Ottant’anni fa venivano promulgate le leggi razziali con le quali il fascismo escluse gli ebrei dalla società italiana. Ottant’anni sono poco meno di un secolo e da allora sono accaduti un incredibile quantità di fatti e l’intera storia del ‘900 venne influenzata dall’impronta razzista dei regimi totalitari. Ottant’anni dopo va posta grande attenzione verso fatti che possono apparire lontani e che invece hanno una tragica eco ai giorni nostri, quando si scopre che i semi dell’intolleranza e dell’odio, accompagnati dai demoni della supposta supremazia razziale, sono ancora terribilmente vivi e prosperanti. Per contrastare i germi di questa intolleranza che rischiano di moltiplicarsi e crescere, occorre rammentare la storia contemporanea del nostro paese. Una storia che il 14 luglio 1938 vide Il Giornale d’Italia pubblicare il testo intitolato “Il fascismo e i problemi della razza”, più noto come il Manifesto della Razza. Firmato da alcuni scienziati e docenti italiani, quel testo stabiliva inconfutabilmente la suddivisione dell’umanità in razze differenti, l’esistenza di una razza italiana pura, non corrotta dalla presenza di altre popolazioni nonché, all’articolo 9, la non appartenenza degli ebrei alla razza italica. Una tesi rilanciata il 5 agosto 1938 con la pubblicazione della rivista La difesa della Razza, diretta da Telesio Interlandi che, con disegni caricaturali e termini particolarmente violenti e dileggianti, propagandò la narrazione dell’ebreo avido e antipatriottico. Il 18 settembre di quell’anno Benito Mussolini, davanti ad una folla osannante in piazza dell’Unità a Trieste, preannunciò la promulgazione delle leggi razziali dichiarando che “l’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del fascismo”. Le immagini della “fiammeggiante giornata di Trieste”, come la definì la stampa di regime, diffuse allora dall’Istituto Luce e riviste ottant’anni dopo fanno rabbrividire. Trieste non fu scelta a caso, essendo una città dove la componente ebraica era da secoli integrata nella comunità nonostante la propaganda fascista si affrettasse a dipingerla come luogo di infiltrazioni di una “razza avida di lucro”. Quel giorno, con la sua oratoria tribunizia, Mussolini proclamò che il “problema razziale” era di “scottante attualità” e che sarebbero state adottate “le soluzioni necessarie”. Cosa che effettivamente avvenne con il Regio decreto n. 1728 – Provvedimenti per la difesa della razza italiana – del 17 novembre 1938, firmato dal Duce e dall’allora re Vittorio Emanuele III. Le cosiddette “leggi razziali” rappresentarono di fatto un corpus di provvedimenti legislativi che sancirono, per i cittadini italiani “di razza ebraica”, la progressiva privazione dei più elementari diritti civili.Nei primi anni ‘30 si stimava che ci fossero 13 milioni di ebrei in Europa, dei quali circa 40 mila in Italia. Ottant’anni fa questi cittadini italiani diventarono progressivamente vittime di un “razzismo di Stato”, tramite leggi discriminatorie a livello sociale ed economico e, in un secondo momento, con la violenza vera e propria. Mussolini e il fascismo si adeguarono così alla legislazione antisemita della Germania nazista dove il Führer, Adolf Hitler, fin dall’ascesa al potere nel 1933, varò una serie di provvedimenti contro gli ebrei. Veniva così compiuto un altro dei drammatici passaggi che culminarono nell’Olocausto, con lo sterminio di 6 milioni di persone, compresi donne e bambini. In realtà vi fu un antefatto per l’Italia, un precedente datato 19 aprile del 1937. Quel giorno vennero varate le prime leggi razziali con il Regio Decreto Legislativo numero 880. Si applicarono in Africa Orientale e vollero segnare la superiorità degli italiani rispetto ai sudditi delle colonie italiane in Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia. Le conseguenze di quelle leggi, che di fatto aprirono la strada a quelle contro gli ebrei, produssero forti discriminazioni e torti. Tornando alle leggi razziali emanate nel ’38, quest’ultime riguardarono tutti gli aspetti della vita politica e sociale, con l’intento di discriminare la componente ebraica del paese, compresi quegli uomini e quelle donne che avevano abbracciato il fascismo dei primi anni. Agli ebrei fu impedito di prestare il servizio militare e di iscriversi al PNF; vennero licenziati dalleamministrazioni pubbliche senza possibilità di accedere ad alcun tipo di sussidio. La stessa sorte toccò ad altre categorie di lavoratori: liberi professionisti , impiegati degli istituti di credito, persino agli ambulanti vennero revocate le licenze per l’esercizio delle attività. I matrimoni misti, che negli anni ’30 avevano toccato il 30%, vennero proibiti. Vie, luoghi, cognomi ebraici sparirono da libri ed elenchi telefonici. Opere scritte da autori ebraici vennero messe all’indice. Studenti e professori dovettero lasciare le scuole, le accademie, gli atenei senza più possibilità di rientrarvi fino alla caduta del fascismo. Nel 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, le leggi razziali si inasprirono e furono abolite soltanto nel gennaio del 1944 nella parte meridionale dell’Italia, dove si era installato il governo Badoglio. Nel resto del Paese, dove spadroneggiava la Repubblica Sociale di Salò, continuarono ad essere efficaci, con tutte le conseguenze drammatiche. Sono passati 80 anni e qualche volta pare che la memoria non abbia “vaccinato” il mondo dalla follia razzista. Eppure proprio il timore che la storia possa ripetersi, il fatto che oggi riaffiorino fenomeni e comportamenti che si pensavano sopiti, scomparsi, deve suggerire di non chiudere gli occhi o voltare lo sguardo altrove, approfondendo la conoscenza di una delle pagine più scure e vergognose della storia italiana.
Marco Travaglini