STORIA- Pagina 7

Torino tra architettura e pittura. Felice Casorati

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7  I Sei di Torino
8  Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

 

6) Felice Casorati (1883-1963)

Lungi da me sostenere che esistono periodi artistici di facile e immediata comprensione, ogni filone, ogni movimento e ogni tipologia d’arte necessita di un’analisi approfondita per penetrarne il senso, tuttavia mi sento di affermare che da una certa fase storica in poi le cose sembrano complicarsi.

Mi spiego meglio: siamo abituati a considerare “belle opere” le architetture classiche, così come le imponenti cattedrali gotiche o ancora i capolavori rinascimentali e gli spettacolari chiaroscuri barocchi; il comune approccio alla materia rimane positivo ancora per tutto il Settecento, ma poi, piano piano, con l’Ottocento le questioni si fanno difficili e lo studio della storia dell’arte inizia a divenire ostico. I messaggi di cui gli artisti sono portavoce diventano maggiormente complessi, entrano in gioco le rappresentazioni degli stati d’animo dell’uomo, del suo inconscio, si parla del rapporto con la natura e d’improvviso l’arte non è più quel “locus amoenus” rassicurante a cui ci eravamo abituati. La sensazione di spiazzante spaesamento raggiunge il suo apice con le opere novecentesche, le due guerre dilaniano l’animo degli individui e la violenza del secolo breve si concretizza in dipinti paurosi che di “bello” non hanno granché. I miei studenti, giunti a questo punto del programma, sono soliti lamentarsi e addirittura dichiarano che “potevano farli anche loro quei quadri” o che “sono lavori veramente brutti” e ci vuole sempre un lungo preambolo esplicativo prima di convincerli a seguire la lezione senza eccessivo scetticismo.
Nel presente articolo vorrei soffermarmi su di un autore che si inserisce nel difficile contesto del Novecento, un autore le cui opere sono cariche di inquietudine e rappresentano per lo più immote figure silenziose, come imprigionate in atemporali visioni oniriche.  Sto parlando di Felice Casorati, uno dei protagonisti indiscussi della scena novecentesca italiana, attivo a Torino, dove si circonda di ferventi artisti volenterosi di proseguire i suoi insegnamenti.


Ma andiamo per ordine e, come mi piace sempre ribadire in classe, “contestualizziamo” l’artista, ossia inseriamo l’artista in un “contesto” storico-culturale ben determinato per meglio definire il senso e il portato dell’opera.
Nei primi anni Venti del Novecento, grazie all’iniziativa della critica d’arte Margherita Sarfatti, si costituisce il cosiddetto gruppo del “Novecento”, di cui fanno parte sette artisti in realtà molto differenti tra loro: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Le differenze stilistiche sono più che evidenti poiché alcuni sono esponenti vicini al Futurismo, altri invece si dimostrano orientati verso un ritorno all’ordine, altri ancora hanno contatti con la cultura mitteleuropea. La definizione di “Novecento”, con cui tali pittori sono soliti presentarsi, allude all’ambizione di farsi protagonisti di un’epoca, di esserne l’espressione significativa. Il gruppo si presenta alla Biennale di Venezia del 1924 come “Sei pittori del Novecento”(Oppi presenzia all’avvenimento con una personale). L’esposizione viene felicemente acclamata dalla critica, tanto che, sulla scia del successo ottenuto a Venezia, la Sarfatti si impegna ad organizzare in maniera più incisiva il movimento, quasi con l’intento di trasformarlo in una “scuola”. I risultati si manifestano chiaramente: nel 1926 al Palazzo della Permanente di Milano viene organizzata un’esposizione con ben centodieci partecipanti. Il movimento “Novecento” si è ormai allargato tanto da comprendere gran parte della pittura italiana: fanno parte della cerchia quasi tutti gli artisti del momento, da Carrà a De Chirico, da Morandi a Depero, da Russolo allo stesso Casorati.  Tra i soggetti prediletti rientrano la figura umana, la natura morta e il paesaggio. Presupposti comuni sono il totale rifiuto del modernismo e un continuo riferimento alla tradizione nazionale, soprattutto a modelli trecenteschi e rinascimentali.

Con il passare degli anni il gruppo si fa sempre più numeroso e l’organizzazione del movimento si trasforma, la direzione delle iniziative artistiche ricade anche nelle mani di artisti di prima formazione quali Funi, Marussing e Sironi, insieme a personalità conosciute come lo scultore Arnolfo Wildt e i pittori Arturo Tosi e Alberto Salietti. Diventano via via numerosi i contatti con centri espositivi internazionali; alcuni artisti italiani trasferitisi all’estero si fanno appassionati organizzatori di “mostre novecentesche”, come dimostra ad esempio l’iniziativa di Alberto Sartoris, architetto torinese residente in Svizzera, il quale si occupa di organizzare nel paese di residenza un’ampia esposizione artistica del gruppo. Nel 1930, addirittura, il “Novecento” espone a Buenos Aires, avvenimento doppiamente importante, poiché grazie a tale iniziativa la critica Sarfatti riesce a ricapitolare nel catalogo della mostra le molteplici tappe del movimento. Espongono in Argentina ben quarantasei artisti, tra cui Casorati, De Chirico e Morandi.

 


Come è evidente, l’eterogeneità del gruppo manca di direttive e connotati chiari e univoci. Il tedesco Franz Roth conia appositamente per gli artisti di “Novecento” l’espressione “realismo magico”, che indica una rappresentazione realistica –domestica, familiare- ma al tempo stesso sospesa, estatica, come allucinata. Esemplificativo per esplicitare tale concetto è il dipinto di Antonio Donghi, “Figura di donna”, opera in cui domina una straniante immobilità incantata, la scena è immobile e l’osservatore percepisce che nulla sta per accadere e nulla è accaduto precedentemente.
Ed ecco che di “realismo magico” si può parlare anche per Felice Casorati (1883-1963), artista attivo nella prima metà del Novecento e docente di Pittura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
Egli nasce a Novara, il 4 dicembre del 1883; il lavoro del padre, che è un militare, comporta che la famiglia si sposti spesso. Felice trascorre l’infanzia e l’adolescenza tra Milano, Reggio Emilia e Sassari, infine la famiglia si stabilisce a Padova, dove il ragazzo porta avanti la sua formazione liceale. A diciotto anni inizia a soffrire di nevrosi, ed è costretto a ritirarsi per un po’ sui Colli Euganei; proprio in questo periodo, Felice inizia a dedicarsi alla pittura. A ventiquattro anni -siamo nel 1907- si laurea in Giurisprudenza, ma decide di non proseguire su quel percorso, per dedicarsi all’arte, nello stesso anno parte per Napoli per studiare le opere di Pieter Brueghel il Vecchio, esposte presso il Museo Nazionale di Capodimonte.


Nel 1915, si arruola volontario nella Prima Guerra Mondiale, lo stesso fanno molti suoi contemporanei come Mario Sironi, Achille Funi Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Carrà, Gino Severini, Luigi Russolo e Umberto Boccioni.
Nel 1917, dopo la morte del padre, Felice si trasferisce a Torino, dove attorno a lui si riuniscono artisti e intellettuali della città. Tra questi vi è Daphne Maugham, che diventerà sua moglie nel 1930 e dalla quale avrà il figlio Francesco, anche lui futuro pittore.
Casorati a Torino ha molti allievi nella sua scuola e presso il corso di Pittura dell’Accademia Albertina. Gli artisti più noti legati al suo insegnamento sono riuniti nel gruppo “I sei di Torino”, tra questi Francesco Menzio, Carlo Levi, Gigi Chessa e Jessie Boswell.
La sua ascesa artistica è sostenuta da diverse amicizie, tra cui il critico d’arte Lionello Venturi, la critica milanese Margherita Sarfatti, gli artisti di Ca’ Pesaro, il mecenate Riccardo Gualino e l’artista di Torinese Gigi Chessa insieme al quale partecipa al recupero del Teatro di Torino.
L’artista non lascerà più il capoluogo piemontese, e qui morirà il 1 marzo del 1963 in seguito ad un’embolia.
L’autore è da considerarsi “isolato”, con un proprio personalissimo percorso, pur tuttavia incrociando talvolta le proprie idee con altre ricerche artistiche di gruppi o movimenti a lui contemporanei.
Secondo alcuni critici, le opere di Casorati sono intrise di intimità religiosa. Lo stile pittorico dell’autore si modifica nel tempo, i primi lavori sono infatti decisamente realistici e visibilmente ispirati alle opere della Secessione Viennese; negli stessi anni si può notare l’influenza di Gustav Klimt, che porta Felice ad abbracciare per un breve periodo l’estetica simbolista. L’influsso klimtiano è particolarmente evidente in un’opera del 1912, “Il sogno del melograno”, in cui una donna giace dormiente su un prato fiorito. Il prato intorno alla fanciulla è cosparso di una moltitudine di fiori di specie differenti, mentre dall’alto pendono dei grossi grappoli di uva nera. I riferimenti all’artista viennese sono concentrati nella figura della ragazza, con chiari rimandi ai decorativismi delle “donne-gioiello” protagoniste di raffigurazioni quali “Giuditta” (1901), “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”(1907) o il celeberrimo “ll bacio” (1907-08).
La figura del soggetto ricorda inoltre le opere preraffaellite, nello specifico l’ “Ofelia” di Sir John Everett Millais.


Negli elaborati degli inizi del Novecento, invece, sono evidenti i riferimenti a capolavori italiani del Trecento e del Quattrocento; nello stesso periodo l’autore si concentra su una generale semplificazione del linguaggio e sullo studio di figure sintetiche. Intorno agli anni Venti del secolo scorso impronta il suo stile a una grande concisione lineare, anche se è nel primo dopo-guerra che egli definisce il suo stile peculiare, caratterizzato da figure immobili, assorte, rigorosamente geometriche, quasi sempre illuminate da una luce fredda e intensa. Appartengono a questi anni alcuni dei suoi capolavori, come “Conversazione platonica” o “Ritratto di Silvana Cenni”. Per quest’ultima opera Casorati si rifà al celebre capolavoro rinascimentale “Sacra Conversazione” di Piero della Francesca, di cui riprende l’atmosfera sospesa, quasi metafisica, ottenuta grazie alla rigidità con cui Felice ritrae la donna  –seduta, assorta e immobile-  alla resa scenografica del paesaggio e alla fittizia disposizione degli oggetti all’interno della stanza. Le figure di Casorati sono volumetriche, solide e immote, come pietrificate, l’artista ne esalta i valori plastici grazie al sapiente uso del colore tonale. Nelle ultime tele, le fanciulle ritratte risulteranno quasi geometrizzate, esito di una notevole sintesi formale.
L’illuminazione risulta artificiale e per nulla realistica, effetto sottolineato dal fatto che Casorati non mostra quasi mai il punto di provenienza della luce; il risultato finale è quello di un mondo sospeso, raggelato e senza tempo.
Negli anni Trenta Casorati si dedica a dipingere nature morte con scodelle o uova, soggetti che ben si prestano ad interpretare il suo linguaggio plastico semplificato; egli esegue inoltri diversi nudi femminili in ambienti spogli e alcune tele che presentano disturbanti maschere, tema a lui già caro, come testimonia l’opera “Maschere” del 1921.
Davanti ai lavori di Felice Casorati non possiamo che rimanere attoniti e pensosi, intrappolati nel suo mondo metafisico.
L’arte è così, lo vedo con i miei studenti, non finisce mai di metterci alla prova, continua a incentivare pensieri e confronti e per quanto possa essere “lontano da noi” essa è capace di stimolare discussioni su tematiche sempre inesorabilmente e meravigliosamente attuali.

Alessia Cagnotto 

Lerici, il Castello dei poeti

Girandosi indietro più volte lungo il sentiero che da Lerici porta a San Terenzo non seppe resistere alla tentazione. Preso dall’entusiasmo si fermò, tirò fuori la sua tavolozza e dipinse una veduta del castello San Giorgio di Lerici che gli apparve in tutta la sua maestosità e bellezza.
Fu scambiato per una spia del re di Sardegna, arrestato e rinchiuso nel maniero che due secoli prima imprigionò Francesco I, Re di Francia, sconfitto nella battaglia di Pavia (1525) dagli spagnoli di Carlo V. È quanto accadde a metà Settecento al pittore piemontese Francesco Belgini e al suo amico Giovanni Robert di Bordeaux. Erano due artisti, tutt’altro che spie, che rimasero semplicemente affascinati dallo splendore del castello che oggi attrae folle di visitatori e turisti provenienti da ogni parte del mondo che, per arrivare alla fortezza, percorrono una delle passeggiate più belle d’Italia che tocca alcuni luoghi straordinari come Portovenere, La Spezia, e appunto, San Terenzo, Lerici, Tellaro e il Golfo dei Poeti. Mille anni fa, dove oggi il castello domina il borgo, c’era solo una torre accanto alla quale fu poi eretto il maniero vero e proprio.
I Pisani sconfissero i Genovesi nella battaglia del Giglio (1241) e costruirono il primo nucleo della fortificazione che in seguito subì numerosi interventi di restauro. La battaglia della Meloria (1284), al largo di Livorno, sancì la supremazia di Genova sul Mediterraneo occidentale mentre Pisa perse la sua forza navale e commerciale. Il castello fu per secoli una prigione genovese e le celle hanno rinchiuso importanti prigionieri tra i quali Francesco I. Andrea Doria invece si trincerò al suo interno per difendersi dagli assalti della flotta francese che tentò di catturarlo quando il grande ammiraglio passò al servizio di Carlo V. Molti ribelli corsi furono imprigionati e condannati a morte. Il castello di Lerici è stato più volte elevato e fortificato per resistere agli attacchi con le armi da fuoco con una “scarpa” inclinata che in alcune parti supera lo spessore di sei metri. All’interno spicca la cappella di Santa Anastasia, costruita in forme gotiche. È un gioiello medievale, intatta dal 1200. La muratura di pietra è tipicamente medioevale con un’alternanza di fasce bianche e nere riproposte anche sul soffitto.
Nella chiave di volta compare San Giorgio con il drago mentre una croce templare domina il portale di ingresso. Il castello ospita mostre d’arte e ricorda che per secoli poeti, artisti e scrittori come l’inglese Mary Shelley, Lord Byron e tanti altri fino a Mario Soldati, hanno soggiornato varie volte nella baia di Lerici trovando nel fascino del castello e nello splendido tratto di costa sul golfo di La Spezia o golfo dei Poeti l’ispirazione per i loro romanzi. Il castello di Lerici è aperto dal martedì al venerdì dalle 10 alle 12,30 e dalle 15,00 alle 17,30, sabato e domenica con orario 10-12,30 e 15-18.
Filippo Re

La Crimea di Cavour e la nascita della Romania. Dai principi Drãculesti ai regnanti dei Balcani

Lo sciame sismico originato dall’emigrazione dei Gozzano di Luzzogno a Cereseto, Casale Monferrato e Agliè riaffiora nella regione balcanica durante il periodo della guerra di Crimea appoggiata da Cavour. La genealogia dei Gozani in Ungheria è rappresentata sul dipinto conservato nella casa del marchese di San Giorgio Monferrato Titus von Gozani e della moglie Eva Maria Friese, abitanti a Dusseldorf senza eredi maschi, fonte di inesauribili informazioni storiche sulla loro antica casata. Il diploma di nobiltà fu concesso ad ambo i sessi di questa famiglia dall’imperatore Franz I° nel 1817 a Vienna, da poco ritrovato con relativi sigilli nell’archivio provinciale di Marburg.

Singolare la vicenda di Odo von Gozani figlio di Ludvik nobile dell’impero austriaco, marchese di San Giorgio Monferrato e fratello di Sidonia, di Ferdinando II° nonno di Titus e marito della baronessa Sophie Josephine Helene von Neustaedter di Zagabria. Odo, politico e capo ideologico nato nel 1885 a Lubiana, avvocato al servizio d’Austria come amministratore civile nella prima guerra mondiale, segretario di stato e inviato a Budapest come ministro degli interni, fu dimesso a causa delle sue idee nazionalistiche per aver esercitato una forte influenza sul movimento del fronte patriottico nel fallito colpo di stato austro-nazista. La paura di un atto di vendetta per falsa testimonianza davanti al tribunale militare di Vienna lo portò al suicidio.

Sidonia von Gozani, zia di Odo, sposò a Lubiana nel 1863 Joseph Maria Coleman Gerliczy, membro di una nobile casata d’Ungheria risalente al 1200 appartenente al patriziato onorario di Fiume nel 1600. Il diploma di nobiltà fu conferito loro nel 1626 dall’imperatore e re Ferdinando II° del litorale ungarico, confermato nel 1838 per tutti i discendenti di ambo i sessi. Le tre corone d’oro sugli elmi dello stemma del 1557, ufficializzato nel 1774, rappresentano la vicinanza all’autorità imperiale. Personaggio di spicco fu il cavaliere Giovanni Felice Gerliczy, bisnonno di Joseph, capitano e assessore al commercio, cancelliere della sanità e proprietario del palazzo barocco di Fiume nel 1750 ereditato dal fratello Giuseppe. Un disegno originale del palazzo, ex sede del teatro, si trova nell’archivio di stato austriaco.

Ferenc Gerliczy von Arany, pronipote di Giovanni Felice sposato con Gilda Fejèrvàry di Vienna, edificò la chiesa di Nostra Signora d’Ungheria accanto al loro castello di Desk. Il figlio Felix Vince Ferenc Gerliczy-Burian, nato a Oradea e morto a Nizza detto il conte Liechtenstein, acquisì notevole prestigio sposando la principessa Elsa Stirbey Bibescu di Cãmpina. A Oradea il cugino Szatarill Gerliczy, allievo del famoso pittore simbolista Gustav Klimt, edificò l’attuale Gerliczy Palace. Nel 1928 il castello di Desk fu venduto e trasformato in sanatorio infantile, oggi sede della clinica medica dell’università di Szedeg.
Barbu Stirbey, presidente del consiglio dei ministri e cugino della principessa Elsa figlia del principe Dimitrie Stirbey, possedeva uno dei patrimoni più grandi della Romania. Barbu era intimo confidente e amante della regina Maria Vittoria che lo soprannominò il principe bianco. Di bell’aspetto, elegante e raffinato nel comportamento era sposato  con la cugina principessa Nadeja Bibescu, pronipote di Napoleone Bonaparte. Elsa discendeva dal nonno Barbu Dimitrie Stirbey detto il dominatore, sovrano dal 1848 al 1853 in regime di statuto organico nel primo regno di Muntenia con capitale Bucarest e di Oltenia con capitale Craiova. Famoso il ritratto di Martha Lahovari Bibescu, nipote di Barbu e George Bibescu che abdicò nel 1848, eseguito da Giovanni Boldini nel 1911 che, come osserva la nostra critica d’arte Giuliana Romano Bussola, esercita le sue famose pennellate a sciabola per dare movimento e leggerezza. Martha, scrittrice e poetessa nata a Bucarest nel 1886 e morta a Parigi nel 1973, fu vestita per decenni dallo stilista parigino Christian Dior.

Barbu dovette fuggire a Vienna durante l’invasione russa in Crimea, rientrando dopo l’intervento del regno di Sardegna deciso da Camillo Cavour a fianco di Napoleone III° e della Gran Bretagna in difesa della Turchia. Dopo il trattato di Parigi, a seguito della disfatta dell’impero russo, Barbu sostenne nel 1856 la riunione dei principati di Moldavia e Valacchia sperando di diventarne principe, generando nel 1859 la nascita della futura Romania. Ma il suo mandato era scaduto, abdicò ritirandosi a Parigi e alla morte fu sepolto nella cappella Bibescu a Pére-Lachaise, il monumentale cimitero parigino dove riposano Balzac, Chopin, Callas, Edith Piaf, Jim Morrison e la nipote Martha Bibescu. Bellissimi i palazzi Stirbey Bibescu di Buftea, Brasov e Bucarest, quest’ultimo venduto dai discendenti per undici milioni di euro nel 2005. Quattro secoli prima, questi regnanti furono preceduti da Vlad II° Dracul detto il drago e dal figlio Vlad III° Tepes l’impalatore, famosi principi Drãculesti.
Armano Luigi Gozzano

La Fontana Luminosa di Italia ’61

Oltre Torino. Storie, miti, leggende del torinese dimenticato.

Torino e lacqua

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce.

Il fil rouge di questa serie di articoli su Torino vuole essere lacqua. Lacqua in tutte le sue accezioni e con i suoi significati altri, lacqua come elemento essenziale per la sopravvivenza del pianeta e di tutto lecosistema ma anche come simbolo di purificazione e come immagine magico-esoterica.

1. Torino e i suoi fiumi

2. La Fontana dei Dodici Mesi tra mito e storia

3. La Fontana Angelica tra bellezza e magia

4. La Fontana dellAiuola Balbo e il Risorgimento

5. La Fontana Nereide e lantichità ritrovata

6. La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?

7. La Fontana Luminosa di Italia 61 in ricordo dellUnità dItalia

8. La Fontana del Parco della Tesoriera e il suo fantasma

9. La Fontana Igloo: Mario Merz interpreta lacqua

10. Il Toret  piccolo, verde simbolo di Torino

7. La Fontana Luminosa di Italia 61 in ricordo dellUnità dItalia

Basta poco per far sì che la gente si ritrovi a chiacchierare, che i ragazzi riscoprano il piacere di uscire e stare insieme, basta veramente un nonnulla per trasformare un anonimo luogo ombroso in una zona di piacevole ristoro. É sufficiente, ad esempio, un po dacqua zampillante e po di luce al neon, ed ecco realizzata la magia: il degrado pian piano si dissolve e tornano le risate e le chiacchiere del fresco della sera. La fontana conosciuta come la Fontana di Italia 61 era proprio questo: una bella scusa per disincentivare il decadimento di una zona cittadina e lavorare per ricostruire un bellambiente sia a livello urbano che per le condizioni di vita dei cittadini di quel luogo specifico. Si può dire che la Fontana abbia ben svolto il suo ruolo, anche se a singhiozzi: essa infatti per un po di tempo è riuscita ad allontanare spacciatori e tossicodipendenti e a richiamare a ségiovani e anziani che non volevano starsene a casa da soli, nonostante il freddo pungente dellaria di Torino nei tristi mesi invernali. Per assurdo, anche ora che è di nuovo sprofondata nella dimenticanza, essa svolge il suo antico ruolo: è un memento a quello che accade quando la città non esercita il suo compito di accoglienza e protezione nei confronti dei cittadini, e cioètestimonia il decadimento e il buio della notte che sovrastano le risate dei passanti, che hanno addirittura timore di passare di lì. Tracciamo allora un po di storia di questa particolare Fontana di Italia 61 e del suo contesto.

Italia 61 è il quartiere situato nella circoscrizione 8 che ospitòExpo 1961 (Esposizione Internazionale del Lavoro-Torino 1961) anche conosciuta appunto come Italia 61, svoltasi a Torino per celebrare il primo centenario dellUnità dItalia.

Il grande evento diviene occasione per mettere in luce il progresso raggiunto dalla città industriale subalpina, con la realizzazione di edifici di straordinaria qualità architettonica.

Il luogo prescelto dal comune per lallestimento degli eventi èlarea compresa tra il Po e Via Ventimiglia,  lungo Corso UnitàdItalia. Le architetture espositive realizzate per levento e lorganizzazione stessa delle celebrazioni, puntano a diffondere unimmagine patinata del progresso  tecnico raggiunto  dalla grande città industriale: cantieri conclusi in tempi rapidissimi, impiego di tecnologie avanzate, organizzazione scientifica del lavoro. In edifici appositamente costruiti, durante il mandato dellallora sindaco di Torino Amedeo Peyron, si svolgono i tre eventi principali curati dal comitato nazionale Italia 61presieduto dal politico, economista, accademico Giuseppe Pella: la Mostra Storica, a cura di Augusto Cavallari Murat, la Mostra delle Regioni, curata da Mario Soldati, e lEsposizione  Internazionale del Lavoro, patrocinata dal parigino Bureau International  des Expositions. Gli eventi collaterali sono a cura del comitato Torino 61 che, tramite lomonima Società per Azioni, finanzia le manifestazioni. Il piano urbanistico  del comprensorio è affidato allarchitetto Nello Renacco, che articola intorno alla radiale per Moncalieri  due palazzi per esposizioni: il Palazzo del Lavoro, degli ingegneri  Pier Luigi Nervi, Antonio Nervi, Mario Nervi con Gino Covre;  il Palazzo a Vela, dellarchitetto Annibale Rigotti e degli ingegneri Giorgio Rigotti, Franco Levi e Silvio Bizzarri, una Fontana Luminosa, la Monorotaia, lOvovia verso Cavoretto e la Circarama Disney, (non più esistenti), oltre a un complesso  di padiglioni lungo il Po.

Dopo il grande evento, tuttavia, piano piano, alcuni edifici per mancanza di fondi vennero abbandonati a sé stessi, alcuni sono stati dimenticati, come la Fontana Luminosa, che è rimasta spenta per moltissimo tempo.

Finalmente le Olimpiadi Invernali di Torino del 2006 la riaccendono e, dopo decenni di abbandono e di degrado, essa  ritorna alloriginale splendore grazie ai lavori di ristrutturazione della città in vista del grande evento sportivo. In questi anni la Fontana ritrova il suo massimo fulgore specie la sera e nelle ore notturne, quando mille giochi di luci colorate la rendono splendida e spettacolare. Ma anche questa volta il brusio dei festeggiamenti dura meno di quanto sperato e tutto di nuovo si spegne e amaramente tace.

Alessia Cagnotto 

 

“I grandi industriali del Piemonte. I pionieri”

Al “Circolo dei Lettori” di Torino, la presentazione del nuovo libro di Gianni Oliva, edito da “Capricorno

Giovedì 31 ottobre, ore 18

Dal mondo dei motori e delle auto a quello del caffè, dalle lampadine alle macchine da scrivere, dal settore tessile al cinema per arrivare fino all’aeronautica: il libro (160 pagine, 14 Euro) edito da “Capricorno”, ripercorre le storie di coloro che, proprio a Torino e in Piemonte, hanno rivoluzionato questi settori e l’industria italiana tutta. Storie torinesi e piemontesi. Analizzate, attentamente indagate e raccontate da Gianni Oliva, giornalista, docente (insegnante e Preside per anni in vari Licei subalpini, attualmente è docente di “Storia delle istituzioni militari” alla “Scuola di Applicazione d’Arma” di Torino e dal 2022 “Presidente” del “Conservatorio Giuseppe Verdi” di Torino), nonché storico torinese fra i più stimati e prestigiosi del Novecento italiano.

 “I grandi industriali del Piemonte” è il titolo del suo ultimo libro. Sottotitolo “I pionieri”, primo volume. E la presentazione si terrà giovedì 31 ottobrealle 18, presso il “Circolo dei Lettori”, in via Bogino 9, a Torino.

Il periodo su si concentra il lavoro di Oliva è quello compreso tra fine Ottocento e inizi Novecento, con l’obiettivo tutto puntato su una Città e una Regione (le sue) in quegli anni in piena evoluzione.

Dopo la perdita del ruolo di capitale politica, Torino getta, infatti, in quel preciso periodo storico, le basi per un decollo industriale tumultuoso. E la regione non è da meno. “Grazie alla lungimiranza – si sottolinea – di alcuni amministratori pubblici, in particolare dei sindaci torinesi Secondo Frola e Teofilo Rossi, che pongono le basi infrastrutturali per lo sviluppo, e soprattutto al coraggio e alle risorse messe in campo dall’imprenditoria privata, Torino ed il Piemonte mutano pelle, ponendosi all’avanguardia dell’industrializzazione nazionale ed ergendosi al livello delle più avanzate realtà europee e mondiali”.

Qui si affermano alcune delle più importanti figure di industriali di importanza nazionale, come Pietro Sella (padre a Valle Mosso del “primo lanificio italiano” a lavorazione meccanica), Giovanni Agnelli (Senatore del Regno e fra i fondatori della FIAT nel 1899) e Vincenzo Lancia, detto “Censin” (pilota automobilistico e anche lui fondatore nel 1906 dell’omonima “Casa Automobilistica”); pionieri che hanno scoperto settori nuovi come Arturo Ambrosio con il Cinema o Giuseppe Lavazza con la produzione del caffè; uomini geniali e anticipatori come Alessandro Cruto, detto “Tasso”, di Piossasco (inventore nel 1880 della “lampada ad incandescenza” cinque mesi dopo Thomas Edison, cui però occorsero altri otto anni per ottenere un prodotto commercialmente valido) o i fratelli Ceirano (fondatori nel 1898 dell’accomandita “Ceirano GB & C”, storica “azienda automobilistica” il cui marchio verrà ceduto nel 1923 alla “SCAT”, altra società di Giovanni Ceirano); imprenditori attenti al benessere dei lavoratori come lo svizzero, naturalizzato italiano Napoleone Leumann (attivo nel settore tessile, fondatore dell’omonimo cotonificio e dell’attiguo villaggio per i suoi operai) o che hanno saputo coniugare la produzione, la modernità tecnologica e la politica come Camillo e Adriano Olivetti, padre e figlio, imprenditori illuminati e fondatori, della prima azienda del mondo (fra il 1896 e i primi del ‘900) nel settore dei prodotti d’ufficio, di cui Adriano diventò presidente nel 1938.

Nel suo libro Gianni Oliva traccia l’affascinante e articolato profilo di queste e altre emblematiche figure imprenditoriali piemontesi protagoniste di quegli anni eroici: le origini familiari, il retroterra tecnico e culturale, la capacità di vedere lontano, di rischiare in proprio e talvolta anche di cambiare settore d’intervento, la creatività e la visione di lungo periodo.

Il testo è corredato da un prezioso apparato iconografico.

Al volume sui “pionieri”, Oliva e “Capricorno Edizioni” faranno seguire, nel 2025, un secondo volume dedicato all’“età dell’oro” dell’industria piemontese e ai suoi protagonisti, che tratterà del periodo che dagli anni Venti-Trenta arriva al “boom economico” del secondo dopoguerra.

Per info: “Capricorno Edizioni”, corso Francia 325, Torino; tel. 011/385.36.56 o www.edizionidelcapricorno.com

g.m.

Nelle foto: Cover libro e Gianni Oliva

“La meraviglia della seta e il peltro a Torino”

In Palazzo Madama … andar “per mirabilia” fra la “Sala tessuti” ed il “Gabinetto Cinese”

Dal 22 febbraio 2024 al 28 gennaio 2025

“Palazzo Madama”: è un viaggio di estrema suggestione nell’arte tessile dal XIV al XX secolo, quello proposto dal “Museo Civico d’Arte Antica”, in virtù della rotazione dei manufatti esposti nella “Sala tessuti”, sotto l’attenta curatela di Maria Paola Ruffino e attraverso una nuova scelta di tessuti e abiti “che corre sul filo conduttore della seta”. Di meraviglia in meraviglia, il percorso ci porta dallo splendore delle stoffe tardomedievali e rinascimentali – spesso intessute d’oro, lavorate in Italia e richieste dall’aristocrazia europea, ma non solo – fino al Sette – Novecento, con diversi manufatti (alcuni oggetto di recente restauro e presentati al pubblico per la prima volta) che “aprono la visuale sulla storia della moda e su come la seta ne sia da sempre assoluta protagonista”.

Primo assoluto protagonista, fino all’epoca rinascimentale, il “più ricco e magniloquente dei tessuti”, sua maestà il “velluto”. E fiorentino è il telo dall’iconico motivo a melagrane e fiori di cardo, in oro e cremisi, come fiorentino è anche il più raffinato velluto “ad arabeschi” verdi e argento, di ispirazione orientale, molto vicino a quello prodotto per la sposa di Cosimo de Medici, Eleonora di Toledo, che lo indossa nel celebre ritratto eseguito dal Bronzino intorno al 1545 e conservato agli “Uffizi” di Firenze. Attraverso i modelli a struttura geometrica che caratterizzano le composizioni decorative della seconda metà del XVI secolo, il percorso ci presenta i fiori e le volute del “gusto barocco” per arrivare ai disegni fantasiosi elaborati a Lione per l’abbigliamento nel XVIII secolo. “Grazia e leggerezza dominano il disegno, che unisce elementi del mondo naturale, resi in modo quanto mai naturalistico, ad architetture, cineserie ed esotismi, in composizioni di grande varietà ed effetto”. Altra storia quella che, dalla metà del Settecento, ci si propone attraverso la progressiva semplificazione del “decorato” che accompagna l’affermarsi del “gusto neoclassico”: ecco allora  stoffe in cui i fiori si “miniaturizzano” e si sovrappongono a “sfondi rigati”, lasciando poi le sole righe quali protagoniste. Fra Otto e Novecento, l’iter espositivo ci racconta di richiami e di un ritorno molto evidente di modelli decorativi elaborati nei secoli precedenti e rivisitati dalle manifatture tessili prendendo ispirazione dai manufatti antichi raccolti a livello museale. Questo lungo percorso nella storia del tessuto è illustrato a “Palazzo Madama” non soltanto da teli bidimensionali, ma anche da un gruppo di vesti maschili e femminili, dal Settecento al Novecento, che vanno dalle “marsine” e dai “gilet” ricamati, a una “robe” femminile e a un “caracò” (corpetto) a grandi fiori, fino agli abiti in raso e “taffetas” dai colori accesi e cangianti, concreto preludio a nuove futuristiche visioni del “fashion”e alla riconferma di come “la seta ne sia da sempre assoluta protagonista”.

Ma il viaggio all’interno di “Palazzo Madama” non finisce qui. Dopo la “seta” è meraviglia per occhi e cuore anche l’esposizione, curata da Clelia Arnaldi di Balme, all’interno del “Gabinetto Cinese”, al primo piano del Palazzo, dei 128 oggetti “in peltro” (pezzi piemontesi del Settecento e dell’Ottocento)donati dagli eredi di Attilio Bonci (Lanzo Torinese 1942 – 2022), grande collezionista e studioso della storia del peltro piemontese, attraverso ricerche durate tutta la vita e confluite in un volume del 2005 edito dal “Centro Studi Piemontesi”. Raccolti in bella mostra, troviamo soprattutto oggetti di uso quotidiano (utilizzati nelle case contadine come nelle dimore signorili), dai piatti ai candelieri, dalle teiere ai calamai, fino agli strumenti utilizzati per scopi attinenti alla medicina come le grandi siringhe e gli accessori per i clisteri.

Praticata fin dall’epoca degli antichi Romani, l’arte del peltro (lega composta principalmente di stagno, con l’aggiunta di una piccola percentuale di altri metalli come il rame, il bismuto e l’antimonio) si sviluppa particolarmente a partire dalla fine del Cinquecento, raggiungendo livelli artistici molto alti in Germania, in Inghilterra e in Francia.

In Italia la produzione di peltri si concentra soprattutto in Veneto ed in Piemonte, dove i peltrai sono riuniti in “Corporazione” a partire dal 1634, in seguito alle disposizioni di Cristina di Francia e poi di Carlo Emanuele II (1652). Peltrai – artigiani – fantasiosi artisti. Vedere per  credere!

Gianni Milani

“La meraviglia della seta e il peltro a Torino”

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it

Dal 22 febbraio 2024 al 28 gennaio 2025

Orari: lun. e da merc. a dom. 10/18; mart. chiuso

Nelle foto: particolari allestimento “Sala Tessuti” e Peltri “Gabinetto Cinese” (Ph Perottino); “Abito da sera”, Taffetas cangiante, 1932 –’35, dono Giovanna Dal Vesco, 2019

ITCILO. I suoi primo 60 anni di “pensiero innovativo”

Una “storica” mostra fotografica, presente la Ministra Marina Calderone, per dare il via ad un anno di appuntamenti celebrativi dell’“ILO” di Torino

Giovedì scorso 24 ottobre, era presente anche il “Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali”, Marina Calderone, all’inaugurazione della “mostra fotografica” dal titolo significativo “Pioneering learning for social justice”, primo appuntamento delle celebrazioni, che si terranno per un anno intero e ideate in omaggio alla storia del “Centro di formazione dell’Organizzazione internazionale del Lavoro”, nato a Torino nel 1964 (con sede nel “Campus delle Nazioni Unite”, in via Maestri del Lavoro, 10) sulla scia delle iniziative organizzate per il Centenario dell’“Unità d’Italia”, celebrato nel 1961 con la grande “Esposizione Internazionale” dedicata al Lavoro.

A dare il via alla Festa del “Centro”, da sempre “pioniere di soluzioni innovative”, la “Seduta speciale” del Consiglio di Amministrazione, alla presenza del “Direttore Generale” dell’“Organizzazione Internazionale del Lavoro”, Gilbert F. Houngbo, e del “Direttore” dell’“ILO” di Torino, Christophe Perrin.

In oltre mezzo secolo di storia, il “Centro” ha formato “funzionari” e “diplomatici” provenienti da tutto il mondo, proponendo metodologie di insegnamento innovative e corsi all’avanguardia. Un “hub” di innovazione in continua trasformazione, che ha sempre mantenuto fede alla “missione fondante” dell’“ILO”promuovere il lavoro dignitoso in ogni angolo del mondo, coltivando la giustizia sociale per una pace duratura”.

Uno dei nostri punti di forza – ha commentato Christophe Perrin – è la nostra sede a Torino: una città che vanta una profonda tradizione di cooperazione internazionale, innovazione sociale e formazione a tutti i livelli. Torino non è stata solo una casa per il ‘Centro’, ma è diventata parte integrante della nostra identità. Siamo grati ai nostri partner strategici: Governo italiano, Regione Piemonte e Città di Torino, che sin dall’inizio ci hanno accompagnato, riconoscendo l’importanza di questo ‘Centro’ per l’Italia, per l’Europa e per il mondo. Ciò che contraddistingue l’‘ITCILO’ è la sua missione di riunire governi, rappresentanti delle imprese e dei lavoratori, all’interno di un luogo dove diverse prospettive possono trovare ascolto. Questo Centro non è solo uno spazio di apprendimento del presente, ma anche un laboratorio per plasmare il futuro”.

Parole che assolutamente si rispecchiano nei fatti.

Nel 2023, 6.800 persone provenienti da 177 Stati diversi hanno partecipato alle “attività formative” presenziali dell’“ILO”, sia sul “Campus ONU” a Torino che sui progetti di formazione a livello paese. Alla formazione presenziale si affiancano le “attività di apprendimento online” che permettono di coinvolgere 92.000 utenti (di cui 79mila direttamente sull’“e-campus” dell’“ITCILO” e 13mila utenti attraverso piattaforme di formazione gestite dal “Centro”). Infine, non sono da dimenticare le attività di “networking” knowledge sarin” che nel 2023 hanno coinvolto circa 5.600 persone, e quelle di “comunicazione” advocacy” che hanno raggiunto e sensibilizzato oltre 130mila persone sui temi del “lavoro” e dei “diritti umani”.

La mostra

La giornata celebrativa dello scorso giovedì 24 ottobre ha dato il via ad una serie di iniziative tese a non spegnere i riflettori sui gloriosi 60 anni dell’“ITCILO”. Prima fra tutte una bellissima mostra fotografica che vuole ripercorrere la storia del “Centro” attraverso tre suggestivi allestimenti.

Prima tappa, nel cortile, il “Padiglione Africa”

Le immagini raccontano l’evoluzione dei corsi e dei laboratori, ma anche delle metodologie di insegnamento, con un focus sulle tecnologie utilizzate all’epoca e quelle attuali. A partire dai primi laboratori tecnici al “Palazzo del Lavoro” agli innovativi corsi in marketing e comunicazione, che già negli anni Sessanta erano aperti a persone provenienti da tutto il mondo. Negli anni il “Centro” ha messo a disposizione servizi, attività sportive e culturali quali mensa, lavanderia, punto medico, palestre e campi da gioco, eventi musicali, così da rendere più piacevole la vita dei dipendenti e il soggiorno dei partecipanti.

 

Seconda tappa, piano terra, “Piemonte”

Qui troviamo le fotografie “storiche” (in b/n e a colori) dei tanti personaggi famosi che hanno visitato il “Palazzo del Lavoro” e il “Campus”: da un ammirato Alfred Hitchcock che osserva il cantiere dell’opera di Pier Luigi Nervi alla Regina Elisabetta II, accompagnata da Gianni Agnelli durante la visita, nel 1961, all’“Esposizione Internazionale del Lavoro”. E ancora, vari capi di Stato internazionali, presidenti della Repubblica italiana e i segretari generali delle Nazioni Unite.

Terza tappa, primo piano, Il racconto dei Giornali

Una rassegna di articoli giornalistici (“La Stampa” e “Stampa Sera”) che raccontano fatti e avvenimenti riguardanti il “Centro di Formazione”. A cominciare, ovviamente, dalla storica firma a Roma (1964), che diede il via a questa lunga avventura. Che continua nel tempo a grandi e significativi passi.

g.m.

Nelle foto: Il Ministro Marina Calderone fra Christophe Perrin e Gilbert F. Houngbo e foto della Mostra (Alfred Hitchcoch e la Regina Elisabetta II con Gianni Agnelli)

Verrua Savoia, la fortezza sulla piana del Po

Anche il grande Barbarossa la considerò una roccaforte inespugnabile, tanto è vero che si accampò nelle vicinanze per studiare bene l’assalto e solo quando il governatore del castello si rifiutò di aprire le porte l’imperatore andò su tutte le furie, attaccò le fortificazioni ed il borgo distruggendo tutto. Accadde nel 1167 durante la guerra di Federico I contro i Comuni della Lega Lombarda. Posta su un colle in una posizione strategica la fortezza di Verrua Savoia dominava il corso del Po e gran parte della pianura padana piemontese.
E ancora oggi è così, senza eserciti e assedi, da lassù la vista è eccezionale, un colpo d’occhio incredibile, il panorama spazia sulle province di Torino, Vercelli, Asti e Alessandria. Non è rimasto molto, della fortezza antica c’è solo la Rocca, l’unica porzione del complesso che possiamo ancora vedere oltre a qualche rudere dei bastioni più esterni. La fortezza di Verrua Savoia fu più volte distrutta e ricostruita, la sua è una storia legata a guerre, assedi, distruzioni e passaggi di sovranità dai vescovi di Vercelli ai marchesi del Monferrato e ai Savoia. La prima testimonianza della presenza della Rocca di Verrua risale al X secolo. Ma, Barbarossa a parte, la fama della fortezza è legata soprattutto agli assedi del 1625 e del 1704-1705. Il primo grande assedio sostenuto dal forte di Verrua fu quello del 1625 quando il Duca di Savoia si alleò con la Francia contro la Spagna e l’Austria. Il governatore spagnolo di Milano tentò invano di impadronirsi del castello scatenando pesanti bombardamenti d’artiglieria. Il presidio resistette fino allo stremo delle forze. Il 17 novembre l’esercito spagnolo, sconfitto dai piemontesi e dagli alleati francesi, si diede alla fuga dopo aver perso in tre mesi oltre 10.000 uomini. Il secondo grande assedio avvenne nel 1704 durante la guerra contro i Francesi. Luigi XIV aveva incaricato il generale duca di Vendome di riconquistare il Piemonte.
L’assedio durò circa un anno e alla fine vinsero i francesi ma la strenua resistenza di Verrua consentì di ritardare l’assedio di Torino consentendo all’esercito piemontese di organizzare meglio le difese fino all’arrivo vittorioso di Vittorio Amedeo II e del principe Eugenio di Savoia. Ormai demolita in gran parte la fortezza tornò ai Savoia ma non fu più ricostruita come bastione difensivo e dopo il periodo Napoleonico fu ceduta ai privati. La parte principale della fortezza era costituita dal dongione (donjon), dalle caserme dei soldati e da un pozzo. Nella parte centrale della piazzaforte si trovavano i magazzini super protetti con armi e munizioni mentre la Porta del Soccorso collegava il forte alla pianura. L’imponente complesso venne demolito nel 1707. Nell’Ottocento il forte fu totalmente trasformato e diventò una residenza nobiliare. Il palazzo del governatore divenne la casa del marchese mentre vigne e terreni agricoli rivestirono l’ambiente attorno alla dimora. Ciò che resta della fortezza di Verrua Savoia è stato concesso in comodato d’uso al Comune di Verrua che lo apre al pubblico. Gli esterni della fortezza sono sempre visitabili ma per vedere gli interni la fortezza è aperta tutte le domeniche e i festivi da marzo a ottobre dalle 15,30 alle 18,30 ed è possibile prenotare visite guidate negli altri giorni della settimana. Consultare il sito www.roccaverrua.it
Filippo Re

Rileggere il Risorgimento. Torino / Italia: 1884-2024

L’esposizione Rileggere il Risorgimento. Torino / Italia: 1884-2024curata da Alessandro Bollo, Silvia Cavicchioli e Daniela Orta, a Palazzo  Carignano vuole ricordare, a 140 anni dall’evento, il primo allestimento del Museo del Risorgimento: il Tempio del Risorgimento all’interno dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 nel Parco del Valentino, un allestimento provvisorio, ma di respiro nazionale, preludio della successiva costituzione, nel 1901, del Museo.

Cosa resta di questi valori? Cosa significa oggi il Risorgimento? Come interpretarne le storie, i personaggi in una chiave attuale e contemporanea? Con Rileggere il RisorgimentoTorino / Italia: 1884-2024 si vuole riflettere su questi interrogativi e sulla contemporaneità di valori fortemente radicati nel passato, ma tuttora attuali.

Nel Corridoio Monumentale della Camera Italiana trovano spazio cimeli provenienti dalle istituzioni che oggi studiano e curano il Risorgimento in Italia: dipinti, oggetti – come l’imponente campana che suonò durante le Cinque Giornate di Milano, la chitarra di Giuseppe Mazzini o le pantofole di Garibaldi – e una selezione di spezzoni di film, a cura del Museo Nazionale del Cinema, che rimanda invece all’immaginario di celluloide.

La mostra Rileggere il Risorgimento. Torino / Italia: 1884-2024 ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica.

Rileggere il Risorgimento. Torino / Italia: 1884-2024 è il risultato di uno sforzo corale e nazionale che ha visto coinvolti i più importanti musei italiani del Risorgimento nella sua realizzazione. I materiali esposti arrivano infatti da: Comune di Catanzaro – Palazzo de’ Nobili; Domus Mazziniana, Pisa; Fondazione Camillo Cavour, Santena (To); Istituto Mazziniano – Museo del Risorgimento, Genova; Museo Civico del Risorgimento, Bologna; Museo del Risorgimento “Leonessa d’Italia”, Brescia; Museo del Risorgimento – Civici Musei di Udine; Museo del Risorgimento “Vittorio Emanuele Orlando” – Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo e Palazzo Moriggia – Museo del Risorgimento di Milano.

La vita operaia di Giuseppe Granelli

Una vita operaia, libro scritto da Giorgio Manzini e pubblicato da Einaudi nella collana degli Struzzi Società nel 1976, non è evidentemente un libro nuovo e nemmeno si può dire sia stato all’epoca un bestseller anche se vendette parecchie copie. E’ comunque un libro importante e molto attuale. Giuseppe Granelli, classe 1923 (morto a novant’anni nel dicembre di dieci anni fa), colto operaio dell’acciaieria Falck di Sesto San Giovanni, era il protagonista di questo libro-inchiesta di Giorgio Manzini, giornalista mantovano prematuramente scomparso che fu per oltre trent’anni responsabile della redazione milanese di Paese Sera, storico quotidiano progressista romano. Granelli, cresciuto nel villaggio Falck divenne, grazie a Una vita operaia, l’emblema della condizione dei lavoratori metalmeccanici nell’Italia del secondo dopoguerra. Manzini lo interrogò a lungo dopo averlo scelto tra decine di migliaia di operai di Sesto San Giovanni perché era conosciuto come uno stimato sindacalista di fabbrica e una persona libera e intelligente. La sua era una vita come tante, chiusa in un giro ristretto ma anche investita “dai bagliori dei grandi avvenimenti politici”: la Resistenza, le illusioni dopo il 25 aprile del 1945, le difficoltà economiche del dopoguerra, la rottura del fronte operaio, la restaurazione, la caduta del mito di Stalin, la lenta riscossa sindacale che portò all’autunno caldo. Questo libro di Giorgio Manzini che potremmo definire allo stesso tempo un saggio, un’inchiesta o un romanzo verità – ripubblicato nel 2014 da Unicopli – assume oggi un significato ancora più profondo perché racconta di un uomo, quel Giuseppe Granelli, che per quarant’anni lavorò alla Falck di Sesto San Giovanni, acciaieria simbolo di una fase dell’industria italiana. La sua esistenza fu indissolubilmente legata a quella della città dove visse, ribattezzata la “Stalingrado d’Italia”, tra gli stabilimenti dell’acciaieria e il villaggio operaio al Rondò da dove partivano le grandi marce solidali. Vicende che sono diventate una parte della nostra storia nazionale: un simbolo altalenante di conquiste, di sconfitte, di risalite e di cadute, un microcosmo che può rispecchiare la vita dell’intero Paese. La fabbrica amata e odiata – il pane, la fatica, il conflitto – non c’è più. I resti dei vecchi capannoni (Concordia, Unione, Vittoria: si chiamavano così i vecchi stabilimenti della Falck), le fonderie, i laboratori, l’altoforno sono come ombre e fantasmi di un passato. Resta però la memoria di quella “vita operaia”, di Giuseppe Granelli che, una volta andato in pensione, diventò la “voce degli operai” e raccolse le biografie di quasi 490 sindacalisti della Fiom, militanti e semplici operai che avevano speso la vita in fabbriche come l’Alfa Romeo, la Falck, l’Innocenti, la Breda, la Pirelli, la Richard Ginori, la Magneti Marelli e tante altre di cui non ci si ricorda nemmeno più il nome. Un lavoro prezioso, svolto con una pazienza certosina, con la lucida coscienza che quelle vite raccolte a una a una, catalogate nell’Archivio del lavoro di Sesto San Giovanni, erano la sua eredità, la medaglie al valore che nessuno gli ha mai messo sul petto. Il padre di Granelli, Tone, aveva lavorato anche lui alla Falck Concordia per quarant’anni, manutentore al laminatoio. Lui, Giuseppe (detto Giuse, Tumìn, Granel) cominciò a faticare da ragazzo di fabbrica a 14 anni, per 84 centesimi l’ora a portar l’olio, scopare i trucioli di ferro, allungare gli stracci ai compagni alla macchina. Manzini con quel libro seppe fare di Granelli il simbolo di milioni di uomini di un passato ormai morto e sepolto. Questo libro appartiene, come scrisse Corrado Stajano, “alla letteratura industriale”, quella dei Carlo Bernari, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Primo Levi, Vittorio Sereni. Granelli conservò nel portafoglio per anni una fotografia di Stalin, per lui l’uomo della guerra patriottica, il vincitore delle armate naziste. Il ventesimo Congresso del Pcus lo visse come un trauma, la rivolta di Budapest del 1956 come un colpo al cuore. Ma Granelli non indulgeva in nostalgie e tenne sempre fede ai suoi principi di giustizia sociale: tolse dal portafoglio la foto di Stalin e non ne rimise altre. Amava il dubbio e il confronto. Aveva un grande rispetto per il sapere ed era curioso, frequentò a Milano la Casa della Cultura diretta da Rossana Rossanda, fu attratto dal fascino di Cesare Musatti e lesse i grandi libri della storia e della letteratura. Il libro di Manzini lo rese felice. Gli fece capire che una vita come la sua, simile a quella di tanti altri, poteva e doveva essere ricordata. Le ultime tre righe del libro raccontano la sua pazienza, la tenacia e la saggezza di quest’operaio che sapeva fare “i baffi alle mosche”: “L’importante è continuare il rammendo, sostiene Granel, e avere fiducia. Se non si avesse fiducia si starebbe qui a diventar matti tutti i giorni?”. Manzini è morto giovane nel 1991. Granelli da due lustri non c’è più : è sepolto nel silenzio del cimitero del paese dei suoi genitori, a  Moio De’ Calvi in alta val Brembana, nella bergamasca. Rimane questo libro, Una vita operaia, troppo bello e troppo importante per non essere ripreso in mano, leggerlo e riflettere su cos’è stata e cos’è tuttora la “condizione operaia”.

Marco Travaglini