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Ha da passa’ ‘a nuttata

Quel 31 ottobre del 1984 in cui moriva Eduardo De Filippo

 

eduardo 1Ne è passato del tempo da quel 31 ottobre del 1984 in cui moriva Eduardo De Filippo. Drammaturgo, attore teatrale e cinematografico, regista e sceneggiatore, grande poeta: Eduardo  è stato tra  i massimi esponenti della cultura italiana del Novecento. Di personalità schiva, burbera, lontana dalle mondanità , ha avuto un grande pregio: teneva in grande considerazione i giovani. Ne sapeva riconoscere il valore e il potenziale, dando a molti una chance. Non sopportava i furbetti o i meschini. Ricordarlo è importante. Oggi più che mai.

Con una riflessione più larga. C’è chi ha scritto che il Paese uscirà  da questa crisi come da una guerra. In parte lo dicono i dati, le analisi, le previsioni.Ma ancora di più lo dice la dignità ferita di molti. Se è così tanto più bisogna tornare a quello spirito di riscossa civile che segnò la stagione della Ricostruzione dopo l’ultima vera guerra che gli italiani hanno vissuto. Pensando a questo e pensando al teatro di Eduardo, viene alla mente un episodio, una storia particolare, che parla di lui ma , al fondo,  parla anche di noi. Il 25 marzo del 1945 al San Carlo di Napoli  andò in scena la prima rappresentazione di Napoli Milionaria.

La storia è nota. C’è Gennaro Jovine, che è un uomo perbene. E’ andato in guerra e quando torna a casa trova la moglie che si è arrangiata e ha fatto un po’ di denaro con la borsa nera. E il resto della famiglia più o meno lo stesso: la figlia maggiore è incinta di un soldato americano. L’altro figlio traffica con piccoli furti e persino la più piccola è stata contagiata dal clima. Il terzo atto è quasi una storia a sé. La bambina più piccola è malata, molto, e serve una medicina che non si trova in tutta Napoli. Il medico dispera quando entra il vicino – un uomo che Amalia ha rovinato con l’usura – e che adesso è lì con la medicina in mano. E il dialogo è duro. Lei gli chiede cosa vuole in cambio. Lui le risponde che non può restituirgli la vita che gli ha tolto e quindi in cambio non vuole nulla. Ma le apre gli occhi sull’oscenità di quel suo arricchimento.eduardo 2

Poi consegna la medicina al dottore e se ne và. Per Amalia è il crollo di un mondo. O anche il risveglio da un incubo. Così quando rimangono soli, marito e moglie, finalmente Eduardo (Gennaro) parla e le dice quello che pensa. Di quella brama di ricchezza, di quei biglietti da mille accumulati sulle disgrazie degli altri. Glieli butta sul tavolo e le dice “vedi, a me queste mille lire non mi fanno battere il cuore. E a te? Com’è che te lo fanno battere?”.  C’è del moralismo? Forse, ma può starci nel teatro di Eduardo. Ma il talento è talento, e stupisce. E allora Amalia, che si è svegliata dal suo sonno, risponde. Poche frasi ma c’è tutto. Lei si chiede “Ma che cosa è successo?Che cosa ha travolto così le nostre vite, le cose che avevamo, principi semplici ma puliti – e ripete – ma che è successo?”. Sono le battute finali. Il figlio torna a casa perché non è andato a rubare; la figlia maggiore terrà il bambino e Gennaro finalmente può darsi coraggio con quella battuta immortale sulla notte che deve passare (“Ha da passa’ ‘a nuttata” ). Per la bambina, per la sua famiglia, per il Paese. Eduardo ha scritto che il terzo atto lo recitò impaurito e in un silenzio assoluto.

E racconta che calato il sipario il silenzio proseguì per qualche secondo. Dopo esplosero “un applauso furioso” e un “pianto irrefrenabile”. Piangevano tutti, attori, comparse, il pubblico, gli orchestrali nel golfo mistico. E anche Raffaele Viviani che era corso ad abbracciare il Maestro perché aveva interpretato il “dolore di tutti”. La domanda banale è chissà come sarebbe oggi avere Eduardo tra di noi. Lui o qualcuno capace come lui di mettere in prosa la stessa domanda: ma che è successo? Come è accaduto che un paese con la nostra storia e cultura abbia perduto la rotta? E che chi ha avuto o ha il potere , abbia pensato di poter fare a meno del popolo, magari perché abbagliato dal potere stesso? Però – e crediamoci –la “nottata” deve finire, anche per noi, ora. E con un tempo nuovo  – crediamoci – si dovranno riconquistare i principi e l’onestà, come la famiglia Jovine.

Marco Travaglini

 

 

 

Tre febbraio 1959, il giorno in cui è morta la musica

musicmusic2music3In un incidente aereo, poco dopo la mezzanotte, morirono Buddy Holly, Ritchie Valens e “Big Bopper” Richardson

 

Il 3 febbraio 1959, per chi ama il rock, equivale ad un ricordo scuro e duro, ad una data tragica: è “il giorno in cui la musica morì”.  In un incidente aereo, poco dopo la mezzanotte, morirono Buddy Holly, Ritchie Valens e “Big Bopper” Richardson. La storia racconta che , terminato il concerto  a Clear Lake, nello Iowa, giunti a metà del “Winter Dance Party Tour” – la fulminea tournée di 24 date in tre settimane – i ragazzi stanchi e infreddoliti decisero, su suggerimento di Buddy Holly, di affittare un piccolo aeroplano che li avrebbe trasportati a Fargo, nel  (Dakota del Nord), a poca distanza da Moorhead, nel Minnesota, dove si sarebbe tenuta la successiva esibizione. L’autobus sul quale erano soliti viaggiare aveva  l’impianto di riscaldamento fuori uso e la sola idea di farsi più di cinquecento al freddo metteva i brividi. Così, contattato l’aeroclub locale, il Dwyer Flying Service, affittarono l’unico aereo disponibile, un piccolo Beechcraft Bonanza da quattro posti, compreso quello per il pilota. Quest’ultimo, Roger Peterson, aveva solo ventun’ anni e poca esperienza. I tre posti per i passeggeri erano riservati allo stesso Holly e a due membri della sua band. Ma le cose andarono diversamente. “Big Bopper” chiese a Waylon Jennings, uno dei musicisti, di barattare il proprio posto, con la scusa di un’influenza che lo stava tormentando. Jennings accettò di buon grado, ma pagò il prezzo del rimorso per il tempo a venire, per via di una battuta scherzosa, pronunciata ridendo ( “che possiate schiantarvi al suolo con quel trabiccolo”).Anche Ritchie Valens si ritrovò a bordo per un capriccio del destino: non avendo mai viaggiato su un aereo da turismo chiese di potersi giocare il posto con l’altro musicista, Tommy Allsup. La decisione fu presa giocando a testa o croce, lanciando una monetinada 50 cent. Buddy Holly, che all’epoca aveva solo ventidue anni, aveva pubblicato tre album , era già una star del rock’n’roll ed aveva lavorato tanto in radio quanto in televisione, assiemeai The Crickets , la sua band. Ritchie Valens, appena diciassettenne. aveva inciso il singolo La Bamba, destinato a conoscere un successo clamoroso negli anni a venire, inciso come “lato B” di un’altra canzone (Donna). Coi suoi ventinove anni il più vecchio fra i tre era J.P. “The Big Bopper” Richardson, autore di canzoni celebri come Chantilly Lake, destinata ad entrare nella colonna sonora di American Graffiti del 1973. Era da poco passata la mezzanotte e quando i tre musicisti  si trovarono a bordo dell’aereo al decollo era ormai quasi l’una e nevicava fitto. In breve si trovarono in un inferno bianco dov’era impossibile orientarsi a vista. Peterson  dovette affidarsi alla strumentazione di bordo pur non avendo mai conseguito la certificazione necessaria per volare solo in quel modo. E così  ,pochi minuti dopo il decollo, l’aereo si schiantò al suolo in un campo di grano e morirono tutti. La mattina seguente i corpi di Buddy Holly e Ritchie Valens furono trovati a pochi metri dall’aereo, mentre quelli di Big Bopper e del pilota furono sbalzati più lontano. Le parole della canzone American Pie di Don McLean, del 1970, resero  efficacemente l’idea  della tragedia che si era consumata in una notte d’inverno del 1959: “Non ricordo se ho pianto/quando ho letto della sua sposa rimasta vedova/ma qualcosa mi ha toccato nel profondo/il giorno che la musica è morta”. La morte prematura li consegnò al mito ma la loro musica, soprattutto quella di Buddy Holly, influenzò per decenni il rock, dalle band meno note fino ai Beatles e ai Rolling Stones. Oltre alla loro produzione musicale, a ricordare i cantanti sono stati eretti tre memoriali in loro onore, ad opera di Ken Paquette, un appassionato di anni Cinquanta. Uno a otto chilometri da Clear Lake, una steel guitar insieme a tre dischi dei musicisti scomparsi. Uno alla Riverside Ballroom di Green Lake, nel Wisconsin, dove i tre si erano esibiti due sere prima della sciagura. L’ultimo ,dedicato al giovane pilota, sul luogo del disastro, inaugurato nel cinquantesimo anniversario della sciagura.

 

Marco Travaglini

 

Agatha Christie, moriva quarant'anni fa la regina indiscussa del romanzo giallo

Agata Orient-ExpressLa sua immaginazione e la sua penna hanno regalato al mondo personaggi indimenticabili: l’arguta e adorabile Miss Marple, il severo ed acuto Hercule Poirot, gli intraprendenti Tommy e Tuppence Beresford. La “signora del mistero” è morta a Wallingford nella sua casa di campagna inglese il 12 gennaio 1976, quarant’anni fa. Aveva 86 anni

 

Sessantasei romanzi, svariati racconti, traduzioni in 45 lingue: Agatha Christie, al secolo Agatha Mary Clarissa Miller è stata la regina indiscussa del romanzo giallo. La sua immaginazione e la sua penna hanno regalato al mondo personaggi indimenticabili: l’arguta e adorabile Miss Marple, il severo ed acuto Hercule Poirot, gli intraprendenti Tommy e Tuppence Beresford. La “signora del mistero” è morta a Wallingford nella sua casa di campagna inglese il 12 gennaio 1976, quarant’anni fa. Aveva 86 anni “la donna che, dopoLucrezia Borgia, è vissuta più a lungo a contatto col crimine”, come la descrisse Winston Churchill, grazie alla sua impareggiabile penna , creò dei personaggi senza tempo, vendendo più di due miliardi di copie e proponendo le trame per i molteplici adattamenti cinematografici e televisivi delle sue fatiche letterarie. Cosa sarebbe stato il mondo del giallo senza Hercule Poirot e Miss Marple o senza capolavori intramontabili come “Dieci piccoli indiani” e “Assassinio sul Nilo”. La scrittrice , da ragazzina, sognava di  diventare una cantante lirica, ma ( e per fortuna!) dopo aver prestato servizio come volontaria pressoAgatha-Christie l’ospedale inglese di Torquay durante la prima guerra mondiale, la sua vita imboccò un’altra strada, per certi versi inaspettata. Le nozioni apprese su medicinali e veleni durante il periodo belligerante, le saranno di grande aiuto per la stesura di molti dei suoi romanzi. Agatha Christie ebbe due uomini nella sua vita: il primo amatissimo Archie Christie, di cui mantenne il cognome anche dopo il divorzio, e l’archeologo Max Mallowan, conosciuto su di un treno verso Baghdad, quello che le diede l‘ispirazione per creare il suo già grande capolavoro, “Assassinio sull’Orient Express”. Gran parte dei capitoli di questo libro Agatha Christie li scrisse nella camera 411 del Pera Palas di Istanbul, “il più vecchio hotel europeo della Turchia” che affaccia le proprie camere sul Corno d’Oro, costruito nel 1892 allo scopo di ospitare i passeggeri dell’Orient ExpressVa ricordato che dal 1952, ininterrottamente, viene rappresentata in un teatro londinese la più famosa delle sue commedie, The Mousetrap (Trappola per topi), ispirata a un racconto della raccolta” Tre topolini ciechi e altre storie”. L’ultimo romanzo che ha come protagonista Hercule Poirot (Sipario) venne pubblicato poco prima della morte dell’autrice; è proprio in quel romanzo, scritto da tempo, che Agatha decide di far morire il suo famoso investigatore. “Addio Miss Marple” , invece, venne pubblicato pochi mesi dopo la morte della scrittrice. Ma, nonostante siano passati decenni, sulla popolarità di Agatha Christie e sui suoi racconti non è mai calato il sipario.

 

Marco Travaglini

30 aprile 1975, quando l'ultimo elicottero americano lasciò Saigon

L’ultimo atto della guerra: la caduta di Saigon e la presa del potere da parte del regime comunista del Vietnam del Nord, che unificò il paese dando vita, il 2 luglio del 1976, alla Repubblica Socialista del Vietnam. Si concluse così uno dei conflitti più feroci del XX° secolo, nel corso del quale vennero usati esplosivi in un numero superiore a quelli utilizzati su tutti i fronti della Seconda guerra mondiale

 

 

vietnam33Il 30 aprile del 1975, quarant’anni fa, cadeva di mercoledì e con il ritiro degli americani da quel paese del Sud-est asiatico, finiva la guerra  in Vietnam. Quando l’ultimo elicottero americano lasciò Saigonsi avvicinava la fine di unodei più sanguinosi conflitti del Novecento, che avrebbe lasciato sul terreno i corpi straziati di tanti innocenti e di giovani soldati mandati a morire senza un perché. Iniziata ufficialmente nel 1955, la guerra in Vietnam aveva visto intensificarsi l’intervento statunitense nel 1964, con bombardamenti a tappeto e attacchi via terra. Teatro degli scontri era stato in prevalenza il territorio del Vietnam del Sud, dove le forze insurrezionali filo-comuniste ( i Viet cong) si opponevano al regime sostenuto dagli USA.La svolta decisiva avvenne nellaprimavera del 1975, con la campagna di Ho Chi Minh (in vietnamita: Chiến dịch Hồ Chí Minh) ,nome in codice assegnato (in onore del leader storico della lotta per l’indipendenza del Vietnam) all’ultima e decisiva offensiva scatenata dall’Esercito regolare del Vietnam del Nord e dalle forze viet cong del Fronte di Liberazione Nazionale.

 

Il 30 aprile, l’ultimo atto della guerra: la caduta di Saigon e la presa del potere da parte del regime comunista del Vietnam del Nord, che unificò il paese dando vita, il 2 luglio del 1976, alla Repubblica Socialista del Vietnam. Si concluse così uno dei conflitti più feroci del XX° secolo, nel corso del quale vennero usati esplosivi in un numero superiore a quelli utilizzati su tutti i fronti della Seconda guerra mondiale. In più, le forze statunitensi, utilizzarono un nuovo tipo di bombe al napalm, contenenti fosforo bianco e per questo in grado di amplificare gli effetti distruttivi sugli esseri umani e sull’ambiente naturale. Il bilancio finale dei morti consegnò numeri drammatici su entrambi i fronti: 4 milioni di civili e un milione di soldati tra i vietnamiti, 58.226 tra i soldati USA. A tutto ciò si aggiunse un numero imprecisato di feriti, in molti casi rimasti mutilati e invalidi per ilvietnam resto della vita. Sul piano economico le operazioni belliche costarono alle casse di Washington circa 165 miliardi di dollari. I racconti dal fronte dei soldati, scioccati dai massacri di civili e dalla violenza dei combattimenti, colpirono profondamente l’opinione pubblica americana (e non solo), alimentando un ampio movimento pacifista e di contestazione alla politica estera aggressiva degli Stati Uniti, che alla fine influì sul corso degli eventi e portò a cambiamenti epocali nella società; su tutti l’abolizione della leva obbligatoria nel 1973. Nell’ottica della “guerra fredda”, l’esito finale del conflitto sancì una sconfitta bruciante per la superpotenza americana e segnò profondamente la politica estera successiva, vincolando i poteri del Presidente di impegnare truppe su un fronte di guerra all’assenso del Congresso.

 

Quarant’anni dopo, all’indomani dell’ultimo attacco aereo, precedente il ritiro statunitense, le ferite sono ancora aperte. L’impiego del napalm passato alla storia per lo scatto da Pulitzer del fotografo vietnamita NickÚt (una bambina di nove anni nuda e gravemente ustionata, in fuga dal suo villaggio che era stato attaccato da un bombardamento)  e la pioggia di bombe sganciate sul paese hanno lasciato tracce indelebili. Da una parte gli ordigni inesplosi: quasi 800.000 tonnellate in tutto il paese, che ancora oggi mietono vittime fra curiosi e cercatori di ferraglie. Dall’altra l’esercito di vittime che, con le loro deformità,  hanno pagato il prezzo del barbaro impiego del cosiddetto “agente arancio”, il terribile “Agent Orange”, nome in codice che indica il diserbante che gli americani utilizzarono per stanare dalla giungla i Viet cong. In un solo decennio, tra il 1961 e il 1971, l’aviazione militare americana scaricò oltre 43 milioni di litri di “agent orange” e 30 milioni di litri di altri erbicidi sulle giungle del Vietnam del Sud per stanare i Viet cong, privandoli del manto vegetale, e distruggere i raccolti. La Croce rossa vietnamita calcola che fino a 3 milioni di persone sono state colpite, tra i quali 150 mila bambini con malformazioni congenite. Quattro decenni dopo la fine della guerra, l’ong Green Cross  – che sostiene il Vietcot (Vietnamese Training Centre for Orthopaedic Technologists), un centro di formazione in ortopedica ad vietnam2Hanoi, dove vengono curati e seguiti bambini colpiti da queste malformazioni – ha stimato che circa 3.500 bambini all’anno nascono ancora oggi in Vietnam con menomazioni ascrivibili alla contaminazione con l’agente arancio. Un’eredità pesantissima del conflitto, che si traduce anche in altre forme come il disagio psichico, la depressione,il panico come quello che  – nel 1973 – aveva indotto un piccolo e suo padre a fuggire a bombe e raid, per rifugiarsi sugli alberi della giungla, vivendo da eremiti per quarant’anni. Un’incredibile storia che fece il giro del mondo ma che, insieme alle altre, ci parla ancora di questa storia tremenda che il Vietnam non potrà forse mai dimenticare.

 

Marco Travaglini

23 aprile, il giorno del Bardo

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In quella data, nel1564, nacque William Shakespeare e, nel medesimo giorno, cinquantadue anni dopo, morì ( correva l’anno 1616) quello che per tutti è uno dei più illustridrammaturghi e poeti d’ogni tempo

 

Il 23 aprile si potrebbe, volendo, definire come il “giorno del Bardo”. Infatti, in quella data, nel1564, nacque William Shakespeare e, nel medesimo giorno, cinquantadue anni dopo, morì ( correva l’anno 1616) quello che per tutti è uno dei più illustridrammaturghi e poeti d’ogni tempo. Tutto accadde, l’inizio e la fine della vita del più grande “bardo” della Gran Bretagna,  nello stesso paese a nord-ovest di Londra, Stratford-upon-Avon. Ad essere sinceri sui suoi dati biografici c’è parecchia incertezza. Addirittura, il periodo successivo al matrimonio con Anne Hathaway (da cui ebbe tre figli: Susannah e due gemelli, Hamnet e Judith) viene definito dagli studiosi con il termine  “lost years”, gli “anni perduti”, per l’assenza di documenti certi sulla sua vita. Resta il fatto che il suo nome cominciò ad essere popolare in ambito teatrale verso la fine del Cinquecento, periodo a cui risalgono anche i primi poemi come  “Venere e Adone” e “Il ratto di Lucrezia”, e l’inizio dei Sonetti. La fama che lo ha fatto conoscere in ogni angolo del mondo è legata all’ampia produzione teatrale, che conta circa 11 tragedie, 16 commedie e 10 drammi storici, pubblicate tutte nell’arco di un ventennio. Capolavori immortali, tradotti in tutte le lingue, assolutamente straordinari e ricchi di fascino al punto da rappresentare una parte fondamentale del repertorio classico universale: dal dramma storico Enrico VI (1588) alla commedia Sogno di una notte di mezza estate (1595), passando per le famose tragedie di Romeo e Giulietta (1594-1596), Amleto (1600-1602) e Otello (1604). Per non parlare poi  del Giulio Cesare o di Macbeth e la Tempesta. Shakespeare  contribuì, con le sue espressioni linguistiche entrate nell’inglese quotidiano, ad innovare la lingua del paese su cui sventola l’” Union Jack”.

 

Marco Travaglini

Lunedì 15 aprile 1912, l’affondamento del Titanic

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Delle 2.223 persone a bordo (equipaggio compreso), ne sopravvissero 705; gli altri, in gran parte, persero la vita per assideramento, causato dalla prolungata permanenza nell’acqua a zero gradi. Dalle 02.15 il destino del Titanic prese una piega irreversibile: sommerso per metà dall’acqua, lo scafo si spezzò in due e cinque minuti più tardi s’inabissò anche la poppa

 

 La prima classe costa mille lire,la seconda cento,la terza dolore e spavento;e puzza di sudore dal boccaporto,e odore di mare morto…E gira, gira, gira l’elica,e gira, gira che piove e nevica per noi ragazzi di terza classe che per non morire si va in America”. Così nel 1982, Francesco De Gregori, nel suo ottavo album “Titanic, parlava della nota nave passeggeri britannica affondata per la collisione con un iceberg per proporre una metafora dell’umanità che, divisa in classi, si dirige verso il disastro. Tutto accadde, nella storia vera e sventurata del Titanic, nella notte tra domenica 14 e lunedì 15 aprile 1912 , con l’impatto tremendo e il conseguente drammatico affondamento avvenuto nelle prime ore del15 aprile. Una scena apocalittica: l’iceberg come uno spettro bianco nel buio della notte, il violento impatto e l’avanzata incontenibile dell’acqua. Erano le 23.40 e il supertransatlantico, salpato il 10 aprile da Southampton per il suo primo viaggio, si trovava quattrocento miglia a sudest della costa di Cape Race (isola di Terranova, “Newfoundland” in inglese, territorio del Canada). E’ lì che si scontrò con un enorme iceberg: la vedetta Frederick Fleet l’avvistò solo quando era ormai a cinquecento metri di distanza («Iceberg di prua, signore!», gridò), e il primo ufficiale William M.Murdoch ordinò: «Tutto a dritta. Indietro a tutta forza».

 

Ma era tardi e la repentina virata a sinistra si rivelò inutile. Trentasette secondi dopo l’avvistamento avvenne l’urto a prua, sulla fiancata destra della nave, più di un terzo dei sedici compartimenti stagni rimasero danneggiati, a sei metri di profondità l’acqua incominciò a filtrare nella nave che trasportava oltre duemila passeggeri. In poche ore quello che si credeva un colosso inaffondabile si spaccò in due, inabissandosi per sempre sul fondo dell’oceano. Fu un colpo terribile al mito dell’infallibilità del progresso e s’infranse il sogno della Belle Époque. La costruzione del Titanic rappresentò il guanto di sfida lanciato dalla compagnia navale britannica White Star Line ai rivali della Cunard Line, che in quegli anni dominavano le rotte oceaniche con i transatlantici Lusitania e Mauretania. La nuova nave, completata in tre anni nei cantieri Harland and Wolff di Belfast e costata 7.5 milioni di dollari (equivalenti a 167 milioni di dollari di oggi), si estendeva in lunghezza per 269 m e in larghezza per 28 m, con una stazza complessiva di 46.328 tonnellate. Dotata di un motore a vapore, alimentato da 29 caldaie, venne salutata come un “gioiello di tecnologia e di sicurezza”, al punto da ritenerla “praticamente inaffondabile”. Come viaggio inaugurale venne stabilita la rotta da Southampton a New York, via Cherbourg e Queenstown. Preceduto nel nome dalla sigla RMS (che indicava la funzione di servizio postale), il Titanic iniziò il suo viaggio mercoledì 10 aprile 1912. A bordo 1.423 passeggeri più 800 unità di equipaggio agli ordini del capitano Edward John Smith. Le cabine erano divise in tre classi ( come sintetizza bene la canzone di De Gregori). Nella prima, la più lussuosa e il cui biglietto costava 4.350 dollari (83mila dollari di oggi), si accomodarono esponenti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia dell’epoca, come il milionario Jacob Astor IV e l’industriale Benjamin Guggenheim (fratello del titolare dell’omonima fondazione d’arte).

 

Nella seconda, al prezzo di 60 dollari, presero posto gli appartenenti alla classe media. L’ultima si riempì di emigranti che con un biglietto da 32 dollari andavano incontro a una nuova vita nel continente americano. L’evento, abbastanza clamoroso, venne seguito con interesse dalla stampa e dall’opinione pubblica. Nella fretta di partire nei tempi previsti (sempre una cattiva consigliera, la fretta..)  e per alcuni cambi negli ufficiali avvenuti all’ultimo momento, vennero dimenticati i binocoli, costringendo i marinai di vedetta a svolgere a occhio nudo la loro attività. Un elemento che si rivelò fatale nel corso degli eventi. A ciò si unì una smodata frenesia di raggiungere la destinazione nel più breve tempo possibile, che portò a mantenere i motori costantemente al massimo. La velocità non fu ridotta nemmeno dopo la segnalazione fatta pervenire al capitano Smith, nella tarda mattinata di domenica 14 aprile: il messaggio avvertiva della presenza di ghiaccio a 400 km sulla rotta del Titanic. Circa dieci ore più tardi,nel buio fitto di una notte senza luna, le vedette avvistarono  l’iceberg quando ormai era di fronte alla nave. Una distanza che, alla velocità di crociera di 20 nodi (circa 37 km/h), impediva qualsiasi tentativo di evitare l’impatto. Alle 00.27, quando si comprese che la prua del Titanic stava lentamente affondando, venne lanciato un SOS dal marconista Jack Phillips, raccolto dal piroscafo Carpathia, distante 58 miglia dal luogo dell’impatto. La fase delle operazioni di salvataggio fu drammatica! Le scialuppe a disposizione erano soltanto sedici e ognuna poteva contenere fino a 60 persone. Per inesperienza e cattivo coordinamento tra loro, gli ufficiali ne fecero salire in molti casi un numero inferiore, riducendo ulteriormente la quota di passeggeri destinati a salvarsi.

 

Delle 2.223 persone a bordo (equipaggio compreso), ne sopravvissero 705; gli altri, in gran parte, persero la vita per assideramento, causato dalla prolungata permanenza nell’acqua a zero gradi. Dalle 02.15 il destino del Titanic prese una piega irreversibile: sommerso per metà dall’acqua, lo scafo si spezzò in due e cinque minuti più tardi s’inabissò anche la poppa. Nei giorni immediatamente successivi la notizia del disastro scioccò il mondo, creando le premesse per una profonda riflessione sull’episodio che portò alla convocazione della prima conferenza sulla sicurezza delle persone in mare. Le vittime italiane accertate furono 34, in gran parte camerieri residenti in Inghilterra. Il 10 giugno 2001, una domenica, ad Isernia, in Molise, morì Antonio Martinelli. Aveva ottantanove anni ed era ritenuto l’ultimo sopravvissuto del disastro del Titanic. Nato a Boston agli inizi del 1912, ancora in fasce era stato portato in Italia, a Sesto Campano, dalla madre la quale aveva poi deciso di tornare negli Stati Uniti. Il nipote Alessandro raccontò: “Lui parlava volentieri della tragedia del Titanic, raccontava spesso di quella notte della quale aveva saputo tutto, nei minimi dettagli, grazie ai racconti della madre, scomparsa nel 1972, con la quale viaggiava e che riuscì a salvarsi con il suo piccolo Tony. Io e mia madre ci siamo salvati – ripeteva sempre – perché gli ufficiali ordinarono di far salire sulle scialuppe di salvataggio prima le madri con i bambini più piccoli”. Così, l’ultima voce si spense e a “parlare” sono rimaste le migliaia di oggetti: piatti, vasellame, documenti, vestiti ma anche pezzi del leggendario transatlantico, compresa la campana della nave. Ma il Titanic non sarà mai recuperabile. Si consumerà, a poco a poco, nel silenzio dell’oceano.

 

Marco Travaglini