Era il novembre del 1966, il palcoscenico del Carignano si era affollato della fisicità di oltre una cinquantina di attori – italiani tedeschi polacchi ungheresi francesi per essere Jean, Schlome, Adler, Nogalla, 018, Samuelidis, Wachsmann, il dottor Pannwitz per il suo esame di chimica – nella prima trasposizione teatrale di Se questo è un uomo cui lo stesso Primo Levi aveva contribuito, Umberto Ceriani principale interprete, Gianfranco De Bosio regista, le scene a ricreare il campo di Auschwitz di Gianni Polidori. Oggi, sullo stesso palcoscenico, con una produzione che racchiude TPE – Teatro Piemonte Europa, il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e il Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Walter Malosti regista e interprete raccoglie e restringe in se stesso ogni ricordo, i brandelli di una memoria mai assopita, la disperazione e la forza, il desiderio e la sfibrante necessità a guardare avanti. È un lungo viaggio il suo, dopo il campo di raccolta di Fossoli nel febbraio del ‘44, le ore all’interno del treno che lo sta portando al campo della morte, la interminabile permanenza tra la violenza di ogni giorno, l’arrivo dei russi liberatori nel gennaio e nell’aprile del ’45 il suo ritorno inaspettato a Torino, tra le facce dei suoi, increduli, in un letto che per un attimo gli risuona persino ostile: un uomo con la sua valigia accanto, un bell’abito indosso e un cappotto grigio che continua ad aprire e a richiudere, un gesto qualunque, sbadatamente, mai con rabbia, che si toglierà soltanto nel finale, con l’arrivo appunto. Ma inciso sul braccio, una ferita più intima, lo stesso numero, il 174 517 (“L’operazione è stata lievemente dolorosa, e straordinariamente rapida: ci hanno messi tutti in fila, e ad uno ad uno, secondo l’ordine alfabetico dei nostri nomi, siamo passati davanti a un abile funzionario munito di una specie di punteruolo dall’ago cortissimo”), per sempre.
Addentrandosi con la stretta collaborazione di Domenico Scarpa in questa “condensazione scenica”, Malosti tralascia del romanzo di Levi l’edizione del 1947, uscita a Torino da De Silva, per considerare quella apparsa undici anni dopo da Einaudi, definitiva nei suoi diciassette capitoli e con la sua trentina di pagine in più (e Scarpa traccia nel programma di sala un bellissimo quanto efficace excursus dei passaggi e delle tracce, dei rimandi e delle citazioni che arricchiscono l’opera). Nell’unità interpretativa la componente che maggiormente incide nello spazio teatrale è la voce, (ri)vissuta oggi (“mite e salda”) a trasportare a noi la tragedia di ieri e a trasportare noi dentro il suo freddo e sanguinoso interno. Una voce che si fa racconto, il diario scritto per lunghi mesi tra le baracche (in quella “città dolente” di dantesca memoria), e che frammentandosi in mille isole linguistiche ancora disperatamente sonore si fa memoria e interpretazione della babele del campo, degli ordini buttati ripetutamente in faccia, delle parole incomprensibili, delle percosse e delle minacce, e ancora delle porte con i loro cigolii o sbattute, dello sferragliare del treno, dell’esplodere delle sirene, delle spiate e delle urla; come dei debolissimi ma rasserenanti momenti di pace, e allora ti aspetti il canto di Ulisse, ed eccolo lì, e la spiegazione alla curiosità e all’intelligenza di Pikolo, che ha avuto un inizio (“Aujourd’hui c’est Primo qui viendra avec moi chercher la soupe”), “sotto un chiaro cielo di giugno”, che attraversa i buchi della memoria e il desiderio di tradurre in un modo esattamente comprensibile e più che sia possibile preciso anche i piccoli termini o quelle parti che non reclamano l’ovvio, con la gioia di rivestire quelle parole alla dura realtà del tempo, “scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso” ad esempio: per domani rialzarsi.
Ad acustizzare quello che è stato definito “il più bello e il più atroce libro di avventure del ventesimo secolo”, ci ha pensato il progetto sonoro di Gup Alcaro: perfetto, immediato, del tutto convincente. Capace di afferrarti, di renderti pienamente partecipe. Le visualizzazioni sono di Luca Brinchi e Daniele Spanò, mentre la scena firmata da Margherita Palli traduce un “cortocircuito visivo” tra la memoria del lager e le “nostre tiepide case”. Ripensando alla tragedia greca, Malosti, oltre ai tre interventi fisici di Antonio Bertusi e Camilla Sandri, ha ideato con Carlo Boccadoro tre madrigali originali avvalendosi delle poesie che Levi scrive nel 1945-46, immediatamente dopo il ritorno dal campo. Al Malosti interprete – due ore in scena in una solitudine che ha dell’eroismo – va infine dovuta appieno la capacità di far proprio il personaggio, la stretta immedesimazione, la volontà e la passione, l’uso esatto dello strumento vocale, il suo altalenarsi e i continui mutamenti, leggeri o profondi essi siano, la precisione dei gesti, piccoli o impercettibili, la padronanza del corpo, la bellissima prova che cattura finemente l’unione di pensiero e parola. E la parola, alta e civile, è quella delle pagine di Primo Levi, testimone del suo tempo e ancora del nostro.
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Tommaso Le Pera