte a Vienna e autore di più di centocinquanta libretti, da cui i compositori suoi contemporanei hanno redatto quasi settecento versioni operistiche.
A metà Settecento inizia a delinearsi il genere buffo, con vicende che si ispirano alla quotidianità, e melodie specifiche per i diversi personaggi, la trama è zeppa di equivoci da cui si delineano situazioni divertenti, quasi sempre a lieto fine. Farà in seguito parte di questo genere il “Barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini (1792-1868).
Non si può proseguire oltre senza chiamare in causa Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), ragazzo prodigio nato a Salisburgo, autore di opere immortali tra cui “Le Nozze di Figaro”, “Così fan tutte” e “Don Giovanni”. Mi preme ricordare che l’artista austriaco era così appassionato alla musicalità della lingua italiana da comporre alcune delle sue opere più celebri proprio nel nostro idioma. Sempre a lui si deve la stesura della coinvolgente fiaba musicale “Die Zauberflöte”, ossia “Il Flauto magico”.
Il melodramma raggiunge il massimo splendore nell’Ottocento, con autori come Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti e Giuseppe Verdi.
Così come si sono dette due parole su Mozart, credo sia doveroso ricordare qualche breve nozione su questi colossi della lirica mondiale.
Rossini (1792-1868), originario di Pesaro, caratterizza le sue opere con una frizzante vena comica, come si evince dal sovra-citato “Figaro qua, Figaro là”, da “Il Turco in Italia” o dalla fiaba “Cenerentola”.
Il catanese Bellini (1801-1835) si cimenta invece in opere tragiche, ed è con lui che trionfa quello che viene definito “il bel canto”; i suoi lavori più noti sono sicuramente “La Norma” e “La Sonnambula”.
Donizetti (1797-1848) è un instancabile musicista bergamasco, nonché – pare – un affascinante conquistatore. Tra i suoi capolavori:“Don Pasquale”, “L’elisir d’amore” e “La Fille du Régiment”.
Verdi (1813-1901) nato a Roncole di Busseto irrompe nella scena con un folle spirito rivoluzionario e patriottico, a lui si deve il celebre brindisi de “La Traviata”, e il meraviglioso coro “Va’ pensiero sull’ali dorate” de “Il Nabucco” o ancora i famosi spettacoli “Aida” e “Rigoletto”.
La Francia dell’Ottocento invece è positivamente segnata dal diffondersi della “Grand opéra”. Parigi si dimostra una capitale vivacissima sotto il profilo creativo e culturale, tant’è che molti artisti si stabiliscono lì a vivere.
Caratteristica prima della “Grand opéra” è l’essere grandiosa: tutto è spropositato e sfarzoso, lo spettacolo ha il preciso intento di suscitare stupore e meraviglia in chi guarda il palco. Le scenografie sono imponenti e complesse, le coreografie presentano scene di massa, a cui partecipano anche il coro e numerosi ballerini, l’orchestra stessa è costituita da numerosi musicisti, così che il suono risulti per il pubblico ancora più coinvolgente.
Il modello francese ottocentesco ha un impatto decisivo sulla produzione operistica successiva, detta di “transizione”. Nelle opere che vanno sotto tale definizione decadono le antiche convenzioni che confluiscono nella “Grande opera”, rivisitazione italiana della “Grand opéra” francese.
Musicisti di “transizione” sono Amilcare Ponchielli, Arrigo Boito e Alfredo Catalani, nonché il francese Georges Bizet (1838-1875), il quale con la sua “Carmen” apre nuove strade alla lirica europea del tempo.
In questa fase gli operisti italiani accantonano i soggetti storici e si dedicano alla creazione di drammaturgie di tipo realista o verista.
Nominando importanti autori ed elencando insostituibili opere, siamo arrivati agli inizi del Novecento. È Giacomo Puccini (1858-1924) a segnare questi anni, con le sue indimenticabili eroine tragiche, e con i suoi inestimabili componimenti, tra cui “Turandot”, “Tosca”, “Bohème” o ancora la delicata “Madama Butterfly” – che è anche la mia opera preferita – .
Cari lettori, eccoci dunque arrivati al termine di questo mio breve “excursus” sull’opera lirica, volutamente incentrato su alcuni autori ed epoche, prima di arrivare al nostro regale Teatro Regio.
Meritano ancora un cenno le zone dell’Est, dove prende forma uno stile musicale che racconta la storia del paese, traendo i suoi elementi dalla tradizione popolare, come danze e melodie. Tra i più noti compositori russi va almeno citato Rimskij-Korsakov (1844-1908), che, insieme a Glinka (1804-1857), fa parte del famoso Gruppo dei Cinque, grandi compositori classici i quali, a far data dal 1856, a San Pietroburgo danno vita a un filone musicale tipicamente russo.
Sarebbe però imperdonabile non riprendere almeno in chiusura Richard Wagner (1813-1883), il rivoluzionario artista tedesco originario di Lipsia, uno dei più importanti musicisti di ogni epoca. Il compositore introduce il “Wort-Ton-Drama”, (“Parola-Suono-Dramma”), un genere musicale in cui si fondono insieme tutte le forme d’arte, dalla pittura alla recitazione, dall’architettura alla musica al canto. Il suo amore per la mitologia germanica medievale è evidente nelle trame delle sue opere, dominate da personaggi come valchirie, principesse nordiche, filtri magici e valorosi guerrieri.
I tempi cambiano, i gusti si modificano e anche le forme di spettacolo devono adeguarsi all’incombere del tempo che fugge.
La storia dell’opera si affievolisce a partire dal XX secolo, quando la produzione di nuovi melodrammi si riduce sensibilmente.
Il pubblico è volubile e subito si appassiona ad altre forme di intrattenimento, quali la cinematografia, la radiofonia e, in tempi più recenti, la televisione, ma è anche vero che alcune cose non temono confronti, e ciò che si prova a teatro lo si sente solo lì.
I secoli si susseguono, la tecnologia avanza, dal bianco e nero si arriva agli schermi al plasma, eppure il teatro e l’opera non smettono di incantare.
Alessia Cagnotto

Dal “tropo” si sviluppa il dramma liturgico, che può svolgersi in una piccola parte della chiesa o investirla totalmente, avvalendosi in questa circostanza di allestimenti scenici ben determinati e con precisi valori simbolici. Nel dramma liturgico troviamo per la prima volta l’idea della scena “simultanea”, caratteristica prima dei “misteri”. Si tratta di particolari sacre rappresentazioni allestite fuori dalle mura delle chiese e prive di connessioni con il cerimoniale liturgico ma dirette da chierici o preti, la rappresentazione era solitamente accompagnata da didascalie in latino, vero e proprio elemento che fa da “trait d’union” con il recinto sacrale. Uno dei “misteri” più tipici e apprezzati è lo “Jeu d’Adam” – spettacolo composto da un autore normanno, e particolarmente diffuso nel XII – secolo in cui per la prima volta vengono allestiti dei “luoghi deputati”, atti a rappresentare la globalità dell’Universo, costituito da Terra, Paradiso e Inferno.

Quello che non è riuscito ad ottenere il fascismo, ossia un teatro di massa, riesce a raggiungerlo il teatro di varietà che, con le scene pompose, le musiche irruenti, le ballerine ammiccanti e le irriverenti battute dei comici, ottiene la partecipazione del grande pubblico. Caratteristica del varietà è la sua nota estemporanea, il copione si adatta all’attualità e agli avvenimenti politici, rendendo impossibile un controllo censorio sull’agire degli attori; non solo, il varietà comporta il trionfo dell’uso del dialetto, come ben esemplificano le farse di De Filippo.
Torino malinconica, Torino miscela di barocco e liberty, Torino che hai permesso che superassero l’altitudine della tua Mole, Torino che ti abbigli con l’eleganza del centro, ti ingioielli con la supponenza della Crocetta, Torino che porti memoria del tuo cuore proletario, pompato dagli stantuffi dell’industria FIAT, Torino che mentre ti lasci attraversare, mi fai respirare la sempiterna spocchia giovanile dei Murazzi. Nella piccola metropoli, risulta difficile non camminare con occhi attenti tra i palazzi, i quali, nei propri dettagli, nascondono sempre peculiari meraviglie, stucchi decorati, apotropaici guardiani di soglia, piercing inaspettati o grandiosi murales, che rendono memorabili anche gli angoli più anonimi.
iamo intorno agli anni Cinquanta del Settecento quando iniziano i lavori; l’architetto, che si era già precedentemente occupato dell’edificio dedicato all’Opera, dirige così il cantiere del palazzo, che questa volta è eretto in muratura. Alfieri, zio di Vittorio e allievo prediletto di Juvarra, fa realizzare ottantaquattro logge e tre ranghi di panche in platea, lumi a candela e stucchi lameggiati in oro; la decorazione del soffitto è affidata a Gaetano Perego e Mattia Franceschini, del sipario invece si occupa Bernardino Galliari.
Facendo un sostanziale balzo in avanti, arriviamo agli anni Settanta del Novecento, quando il capoluogo piemontese affida definitivamente la struttura al Teatro Stabile di Torino, che ne diviene una delle sue sedi permanenti. Dal 1961 infatti, lo storico teatro ospita i maggiori spettacoli realizzati dall’ente pubblico.
La storia di Erminio è tutta torinese. Egli nasce nella nostra città il 27 maggio 1902, in una piccola soffitta di via Botero, ed è ultimogenito di una famiglia umile ma numerosa. Frequenta poi la scuola Petacchioni, la stessa che aveva ispirato la stesura del celebre romanzo “Cuore”, scritto dal ligure De Amicis e pubblicato nel 1886.
Il comico decide di espandere ancora le sue attività e si occupa, sempre nel dopoguerra, della rivista “Votate per Venere”, che riscuote grande successo anche a Parigi.
Le caratteristiche dello stabile, come la straordinaria capienza, che arriva a poter ospitare fino a 2500 persone, la struttura elegante, le decorazioni regali che raggiungono il massimo della preziosità nella volta dipinta da Sebastiano Galeotti, richiamano l’attenzione di molti autori italiani e stranieri, di numerose prime donne e cantanti di grido, che proprio lì vogliono esibirsi.
Esso si affaccia sulla ottocentesca Piazza Solferino ed è una delle realtà maggiormente attive e conosciute, insieme ai teatri Regio e Carignano.
Nel 1949 ulteriori restauri comportano l’ampliamento della platea e l’annessione delle due attuali gallerie.
Il Colosseo è infatti uno dei teatri più recenti del capoluogo piemontese; esso sorge nel rumoroso quartiere di San Salvario, vicino al rigoglioso Parco del Valentino. La struttura, risalente alla fine degli anni Sessanta, è compresa in un signorile palazzo decorato di via Madama Cristina 71, mentre l’accesso tondeggiante fa angolo con via Bidone.
Per quel che riguarda la recitazione, il 2013 è un anno particolarmente fortunato, poiché due figure emblematiche della scena italiana riempiono con i loro monologhi la sala del teatro e il cuore degli spettatori. Nell’aprile di quell’anno Gigi Proietti propone “C’è gente stasera?”, titolazione che prende ironicamente spunto dalla più tipica e temuta domanda di ogni teatrante; nel dicembre sempre 2013 il premio Nobel Dario Fo debutta con “In fuga dal Senato”, spettacolo attraverso cui porta avanti le battaglie sociali della moglie Franca Rame.
A dirigere i lavori subentra il ticinese Giuseppe Leoni, anche lui abile architetto e membro stesso dell’Accademia. Ci vogliono due anni per ultimare il progetto; nel 1842 il teatro inaugura l’apertura ufficiale, all’evento partecipa anche il principe Vittorio Emanuele II e per l’occasione si eseguono “La Pia dei Tolomei”, tragedia di Carlo Marenco -anche lui membro dell’associazione Filodrammatica- e la commedia di Eugène Scribe, titolata “Una visita a Bedlam”. Il palazzo progettato da Leoni è di stile neoclassico; l’edificio presenta delle proporzioni peculiari, dovute alla specifica conformazione del terreno su cui sorge, originariamente destinato ad accogliere un campo da gioco per la pallacorda.
Il testo di quello che diventerà “il nostro inno” viene scritto da un giovane Goffredo, sul finire degli anni Quaranta dell’Ottoscento; egli è all’epoca uno studente appassionato ma sopratuttutto un fervente patriota. Le strofe del canto infatti sono pregne non solo dei suoi ideali, ma anche del generale patriottismo diffuso che preannuncia i moti del 1848 e lo scoppio della Prima Guerra di Indipendenza (1848-1849). Il giovine Mameli vuole inizialmente adattare il suo testo a qualche musica già esistente, tuttavia non trova soddisfazione in questi suoi tentativi, così prova a inviare il lavoro a Michele Novaro, il quale ne è subito conquistato e –come alcuni raccontano – si mette a musicarlo la sera stessa in cui gli è arrivato il celebre testo.
Tuttavia prima di addentrarmi nel vivo dell’argomento, vorrei proporvi una più che breve storia del teatro e dello spettacolo, a partire dalle origini fino alla contemporaneità. Va da sé che la materia è assai vasta, complessa e articolata, tenterò dunque di svolgere l’esposizione nel modo più esaustivo possibile, cercando di non tediarvi con eccessivi cavilli.
Con il tempo anche la funzione del coro cambia, perdendo sempre di più il ruolo centrale che aveva in Eschilo; anche l’aspetto stesso degli attori muta, come si può notare se si pensa ai costumi imponenti utilizzati per impersonare i personaggi di Eschilo e li si confronta con gli abiti degli attori sofoclei, vestiti, pare, solamente di stracci (“rakia”).