“E non vi venne mai in mente che le tombe non erano fatte per i morti, ma per i vivi?”, chiedeva un personaggio all’interno di un testo pirandelliano del ’16. Forse se ne è ricordato nel 1998 il norvegese Jon Fosse inscenando in Sogno d’autunno la vicenda di un Uomo e di una Donna, il loro incontro tra le mura cimiteriali di uno sconosciuto paese del nord, l’interrogativo se questo incontro sia casuale oppure no, il matrimonio ormai a rotoli di lui, la solitudine di sempre di lei.
Si incontrano seduti su di una panchina mentre all’intorno in una sorta di muta Spoon River occhieggiano lumini e immagini che si portano appresso scampoli di storie passate, di ricordi, di vite che ormai non contano più nulla, si incontrano perchè sia lei a spingerlo a ricostruire una vita insieme. Noi che assistiamo a questa novità scelta dallo Stabile torinese, cominciamo dalla platea a chiederci se sia vita reale, se tutto si debba avvicinare al sogno del titolo, che qualche peso dovrà pur avere, se quei passaggi che traslocano inaspettatamente nel tempo e nei luoghi siano ricordi o tasselli di un racconto che si va formando.Nulla è abbastanza chiaro e Fosse gioca oltre il dovuto a rimescolare le carte, a confondere non soltanto lo spettatore ma pure se stesso. Compaiono anche i genitori di lui, mansueto e appartato il padre, una gran virago tra dramma e comicità la madre, mentre si devono preparare i funerali della nonna (ancora di lui), mentre la moglie (certamente, dell’Uomo) viene a piangere in proscenio con la notizia che il loro figlio è, grave, ricoverato in ospedale, mentre la recalcitrante Donna, che ha ormai visto maturare il proprio desiderio di convivenza, dovrebbe partecipare alla sepoltura dell’ava. In un arco di tempo che più zompettante non si potrebbe, in un presente che scavalca l’attimo per entrare in un nebbioso futuro senza risposte, ancora e sempre le presenze dell’Uomo e della Donna – privi ormai di qualsiasi spessore, se mai ne avessero cercato uno -, la morte di lui e il pianto finale che accomuna le tre donne della sua vita.
Materiale, troppo e disordinato, cucito insieme da dialoghi che in più di una occasione proseguono attraverso le loro fotocopie, neppure cercando di inventarsi un’intonazione, un piccolo cambiamento, un’invenzione, adottando un vocabolario che nella propria ripetitiva semplicità finisce con l’essere ridicolo, dando a volte (vedi i personaggi dei genitori) il dubbio che ci si ritrovi davanti agli Smith di ioneschiana memoria. Ed è quindi abbastanza deludente che l’innovazione teatrale odierna passi da queste parti e si riduca a simili prove. La regia di Valerio Binasco non può essere che corretta, legata al tentativo di dar forma ad un testo che vita non ha, incorniciandolo all’inizio e alla fine dentro immagini uscite da una moviola che fissa attimi del tutto sbiaditi.
Nonostante l’impegno degli interpreti, anche i personaggi rimangono sbiaditi, l’Uomo di Michele Di Mauro ritrova qualche sferzata, coma la Madre di Milva Marigliano, ma non si va oltre; spiace per Giovanna Mezzogiorno – chi scrive continua a considerarla una delle punte d’eccellenza del cinema italiano e sicuramente non bisognosa di partecipare, nome di richiamo, a imprese che finiscono con poggiare sul nulla – che è messa all’angolo dalla piattezza delle parole e delle impercettibili e subito dimenticate azioni della Donna. 90’ che fanno comunque l’occasione per ridimensionare il nome di un autore (di lui, classe 1959, avevamo già visto a Torino Inverno con Malosti e Cescon, di lui che la rete s’affretta a informarci come in patria sia l’autore più rappresentato dopo Ibsen) che sembra già essere troppo presto salito sugli altari del nostro panorama teatrale, non soltanto europeo.
Elio Rabbione
(Foto di Bepi Caroli)