Il “Nerone di Pale“, come lo definì Enzo Bettiza, squinternato poeta che “declamando versi si godeva l’intermittente sparatoria dei cecchini sui bersagli umani di Sarajevo“, sta pagando per i suoi crimini. A Srebrenica, la città “dell’argento e del sangue”, e nei boschi vicini morirono quasi diecimila musulmani bosniaci, quasi tutti maschi, trucidati nel giro di pochi giorni da unità dell’esercito serbo e dalle loro milizie paramilitari
In un mondo dove l’attualità propone spesso orrore, dolore e negatività, finalmente una buona notizia. Settant’anni dopo il processo di Norimberga ai gerarchi nazisti, anche il genocidio di Srebrenica, avvenuto tra le montagne del nordest della Bosnia nel luglio del 1995, ha un primo responsabile: Radovan Karadžić. L’ex psichiatra che, nel corso della guerra nella ex Jugoslavia della metà degli anni ’90 era il leader dei serbi di Bosnia, è stato riconosciuto colpevole del reato di genocidio e condannato a scontare una pena di 40 anni di carcere dal tribunale speciale internazionale dell’Aja. Il “Nerone di Pale“, come lo definì Enzo Bettiza, squinternato poeta che “declamando versi si godeva l’intermittente sparatoria dei cecchini sui bersagli umani di Sarajevo“, sta pagando per i suoi crimini. A Srebrenica, la città “dell’argento e del sangue”, e nei boschi vicini morirono quasi diecimila musulmani bosniaci, quasi tutti maschi, trucidati nel giro di pochi giorni da unità dell’esercito serbo e dalle loro milizie paramilitari. Un crimine contro l’umanità di inaudita ferocia, riconosciuto ufficialmente come genocidio dal Tribunale internazionale dell’Aja con una sentenza pronunciata nel gennaio del 2015. La Corte ha giudicato Karadžić responsabile anche di omicidio e persecuzione di civili ritenendolo – a giusta ragione – l’artefice delle atrocità commesse durante il lungo assedio di Sarajevo, quando nel corso di quasi 47 mesi la città fu colpita da 470 mila granate e vi morirono – anche per opera dei cecchini – undicimimilacinquecentoquarantuno persone, delle quali più di duemila bambini. A questi reati si aggiunge quello di “presa di ostaggi” relativo al sequestro di 284 caschi blu dell’Onu usati come scudi umani a fronte dei bombardamenti della Nato. La Corte ha deciso di non estendere l’accusa di genocidio agli eccidi avvenuti in altre sette località della Bosnia Erzegovina (Bratunac, Prijedor, Foca, Kljuc, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik), “limitatadosi” in questi casi alla condanna per crimini contro l’umanità, omicidio e persecuzione. Con la sentenza si chiude un processo durato più di sei anni, dopo la cattura di Karadžić nel luglio del 2008 che mise fine ad una latitanza durata 12 anni. All’udienza conclusiva nell’aula del tribunale dell’Aja hanno assistito diverse associazioni di vittime e sopravvissuti, a partire dalle “Donne e le Madri” di Srebrenica che persero i loro cari per mano dell’altro criminale di cui ora si attende una condanna esempale: il generale Ratko Mladić, il “boia di Srebrenica” e di Sarajevo. Il suo braccio destro, il generale serbobosniaco Zdravko Tolimir, l’otto febbraio scorso è morto mentre stava scontando l’ergastolo per genocidio nel carcere di Scheveningen, nei Paesi Bassi. Nessuno e niente potrà ridare il marito e il figlio ad Haira Čatić, coraggiosa presidente delle donne di Srebrenica che – insieme alle altre madri, figlie e sorelle delel vittime – ogni 11 di ogni mese, da vent’anni manifesta a Tuzla per la giustizia, il ricordo e la verità sul genocidio. Ma forse, una volta tanto, alla giustizia ci si avvicina.
Marco Travaglini