Quel 31 ottobre del 1984 in cui moriva Eduardo De Filippo
Ne è passato del tempo da quel 31 ottobre del 1984 in cui moriva Eduardo De Filippo. Drammaturgo, attore teatrale e cinematografico, regista e sceneggiatore, grande poeta: Eduardo è stato tra i massimi esponenti della cultura italiana del Novecento. Di personalità schiva, burbera, lontana dalle mondanità , ha avuto un grande pregio: teneva in grande considerazione i giovani. Ne sapeva riconoscere il valore e il potenziale, dando a molti una chance. Non sopportava i furbetti o i meschini. Ricordarlo è importante. Oggi più che mai.
Con una riflessione più larga. C’è chi ha scritto che il Paese uscirà da questa crisi come da una guerra. In parte lo dicono i dati, le analisi, le previsioni.Ma ancora di più lo dice la dignità ferita di molti. Se è così tanto più bisogna tornare a quello spirito di riscossa civile che segnò la stagione della Ricostruzione dopo l’ultima vera guerra che gli italiani hanno vissuto. Pensando a questo e pensando al teatro di Eduardo, viene alla mente un episodio, una storia particolare, che parla di lui ma , al fondo, parla anche di noi. Il 25 marzo del 1945 al San Carlo di Napoli andò in scena la prima rappresentazione di Napoli Milionaria.
La storia è nota. C’è Gennaro Jovine, che è un uomo perbene. E’ andato in guerra e quando torna a casa trova la moglie che si è arrangiata e ha fatto un po’ di denaro con la borsa nera. E il resto della famiglia più o meno lo stesso: la figlia maggiore è incinta di un soldato americano. L’altro figlio traffica con piccoli furti e persino la più piccola è stata contagiata dal clima. Il terzo atto è quasi una storia a sé. La bambina più piccola è malata, molto, e serve una medicina che non si trova in tutta Napoli. Il medico dispera quando entra il vicino – un uomo che Amalia ha rovinato con l’usura – e che adesso è lì con la medicina in mano. E il dialogo è duro. Lei gli chiede cosa vuole in cambio. Lui le risponde che non può restituirgli la vita che gli ha tolto e quindi in cambio non vuole nulla. Ma le apre gli occhi sull’oscenità di quel suo arricchimento.
Poi consegna la medicina al dottore e se ne và. Per Amalia è il crollo di un mondo. O anche il risveglio da un incubo. Così quando rimangono soli, marito e moglie, finalmente Eduardo (Gennaro) parla e le dice quello che pensa. Di quella brama di ricchezza, di quei biglietti da mille accumulati sulle disgrazie degli altri. Glieli butta sul tavolo e le dice “vedi, a me queste mille lire non mi fanno battere il cuore. E a te? Com’è che te lo fanno battere?”. C’è del moralismo? Forse, ma può starci nel teatro di Eduardo. Ma il talento è talento, e stupisce. E allora Amalia, che si è svegliata dal suo sonno, risponde. Poche frasi ma c’è tutto. Lei si chiede “Ma che cosa è successo?Che cosa ha travolto così le nostre vite, le cose che avevamo, principi semplici ma puliti – e ripete – ma che è successo?”. Sono le battute finali. Il figlio torna a casa perché non è andato a rubare; la figlia maggiore terrà il bambino e Gennaro finalmente può darsi coraggio con quella battuta immortale sulla notte che deve passare (“Ha da passa’ ‘a nuttata” ). Per la bambina, per la sua famiglia, per il Paese. Eduardo ha scritto che il terzo atto lo recitò impaurito e in un silenzio assoluto.
E racconta che calato il sipario il silenzio proseguì per qualche secondo. Dopo esplosero “un applauso furioso” e un “pianto irrefrenabile”. Piangevano tutti, attori, comparse, il pubblico, gli orchestrali nel golfo mistico. E anche Raffaele Viviani che era corso ad abbracciare il Maestro perché aveva interpretato il “dolore di tutti”. La domanda banale è chissà come sarebbe oggi avere Eduardo tra di noi. Lui o qualcuno capace come lui di mettere in prosa la stessa domanda: ma che è successo? Come è accaduto che un paese con la nostra storia e cultura abbia perduto la rotta? E che chi ha avuto o ha il potere , abbia pensato di poter fare a meno del popolo, magari perché abbagliato dal potere stesso? Però – e crediamoci –la “nottata” deve finire, anche per noi, ora. E con un tempo nuovo – crediamoci – si dovranno riconquistare i principi e l’onestà, come la famiglia Jovine.
Marco Travaglini



La sua immaginazione e la sua penna hanno regalato al mondo personaggi indimenticabili: l’arguta e adorabile Miss Marple, il severo ed acuto Hercule Poirot, gli intraprendenti Tommy e Tuppence Beresford. La “signora del mistero” è morta a Wallingford nella sua casa di campagna inglese il 12 gennaio 1976, quarant’anni fa. Aveva 86 anni
l’ospedale inglese di Torquay durante la prima guerra mondiale, la sua vita imboccò un’altra strada, per certi versi inaspettata. Le nozioni apprese su medicinali e veleni durante il periodo belligerante, le saranno di grande aiuto per la stesura di molti dei suoi romanzi. Agatha Christie ebbe due uomini nella sua vita: il primo amatissimo Archie Christie, di cui mantenne il cognome anche dopo il divorzio, e l’archeologo Max Mallowan, conosciuto su di un treno verso Baghdad, quello che le diede l‘ispirazione per creare il suo già grande capolavoro, “Assassinio sull’Orient Express”. Gran parte dei capitoli di questo libro Agatha Christie li scrisse nella camera 411 del Pera Palas di Istanbul, “il più vecchio hotel europeo della Turchia” che affaccia le proprie camere sul Corno d’Oro, costruito nel 1892 allo scopo di ospitare i passeggeri dell’Orient Express. Va ricordato che dal 1952, ininterrottamente, viene rappresentata in un teatro londinese la più famosa delle sue commedie, The Mousetrap (Trappola per topi), ispirata a un racconto della raccolta” Tre topolini ciechi e altre storie”. L’ultimo romanzo che ha come protagonista Hercule Poirot (Sipario) venne pubblicato poco prima della morte dell’autrice; è proprio in quel romanzo, scritto da tempo, che Agatha decide di far morire il suo famoso investigatore. “Addio Miss Marple” , invece, venne pubblicato pochi mesi dopo la morte della scrittrice. Ma, nonostante siano passati decenni, sulla popolarità di Agatha Christie e sui suoi racconti non è mai calato il sipario.
Il 30 aprile del 1975, quarant’anni fa, cadeva di mercoledì e con il ritiro degli americani da quel paese del Sud-est asiatico, finiva la guerra in Vietnam. Quando l’ultimo elicottero americano lasciò Saigonsi avvicinava la fine di unodei più sanguinosi conflitti del Novecento, che avrebbe lasciato sul terreno i corpi straziati di tanti innocenti e di giovani soldati mandati a morire senza un perché. Iniziata ufficialmente nel 1955, la guerra in Vietnam aveva visto intensificarsi l’intervento statunitense nel 1964, con bombardamenti a tappeto e attacchi via terra. Teatro degli scontri era stato in prevalenza il territorio del Vietnam del Sud, dove le forze insurrezionali filo-comuniste ( i Viet cong) si opponevano al regime sostenuto dagli USA.La svolta decisiva avvenne nellaprimavera del 1975, con la campagna di Ho Chi Minh (in vietnamita: Chiến dịch Hồ Chí Minh) ,nome in codice assegnato (in onore del leader storico della lotta per l’indipendenza del Vietnam) all’ultima e decisiva offensiva scatenata dall’Esercito regolare del Vietnam del Nord e dalle forze viet cong del Fronte di Liberazione Nazionale.
resto della vita. Sul piano economico le operazioni belliche costarono alle casse di Washington circa 165 miliardi di dollari. I racconti dal fronte dei soldati, scioccati dai massacri di civili e dalla violenza dei combattimenti, colpirono profondamente l’opinione pubblica americana (e non solo), alimentando un ampio movimento pacifista e di contestazione alla politica estera aggressiva degli Stati Uniti, che alla fine influì sul corso degli eventi e portò a cambiamenti epocali nella società; su tutti l’abolizione della leva obbligatoria nel 1973. Nell’ottica della “guerra fredda”, l’esito finale del conflitto sancì una sconfitta bruciante per la superpotenza americana e segnò profondamente la politica estera successiva, vincolando i poteri del Presidente di impegnare truppe su un fronte di guerra all’assenso del Congresso.
Hanoi, dove vengono curati e seguiti bambini colpiti da queste malformazioni – ha stimato che circa 3.500 bambini all’anno nascono ancora oggi in Vietnam con menomazioni ascrivibili alla contaminazione con l’agente arancio. Un’eredità pesantissima del conflitto, che si traduce anche in altre forme come il disagio psichico, la depressione,il panico come quello che – nel 1973 – aveva indotto un piccolo e suo padre a fuggire a bombe e raid, per rifugiarsi sugli alberi della giungla, vivendo da eremiti per quarant’anni. Un’incredibile storia che fece il giro del mondo ma che, insieme alle altre, ci parla ancora di questa storia tremenda che il Vietnam non potrà forse mai dimenticare.

