IL RACCONTO- Pagina 6

Lo schioppo del “Butta la chiave”

La moglie, Dorina, dopo anni e anni di rassegnazione aveva deciso di “prendere provvedimenti”. Ed il più “gettonato” – e più efficace – tra questi consisteva nel lasciar fuori dall’uscio il marito ubriaco.

“Che stia in giro tutta notte, così smaltisce i fumi dell’alcool e si rende conto che sarà bene darsi una regolata, d’ora in poi”. A volte s’ingegnava a raggranellare qualche lira, accettando dei lavoretti di straforo. Fu uno di questi lavoretti a creare il guaio con l’Oreste Marluschini. Quest’ultimo aveva un grosso problema da risolvere: il suo camino non “tirava bene”.

Quando arrivava sotto casa , dopo una serata passata  con gli amici al circolo dove – immancabilmente – alzava un po’ troppo il gomito, erano urla e strepiti. Giacomo Rubagoni, muratore di origini bresciane, si era guadagnato così il soprannome “Butta la chiave”. La moglie, Dorina, dopo anni e anni di rassegnazione aveva deciso di “prendere provvedimenti”. Ed il più “gettonato” – e più efficace – tra questi consisteva nel lasciar fuori dall’uscio il marito ubriaco. “ Che stia in giro tutta notte, così smaltisce i fumi dell’alcool e si rende conto che sarà bene darsi una regolata, d’ora in poi”. Giacomo, ovviamente, non si rassegnava e si metteva ad urlare, sotto al sua finestra, la solita frase: “Butta la chiave,Dorina. Butta la chiave, boia d’un ladàr”. Bussava al portone, spaventava il cane del geometra Grillo  – mettendosi a latrare come un indemoniato – destava anche gli altri cani del vicinato che a quel punto formavano una vera e propria “cagnara”. Il “Butta la chiave” si sgolava ma Dorina da quell’orecchio non ci sentiva proprio. La chiave del suo cuore il marito l’aveva persa da tempo e lei non l’aveva ancora messo all’uscio solo per non dar sfogo alle malelingue. Ma da qui a sopportare le scenate dell’uomo, eh no: questo proprio non lo sopportava. O meglio, non lo sopportava più dopo averlo subito per tante, troppe volte. Sapeva bene che  Giacomo, ubriaco e traballante, aspettava solo il dischiudersi della porta per  attaccar briga e fare la  solita scena-madre. Così, il “Butta la chiave”, esaurita la scorta d’ossigeno che gli era rimasta dopo le libagioni e le urla, accortosi ormai dell’inutilità di quel suo gridare alla luna, se ne andava mestamente verso il lungolago. In questi casi ( cioè due o tre volte – in media – alla settimana ) si acconciava a passar la notte, come diceva all’indomani della sbornia, “in emergenza”. Quando il clima era più mite scendeva  giù per la scaletta che portava all’attracco delle barche sotto la passeggiata, sdraiandosi – preferibilmente – sull’assito della “Bella Gioia”, la barca del Carlìn “Frances”. Pescatore a tirlindana, il “Frances” ( che si era guadagnato il soprannome scaricando merci al porto di Tolone, in Francia) lo svegliava, scuotendolo, al rintocco delle cinque. E Giacomo, sbadigliando e “cristandogli” dietro, se ne andava a zonzo.

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Se, invece, faceva freddo e dal Mottarone veniva giù una bella “brisa” , s’infilava nel fienile del Mariolino “legnamèe”. Non era tanto distante: bastava salire verso Roncaro e ci si sbatteva quasi contro, in cima alla salita, dove finiva l’acciottolato. L’impresa più ardua era salire sulla scala di legno stando attenti a misurare i passi sugli scalini, aggrappato come un’edera al mancorrente. Sbagliarne uno significava farsi del male e Giacomo non si era fatto mancare nemmeno questo: grazie all’incrinature delle costole ed alle botte che gli avevano procurato dei bei “morelli” ( “le ecchimosi”, “gli ematomi”,avrebbe detto il dottor Segù) , ora “sentiva il tempo” che era un piacere. Ma il più delle volte, gli andava bene e si sdraiava sul fieno asciutto, vicino alla botola che dava sulla stalla. Era il posto migliore, grazie al tepore delle vacche che saliva da sotto. E lì sì che ronfava alla grande. Nessuno gli “rompeva le balle” fino al mattino tardi e la “ciucca” si smaltiva via liscia, senza il trauma del risveglio “forzato”. Se non avesse avuto il brutto vizio del bere, Giacomo Rubagoni sarebbe diventato, senza problemi, un buon capomastro. Ed invece, era rimasto seduto sul gradino più basso, quello del “magutt”, del muratore semplice. Oddio, non che fosse un disonore: quella del muratore era una professione non solo dignitosissima ma di grande utilità. Nel suo caso poi, grazie alla buona pratica ed al fatto che non si tirava indietro quando c’era da faticare, la “quindicina” che portava a casa dalla Dorina era tutt’altro che magra. Ovviamente , sua moglie provvedeva quasi subito a sequestrarla, evitando così che finisse in breve nelle tasche del Braschi, il banconiere del circolo, o del Luisin dell’Osteria di Quattro Cantoni. Lui borbottava un po’ ma non opponeva  che una debole ed incerta resistenza. A volte s’ingegnava a raggranellare qualche lira, accettando dei lavoretti di straforo.

Era il suo “argent de poche”: pochi spiccioli da trasformare in altrettanti calici di rosso del Monferrato. Fu uno di questi lavoretti a creare il guaio con l’Oreste Marluschini. Quest’ultimo aveva un grosso problema da risolvere: il suo camino non “tirava bene” ed il fumo, invece di uscire dal comignolo,”tornava indietro”, affumicando l’intera cucina. Aveva provato a pulirlo da solo ma senza successo. Di spazzacamini non ce n’erano in giro più. Non era più l’epoca in cui i piccoli rüsca, i bambini-spazzacamini, grazie alla loro esile statura riuscivano ad infilarsi nelle cappe , manovrando al buio con raspa e scopino, liberandole da scorie e fuliggine. Giacomo e Oreste provarono con gli attrezzi che aveva fornito loro l’anziano Umberto Rombini, che da giovane aveva fatto quella vita. Così, s diedero da fare con la raspa, il brischetin (lo scopino), il riccio ( un attrezzo di lame di ferro a raggiera, per raspare le canne fumarie ). Il Giacomo si era persino infilato nel camino, mettendosi in posizione quasi eretta dentro la cappa. Non vide, ovviamente, un fico secco e ne uscì “negar cuma’n scurbatt”, nero come un corvo, come una cornacchia. Non sapevano più che fare quando all’Oreste venne un’idea brillante: tirar via la pioda di sasso che chiudeva il comignolo e, da sotto, sparar su una scarica di pallettoni. Se c’era qualche impedimento, la fucilata avrebbe contribuito a disintegrarlo. Divisi i compiti ( l’Oreste sul tetto a rimuovere la copertura, il Giacomo con la doppietta in mano, pronto a far fuoco dentro al camino), procedettero. La piega che presero i fatti non fu, però,  quella desiderata. Nel spostare la “pioda”, all’Oreste – che stava a gambe larghe sul camino, puntando le gambe per “far forza” – sfuggì un “oooh!” che venne interpretato da Giacomo come il segnale del via. Seguì lo sparo, accompagnato all’istante dal grido di dolore di Oreste che finì investito dai pallettoni proprio nelle parti basse. Soccorso dall’amico e trasportato poi in ospedale, l’Oreste riportò a casa la ghirba ma non fu più , come dire, quello di prima. Nonostante l’incidente i due restarono amici e continuarono a frequentare il circolo e la stessa compagnia. Ad uno restò il rimpianto dell’ aver avuto quella sciagurata idea, all’altro la consolazione di non esser stato lui a fare quella bella “pensata”. All’Oreste, oltre al ricordo, rimase il problema di non aver più qualcos’altro.

 

Marco Travaglini

Polenta e coniglio

Difficile, per noi,  far politica in valle. A l’è  düra cume un ciod, cari miei…è dura come un chiodo”. Sconsolato, con il capo a ciondoloni, Mario dava voce alla sensazione che ci eravamo fatti un po’ tutti, alla sezione omegnese del PCI

 Diffidenti, poco inclini a prestar orecchio ai forestieri quant’anche venissero dal fondovalle, da Omegna e non da chissà dove, gli abitanti di Germagno, Loreglia, Strona e Massiola – frazioni comprese  – erano oltretutto legati a doppio filo ai loro parroci. Se, qualche anno prima, durante i mesi duri della lotta partigiana e nell’immediato dopoguerra, qualche spiraglio c’era, in quest’autunno del 1949 era scesa su noi un’opprimente  cappa di silenzio e di ostilità. Che fossero un po’bigotti e baciapile era risaputo ma, dopo la pubblicazione del decreto del Santo Uffizio con cui s’annunciava la nostra scomunica, ci fecero attorno terra bruciata. In tutti i paesi era stato affisso dalla Curia Vescovile un manifesto grigiastro che recitava, parola per parola, così: “Avviso. E’ peccato grave: 1) Iscriversi al Partito Comunista; 2) Favorirlo in qualsiasi modo, specie col voto; 3) Leggere la stampa comunista; 4) Propagare la stampa comunista. Quindi non si può ricevere l’assoluzione se non si è pentiti e fermamente disposti a non commetterlo più. Chi, iscritto o no al Partito Comunista, ne ammette la dottrina marxista, atea ed anticristiana e ne fa propaganda, è APOSTATA DALLA FEDE E SCOMUNICATO e non può essere assolto che dalla Santa Sede. Quanto si è detto per il Partito Comunista deve estendersi agli altri Partiti che fanno causa comune con esso. Il Signore illumini e conceda ai colpevoli in materia tanto grave, il pieno ravvedimento, poiché è in pericolo la stessa salvezza dell’eternità”. Parole come pietre, che non ammettevano replica e bollavano a fuoco chi, come noi e come i socialisti, provavano a dire la loro all’ombra di quei campanili. Ma ci voleva ben altro per scoraggiarci e così, insieme a Mario e agli altri, cercammo di escogitare uno stratagemma. Di incontri pubblici manco a parlarne. Ci avevamo provato più volte ma, una volta trovata a fatica la sala,  andavano quasi deserti. Gli unici partecipanti, in tutta la valle, erano sei reprobi che ogni volta osavano sfidare gli sguardi di condanna, rispondendo all’appello del partito. Erano Giuseppe Pialla e suo fratello Carlino, entrambi operai di fonderia alla Cobianchi, due cugini boscaioli che stavano a Luzzogno, i Giovannini, originari della Valsesia, il vecchio Libero, ex fuochista delle ferrovie, e suo cognato Lorenzo, detto “Lorenzone pignatta”. Quest’ultimo, tra i più bravi gratagamul  della”val di cazzuji“, la valle dei cucchiai di legno, era uno di quei artigiani che , come il mastro Geppetto di Pinocchio, da un tronco ricavava qualsiasi oggetto. Tutti e sei rappresentavano il passato e il presente dei comunisti in valle. E, se non si escogitava qualcosa per allargare il cerchio, anche il futuro. Fu proprio il “pignatta” ad avere l’illuminazione, complice la sua fama di gran mangione testimoniata dai suoi centotrenta chili per un metro e sessanta scarsi d’altezza. Non propriamente una silhouette, la sua, considerato che era più largo che alto. “Polenta e coniglio! Ecco cosa ci vuole”, sbottò Lorenzone dandosi una manata in fronte. In breve fummo tutti informati della bella pensata. “Statemi a sentire. Se non li possiamo prendere per la coscienza, visto che rispondono solo a quella che gli inculca il prete, proviamo a stimolar loro l’appetito, prendendoli per la gola”. Propose, quindi, di organizzare una serata  al Circolo di Fornero , invitando tutti ad una cena a base, appunto, di polenta e coniglio. Per i primi, si rese disponibile il Magretti che, a Borca, in fondo a via Repubblica, ne allevava almeno tre dozzine. “Per il partito ne metto a disposizione un terzo, va là…a prezzo politico, s’intende”. La polenta era affare di Libero e del “Pignatta” che avevano ereditato dallo zio Franchino un enorme paiolo di rame che faceva proprio al caso loro. Così, aiutati dai compagni, si misero all’opera. Vennero preparati dei grandi manifesti dove, appena sotto la data, il posto e l’ora, in piccolo si poteva leggere la frase “Incontro pubblico con l’onorevole Figurelli” e in grassetto, a caratteri cubitali da riempire per più della metà lo spazio, l’irresistibile richiamo: “Polenta e Coniglio”. L’idea era piaciuta al nostro deputato che, memore della sua esperienza di comandante partigiano, era sempre pronto a ricercare le strategie migliori per ottenere il risultato desiderato. “ Il fine giustifica i mezzi, cari compagni”, sentenziò, parafrasando il Macchiavelli e allungano una gran manata sulla spalla del “Pignatta” che gongolava dalla felicità, potendo rivendicare la paternità dell’idea .La sera della cena fu un successo inaspettato. Parteciparono più di ottanta persone e due terzi erano della valle. Alla fine, sazi e un po’ su di giri grazie alle due damigiane di vinello sacrificate sul campo di battaglia, la maggior parte applaudì il breve discorso dell’onorevole Figurelli.  Se, come dicevano in sacrestia, “nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede e Stalin no”, per quanto riguardò il salone del Circolo – non essendo sede di seggio e nemmeno periodo d’elezioni –  ci fu senz’altro una deroga, suggerita dalla fame e dal profumo che emanava  dall’azzeccato connubio tra la fumante polenta e il coniglio in umido. In fondo, si disse in paese, “i comunisti non sono poi così cattivi come dice il Don Gaudenzio. Non hanno mangiato nessuno ma semmai hanno dato loro da mangiare. La prossima volta chissà che cosa porterà in valle quell’onorevole. Magari trote in campione e frittura d’alborelle… Va là che dev’essere una brava persona anche lui, nonostante sia un po’ mangiapreti”.

Marco Travaglini

 

Luce rossa ad est

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A Firenze, in occasione del 17° congresso del Pci, nella prima metà dell’aprile 1986, erano stati invitati quasi tutti i veterani.

A loro erano stati riservati anche degli eventi  “collaterali”  pensati per il gruppo di iscritti che avevano condiviso le sorti del più grande partito della sinistra italiana fin dal 1921, anno della fondazione del Pcd’I a Livorno. Erano i reduci della pattuglia che il 21 gennaio di quell’anno, abbandonando il teatro Goldoni dove si teneva il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano per raggiungere il Teatro San Marco con la frazione comunista capitanata da Amadeo Bordiga (alla presenza, tra gli altri, di Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti) avevano contribuito alla nascita del Partito comunista d’Italia che di lì a poco entrò in clandestinità a causa della vittoria del fascismo. In molti, sopravvissuti alle guerre del ‘900 e a mille peripezie, era rimasto nitido il ricordo di quell’evento che si consumò nel cuore del vecchio quartiere livornese della Venezia dove sorgeva il teatro San Marco, distrutto durante i bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, del quale rimanevano solo i resti della facciata principale e di alcuni muri perimetrali. C’era sempre chi, nelle ricorrenze, depositava qualche fiore davanti alla lapide commemorativa che era stata collocata nel 1949 dai comunisti livornesi per il 28° anniversario. Come già detto, il 17esimo congresso nazionale comunista al Palazzo dello sport fiorentino (oltre mille delegati, 105 delegazioni estere, 1500 invitati, 586 giornalisti accreditati), aperto dalla relazione di Alessandro Natta che aveva assunto la guida del partito dopo la tragica morte di Berlinguer, aveva riservato alla “vecchia guardia” delle iniziative specifiche. Dibattiti, visite guidate alla città che ospitava i capolavori dell’arte e dell’architettura rinascimentale e sui celebri colli che la circondavano, appuntamenti gastronomici e mostre. Il folto calendario prevedeva anche una proiezione di un film cecoslovacco semiclandestino che celebrava la primavera di Praga. Mario ( useremo un nome di fantasia, celando la vera identità del protagonista – NdR) , classe 1899, comandante partigiano che a dispetto dell’età non aveva scordato il suo passo garibaldino, terminata la cena imboccò il viale che portava al cinema Moderno dove era prevista la visione della pellicola.

Il cartellone davanti al cinema non riportava titolo o immagini ma solo una grande scritta rossa in campo bianco sul manifesto 70 x 100: Luce Rossa. Mario che era stato l’ultima volta al cinema un bel po di anni prima per assistere alla proiezione di Riso amaro, spettacolare capolavoro del neorealismo girato interamente con le mondine  nelle risaie vercellesi. Un film-culto, diretto da Giuseppe De Santis nel 1949, con una superba e sensuale Silvana Mangano, Vittorio Gassman e Raf Vallone. Evidentemente anche questa pellicola aveva un tratto sociale ben marcato e lo stesso titolo, quel Luce Rossa che nella sua disarmante semplicità faceva intravedere l’inequivocabile messaggio politico che la trama senz’altro avrebbe offerto al pubblico che già s’immaginava ben folto e ancor meglio orientato. Appena varcato la soglia del cinema, incontrò nell’atrio una signora bionda che non aveva certo risparmiato il trucco sul suo volto non più freschissimo. Vedendo Mario puntare deciso verso il pesante tendone verde scuro che chiudeva l’accesso alla sala, la signora uscì dal botteghino rivolgendogli un acuto “Senta un po’ , lei. Dove crede di andare, senza il biglietto?”. Mario, sfoderando un largo sorriso, rispose: “Mi hanno detto che il biglietto non serve, bella signora. Sono un veterano!”. La bionda rimase di stucco, incapace di reagire. E lui entrò, salutandola con un garbato inchino. Il giorno dopo, a chi gli chiedeva come fosse stato il film, non ebbe dubbi. “ Ci sono stati molti cambiamenti in Cecoslovacchia. Ho intravisto grattacieli altissimi ma soprattutto delle scene che non avrei mai pensato che fossero possibili in un film. Ho ottantasette anni ma così tanti seni e sederi, in vita mia, non ne avevo mai visti e per di più tutti insieme. Se quella è stata la primavera, chissà come sarebbe stata calda, anzi torrida, l’estate da quelle parti”. Nessuno osò ribattere. Nemmeno per comunicare al malcapitato che aveva sbagliato posto e serata.

Marco Travaglini

Notte brava al “Calamaro Jazz”

L’idea di andare a fare una scampagnata a Genova era venuta allo Sterlazza. “Una bella botta di vita ce la siamo ben meritata, no?”, esordì alla riunione della Sezione di Zerbolò, appoggiato al bancone del baretto mentre sorseggiava una regolarissima “panaché”, con tre quarti di birra e uno di gazzosa.

In fondo, oltre alle riunioni, ai tornei di calcetto nei paesi della Lomellina e alla Festa de L’Unità, qualche puntata a Pavia o Mortara, la loro vita – dello Sterlazza e dei suoi amici – si consumava tutta lì, tra casa, campo sportivo, circolo Operaio e sezione intitolata a Gaspare Lunelli, comandante partigiano del pavese . L’organizzazione del viaggio verso il mare venne assegnata a Gaudenzio Sparagnetti, sacrestano di San Bartolomeo, detto il “cattocomunista”.

Per risparmiare era stato scelto il treno, da Pavia ad Alessandria e da lì dritti verso Frugarolo,Novi, Serravalle, Arquata, Ronco Scrivia e – finalmente! – Genova, la Superba. La visita alla città e il pernottamento si stabilì fossero compito dello Sterlazza, che vantava maggior dimestichezza con le “cose di mondo”, come diceva spesso, aggiungendo la sua intercalazione preferita: “Cavolo in fiore!”. Così, Sparagnetti, Sterlazza e Vito Sangiusti, il custode del campo sportivo di Zerbolò e factotum del Comune ( era l’unico dipendente e s’arrangiava in tutti i ruoli, dal messo all’operatore ecologico), partirono all’avventura. Giunti a Novi ligure, Sterlazza abbassò il finestrino del vagone e, respirando avidamente l’aria, esclamò: “Cavolo in fiore! Si sente già l’odore del mare. Sentite che roba!”. Amleto Scavardi, capostazione di Novi, lo guardò dalla banchina scuotendo la testa. Era giorno di mercato e lì, a pochi passi dalla stazione, sostavano l’acciugaio di Masone e il pescivendolo di Arquata, con i loro prodotti e i loro “profumi”. Ma l’entusiasmo dello Sterlazza era incontenibile . “E’ il vento che scende dal Turchino che porta fin qua l’odore del mare. Bello, eh?”. Gridava con voce tonante, sferrando tremende manate sulle spalle di Gaudenzio che subiva l’irruenza del compagno, emettendo lievi lamenti. A Genova Principe, appena usciti dalla stazione, s’incamminarono verso il Porto antico e da lì, per tutta la giornata, si persero tra i carruggi dei sestieri del centro storico, tra scalinate e bettole, il Lagaccio e Prè, la Maddalena e San Nicola, fino a Sampierdarena e alla Lanterna. Finirono la serata in un night-club e poi, stanchi e su di giri,a dormire in un alberghetto di Piazza Caricamento dove, a dire dello Sterlazza, si pernottava con poca spesa. Al loro ritorno furono in tanti i zerbolesi che, in preda alla curiosità e rosi dall’invidia, vollero sapere per filo e per segno i particolari di quel viaggio verso la città del mare. I tre non si fecero pregare e raccontarono le loro peripezie genovesi con un’enfasi che nemmeno Marco Polo fece trasparire dalle cronache dei sui viaggi raccolte ne “Il Milione”. Cos’avevano mangiato e bevuto, quali vie, monumenti e chiese avessero visitato e poi le persone incontrate, le cose curiose, il viaggio. Gaudenzio e Vito rispondevano alle domande un po’ intimiditi, quasi schernendosi. Sterlazza, invece, si sentiva a suo agio nel ruolo del narratore e teneva banco con la sua voce acuta e un po’ sgraziata, mitragliando a destra e sinistra i suoi “cavolo in fiore”, pavoneggiandosi per l’idea della trasferta in terra ligure. Alla domanda di Eugenio su quale fosse stata la cosa più incredibile che era capitato loro di vedere, si trovarono d’accordo su di un fatto accaduto quando,a sera inoltrata, erano finiti in quel locale notturno. Lì, mentre Sparagnetti e Sangiusti sorseggiavano l’ultimo amaro della giornata, Sterlazza era andato in bagno per espletare delle impellenti necessità idrauliche e lì, con grande sorpresa, si era trovato di fronte ad un water luccicante. “Non era di ceramica ma d’oro! Stupiti, eh? Era proprio un cesso d’oro zecchino. E io l’ho fatta lì. Che città, Genova!”. Sterlazza gonfiava il petto, compiaciuto. E chi lo ascoltava rimaneva lì, a bocca aperta. Così, in un crescendo di particolari che, con il passar del tempo, diventarono sempre più straordinari e unici, altri tre o quattro del paese decisero di avventurarsi a Genova sulle orme dei tre concittadini che, come esploratori, avevano aperto i loro occhi su di un mondo nuovo e meraviglioso. Detto e fatto, partirono e – giunti a Genova –  girarono per la città, guidati dallo Sterlazza che si era offerto come capo-comitiva. “Mi raccomando, non perdetemi di vista. Fate come facevano gli scout quand’ero giovane, eh. Seguire il capo senza indugio e senza troppe domande che vi faccio vivere io un’esperienza indimenticabile”. Sterlazza li portò ovunque ma non riuscì a trovare il locale dotato di quella rarità. Solo a tarda sera, ormai stanchi e un po’ sfiduciati, raggiunsero il “Calamaro Jazz”. Era quello il locale dove i sanitari erano del prezioso metallo, assicurò il Sterlazza. Entrarono e, dopo aver consumato, si avvicendarono al bagno senza però trovare il prezioso vaso sanitario. Che non fosse il locale giusto? Eppure Sterlazza era quasi certo di non sbagliare. Quasi, a dire il vero. Così, per togliersi ogni dubbio, avvicinandosi con cautela ad un cameriere, sussurrò: “Senta, mi sa dire dov’è il cesso d’oro dove, un paio di settimane fa, mi è capitato di fare i miei bisogni?”. “Ah, il cesso d’oro”, eh..rispose, sorridendo, il cameriere. E, ad alta voce, si rivolse ad uno degli orchestrali che stavano provando i loro strumenti:” Mario, vieni un po’ qui. Ho trovato quello che ti ha pisciato nel sassofono”. Cacciati a malo modo dal “Calamaro Jazz”, la comitiva degli zerbolesi tornò al paese. Il più mogio e silenzioso era proprio quel “cavolo” dello Sterlazza. E dire che poteva vantare un mezzo record: nessuno prima e nemmeno dopo di lui riuscì a fare ciò che aveva fatto, soddisfando in quel modo le sue più intime necessità.

Marco Travaglini

Ne è valsa la pena?

Faceva freddo in quella stalla abbandonata. Dai muri tirati su a secco entrava un’aria gelida, sibilata dal vento che quella notte di fine inverno del 1944 turbinava neve. Attorno a quel tavolo di fortuna, combinato da due vecchie assi poggiate su malfermi cavalletti di legno ci trovammo a parlare del futuro, di ciò che ci attendeva. Eravamo in tre: io, Giorgio e Renato.

La cera liquefatta della candela si era rappresa in pallide lacrime e le parole scorrevano veloci. Quando sarebbe finito l’incubo della guerra, dell’occupazione dei tedeschi, dell’arroganza dei fascisti della repubblica sociale con quei ghigni e i simboli delle teste da morto? L’Italia sarebbe tornata come prima del fascismo o sarebbe cambiata davvero? Certo, volevamo la libertà ma non si combatteva solo per questa ragione. “Il nostro obiettivo è tenere insieme, come una cosa sola, libertà e democrazia”, diceva Giorgio. “ Non è possibile che le cose rimangano come ai tempi dello Statuto Albertino. Non basta che ci sia un sovrano che conceda di sua iniziativa, che bontà, i diritti al popolo. Anzi. Non va nemmeno bene che ci sia un Re, la monarchia, i Savoia a decidere e comandare. Quelli sono scappati all’8 settembre lasciandosi alle spalle un paese dilaniato, distrutto, occupato. Prima hanno aperto le porte al Duce, poi all’avventura della guerra, lasciando l’esercito in rotta, e ora dovremmo accoglierli ancora, perdonando tutto? Nemmeno per idea!”. Picchiò un pugno sul tavolaccio, facendo tremare la candela che prontamente presi al volo. Su quel punto eravamo tutti d’accordo: non avevamo preso le armi per cacciare fascisti e tedeschi e poi tornare ad essere sudditi. C’erano giornate in quel duro inverno dove si aggiravano gli occupanti armati fino ai denti, e non era il caso di uscire allo scoperto; altri ancora dove si preparava o si effettuava un agguato o un’azione particolare.

Nei lunghi periodi di inattività eravamo impegnati anche in grandi discussioni dove si parlava del futuro, di come lo si immaginava. L’idea su cosa avrebbe dovuto essere il domani, anche per istinto, non era certo riflessa dalle immagini del passato, di prima del fascismo, ma autorizzava ad immaginare l’avvento di qualche cosa di completamente diverso che chiamavamo genericamente democrazia, cioè un Paese senza dittatura, senza imposizioni, senza violenza. A volte penso a quella sera e alle altre passate a discutere, quando l’inattività era obbligata dal bisogno di attendere o dalle pessime condizioni del tempo, e  vedendo quest’Italia piatta, meschina, ignorante mi scopro a pensare chi ce l’avesse fatto fare. Poi, superato lo scoramento, mi vengono in mente le parole di Renato quando diceva che non bisognava illudersi, che le cose sarebbero sì cambiate ma che non c’era conquista che sarebbe stata ottenuta una volta per tutte, che per noi che volevamo cambiare la società, che aspiravamo a cambiare il mondo non ci sarebbe mai stato congedo.  Quante volte ci siamo ritrovarti da anziani in tutti questi anni. Noi, i sopravvissuti, con i capelli bianchi e le ossa stanche. Noi che avevamo fatto saltare i ponti; con queste mani tremanti che un giorno avevano lanciato bombe a mano. Condividendo paure, ansie e speranze con quelle ragazze dallo sguardo deciso che da signore, madri, nonne e bisnonne è diventato più dolce e mite, capaci  in quei tempi da lupi di nascondere pistole, portare messaggi, ospitare e nutrire partigiani, prendere parte ai combattimenti con coraggio. Oggi facciamo fatica a camminare, sorretti da un bastone o una stampella. Attraversiamo lentamente le vie che un tempo ci videro muoverci con rapidità, colpendo e fuggendo. Vecchi, un po’ malandati. Faremo anche tenerezza ma a quel tempo sbaragliammo interi battaglioni,  rischiammo la vita, ci battemmo per garantire quella libertà della quale oggi tanti fanno cattivo uso, abusandone, senza immaginare quanto ci sia costata perché non ne sono mai stati privati e non hanno dovuto battersi per riconquistarla. Non c’è retorica in questi pensieri. Abbiamo imparato a nostre spese che non serve indulgere in nostalgie. C’è piuttosto la consapevolezza di aver fatto ciò che era giusto e che tutto quanto è accaduto non deve essere dimenticato perché quei semi di giustizia e libertà non inaridiscano mai. E a quella domanda c’è una sola risposta possibile: sì, ne è valsa la pena.

Marco Travaglini

Rasputin e Cri-Cri

All’altezza della piazzetta nel quartiere Domo, dove c’è Casa Morandi, camminando soprappensiero, sono inciampato in un gatto che stava lì, lungo e tirato, a prendere il sole. Barcollando, mi sono appoggiato al muro e solo grazie alla mia prontezza e ad un po’ di fortuna non sono caduto a faccia in giù

Al ritorno da una passeggiata sul lungolago di Baveno, dopo una breve sosta sulla panchina del parco giochi dove spunta dal terreno la scultura in granito rosa di “Maggi”, il mostro del lago Maggiore, ho imboccato la via Zanone. All’altezza della piazzetta nel quartiere Domo, dove c’è Casa Morandi, camminando soprapensiero, sono inciampato in un gatto che stava lì, lungo e tirato, a prendere il sole. Barcollando, mi sono appoggiato al muro e solo grazie alla mia prontezza e ad un pò di fortuna non sono caduto a faccia in giù. Spavento a parte, guardando il felino che – nonostante il trambusto – non aveva fatto una piega, mi è venuto in mente Rasputin. Era il gatto dell’Amalia ed era campato quasi vent’anni, prima  “da tirà i sciampitt”, di passare a miglior vita. Era pelle e ossa, magro da far paura. Quasi del tutto cieco, negli ultimi tempi brancolava per la piazzetta, miagolando stancamente. Persino i topolini che stavano rintanati nella cascina del Gèra, preso coraggio, gli correvano intorno, sfottendolo. Eppure c’era stato un tempo in cui Rasputin era il terrore di tutta Domo. Quando era “in caccia”, gli uccelli volavano alti, stando ben attenti a non abbassarsi troppo per evitare la “quota-rischio”. E gli altri animaletti che vivevano nei paraggi, negli orti o al margine del bosco (topi, lucertole, scoiattoli, ghiri e così via) erano impauriti. Aveva coraggio da vendere, Rasputin: il pelo fulvo, i lunghi baffoni, le unghie affilate, pronte a graffiare, erano il suo “biglietto da visita”. Una cosa sola lo metteva a disagio: i ciottoli bianchi delle stradine che scendevano dallo slargo davanti alla chiesa e “scivolavano” verso lago. Il perché discendeva dal ricordo, pressoché indelebile, di una scorpacciata di burro alla quale aveva fatto seguito una tremenda indigestione con dolori e nausee. Il gatto non aveva saputo resistere al desiderio di ingoiare, in un solo boccone, il bel pezzo di burro profumato che stava – coperto da un tovagliolo – sul piatto appoggiato sulla credenza. Con un gran salto – ovviamente, ”felino” – era balzato sul tavolo, affamato e goloso. La signora Amalia l’aveva trovato lì, qualche minuto dopo, ancora intento a leccarsi i baffi. Non aveva perso tempo, scacciandolo via, minacciandolo infuriata con la scopa di saggina.

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A Rasputin – vuoi per l’ingordigia con cui aveva “sbafato” l’intero panetto, vuoi per lo spavento e la precipitosa fuga – si era bloccata la digestione ed il burro, nello stomaco, si era trasformato in mattone. Da quel giorno, la sola vista di un sasso bianco, equivaleva a fargli rivivere quei momenti e, dunque, scappava via, con i crampi allo stomaco. Ma non c’era solo Rasputin.Rammentando gli animali che giravano lì attorno non si può non menzionare il piccolo “Cri-Cri”, il cagnolino del dottor Segù. Medico condotto, filosofo ed indagatore dell’animo umano, il dottore aveva un suo motto che sintetizzava, per così dire, la sua “funzione”: “ Se in cielo c’è Gesù, in terra c’è Segù”. Insieme a lui, in simbiosi perfetta, viveva il volpino “Cri-Cri”. Non era di razza pura, vivacissimo, dal pelo corto, bianco e nero, sempre affamato. Un giorno, mentre il suo padrone visitava la signora Gina, “cri-cri” addentò – rapido come un fulmine – il mezzo pollo, già pulito, che la moglie del Merico Birgoli stava per mettere in pentola. Inseguito e costretto a “mollare la presa” dopo un difficile “tira e molla”, ringhiava alla povera donna, mostrandogli i denti. “ Ma va da via i ciapp, bestiaccia boia. Vàrda, che disastro. La gallina l’è tuta ruinada, capito? Ro-vi-na-ta Adesso mi tocca buttarla via, mondo ladro. Come la mettiamo, eh dottore?”. E il buon Segù, serafico, senza scomporsi, rispose con voce calma: “Cara Gina, hai tutte le ragioni del mondo ma non devi prendertela così. Cosa vuoi mai: anche il piccolo Cri-Cri  è una creatura di Dio. E’ così perché risponde alla sua natura. E’ l’istinto a fargli perdere la trebisonda, capisci? Io non ti chiedo di comprenderlo ma, ti prego, non essere così dura con lui”. Lo giustificava, il dottor Segù. Ed il piccolo cagnetto, scodinzolando, a modo suo “ringraziava”. E Gina? Solo l’educazione religiosa e l’attaccamento alla fede le consentivano di non pronunciare parole peccaminose (anche se, secondo me, nessuno sarebbe stato in grado di garantire che non n’avesse pensate di irriferibili). Con gli animali, del resto, aveva già avuto esperienze che l’avevano – come spesso gli capitava di dire – “segnata”. Ad esempio, quella volta che aveva tagliato il collo all’oca per la cena dell’epifania, richiudendone il corpo nello stipetto sotto il lavandino. Quando, meno di un’ora dopo, aveva aperto lo sportello, l’oca era uscita sulle sue gambe, girando per la cucina. Alla Gina gli prese un sintomo. Stette lì lì per svenire e, gridando che era “opera del diavolo”, riuscì a scappar fuori in cortile. Toccò a suo marito, che stava girando le zolle di terra nel piccolo giardino dove coltivavano l’insalata e le patate, ad accorrere con la zappa e “finire” l’oca. Che non finì in pentola. La Gina si rifiutò fieramente di mangiare quella “bestia indemoniata”. E l’oca  dalla testa mozza finì sepolta come un cristiano, sotto mezzo metro di terra, vicino al bosco di castagni.

 

Marco Travaglini

C’era una volta un pacchetto

C’era una volta un pacchetto rosso Grande Grande che piaceva tanto ad un bimbo di nome Niccolò. Era il periodo di Natale e la mamma aveva insegnato a Niccolò a disegnare tanto pacchetti da mettere sotto l’albero di Natale nella camera dei giochi.  C’erano pacchetti di tutte le dimensioni e colori: grandi grandi, piccoli piccoli, azzurri con il fiocco rosa, gialli con il fiocco verde ma soprattutto c’ erano pacchetti rossi con il fiocco rosso. Tutti i pacchetti erano vuoti all’inizio, perché Niccolò non aveva ancora deciso cosa metterci dentro né cosa farsi regalare per Natale. La sua gioia era disegnarli ma doveva farsi aiutare perché era ancora piccolo per farlo da solo. Il suo preferito era il pacchetto rosso con all’ interno tre caramelle, una rosa, una blu, una verde. Tutti i pacchetti erano belli, ma quello con le caramelle era speciale. “ il pacchetto rosso rosso con dentro le mie caramelle è il mio preferito” diceva Niccolò a tutti coloro che gli chiedevano perché se lo portasse sempre con sè, ma nessuno ne aveva capito il motivo, è lui non lo diceva a nessuno, neanche alla sua mamma. Non appena i pacchetti per i suoi amici erano pronti, Niccolò chiedeva al postino di spedirli direttamente a Babbo Natale. Alla fine in casa rimasero solo tre pacchetti: uno per Niccolò, uno per la mamma ed uno per il papà…rispettivamente verde,rosa e blu.  Il Natale passò, la mamma ed il papà aprirono i loro pacchetti mentre Niccolò volle tenere il suo chiuso per continuare a portarlo con sè, anche di notte accanto al suo cuscino…Passarono i mesi, il pacchetto rosso grande grande era ancora nella camera da gioco di Niccolò; un giorno tornato dalla scuola materna Niccolò chiamò mamma e papà dicendo loro che aveva fatto una magia da vero mago ed il pacchetto era sparito, l’ aveva trasformato in una bellissima farfalla rossa che era volata via. Come farai senza il tuo pacchetto adesso?, chiese la mamma. “Il pacchetto serviva per contenere le mie caramelle preferite, ma ho capito che siete tu e papà le mie caramelle, e voi sarete sempre con me ovunque andrò!

Angela Barresi

L’Evelina dell’Uva Matta

RISTORANTE GALLORISTORANTE OSTERIAOltre alla varietà dei salumi, la trattoria era  uno dei pochi, se non l’unico posto, dove si cucinava ancora il “ragò“, un piatto a base di verze arrosto con costine e cotenne di maiale. Non propriamente un piattino leggero e dietetico che però solleticava le papille gustative a molti, tant’è che venivano persino dall’Oltrepò a gustarlo. Previa prenotazione, ovviamente

Evelina Castiglioni, vedova Borlazza era – oltre che zia di Ercolino, avendo sposato il compianto Ruggero, uno dei fratelli del padre del Vicesindaco – la proprietaria dell’unico ristorante di Buttignolo, la trattoria dell’ Uva Matta. Beh, proprio l’unico no, a dire il vero. C’erano anche “Il rustico” dell’Arduino Pombini e “La lucerna” di Vittorino Ardemagni ma erano due bettole, dove si mangiava piuttosto male e si beveva peggio. Dall’Evelina, grazie anche allo “chef” Lunardotti che aveva lavorato per qualche anno nei migliori ristoranti di Pavia e Alessandria, chi “metteva i piedi sotto il tavolo” ( come amava dire la corpulenta ristoratrice) non si poteva lamentare del menù, sempre ricco e vario. Grazie a lei Buttignolo si era fatto riconoscere come una delle mete per le merende e per le cene che venivano organizzate in zona. Vuoi che fossero gli operai della “Casalini Guarnizioni e Freni”, i ferrovieri del pavese, le varie società sportive o famiglie che cercavano un posto dove mangiar bene con poca spesa per festeggiare compleanni o anniversari vari, in cucina  all’Uva Matta non si stava mai con le mani in mano.

La cucina di Evelina ,fortemente influenzata dalla civiltà contadina della risaia e dell’orto, era una cucina paesana e povera, fatta di piatti semplici ma genuini. Tra gli antipasti  non mancavano il “salam d’la duja“, sapido salame di maiale conservato sotto grasso nelle olle, i caratteristici recipienti in terracotta dall’imboccatura stretta, e, vera leccornia, il  celebrato salame d’oca. E poi, a seguire, il classico “bagnetto” verde,  le frittatine, i funghi sott’olio che lei stessa confezionava,  l’insalata di nervetti e il pesce in carpione. I clienti più “rustici” e più affezionati andavano matti per l’insalata di fagioli borlotti; belli grossi, tondi e venati di rosa. Nei primi piatti  a farla  da padrone era il riso: dai minestroni ai risotti. La scìura  Castiglioni aveva imparato dal fù Borlazza, buon anima, a preparare  il “risotto giallo”,  quello con i “fagiolini dell’occhio” o con le “barlande” ( le erbette prataiole), con i funghi porcini, con le tinche, le quaglie, gli asparagi, la trippa e le ortiche.  Una varietà incredibile che lasciava gli avventori a  bocca aperta e incerti su cosa assaggiare, obbligandoli a tornare all’Uva Matta. Restando sui primi, se a mezzogiorno tutto questo s’accompagnava anche a ravioli ripieni di arrosto e conditi con il sugo,  lasagne con le rigaglie e tagliolini con gli asparagi o con panna e funghi, alla sera si andava di minestre. Oltre al classico minestrone, l’Evelina preparava un ottimo riso e una trippa in brodo da resuscitare i morti, tralasciando di parlare delle zuppe di ceci , di cipolle e di rane. Ai secondi ci pensava Romildo Lunardotti che variava dalle lumache e rane (fritte, in guazzetto, con la frittata) che rappresentavano  la base dei piatti più tradizionali della Lomellina, alle  pietanze a base di maiale, manzo e oca, per non parlare dei gustosi pesci del Ticino (anguille, trote, tinche, carpe) accompagnati il più delle volte dalla polenta.

Oltre alla varietà dei salumi, la trattoria era  uno dei pochi, se non l’unico posto, dove si cucinava ancora il “ragò“, un piatto a base di verze arrosto con costine e cotenne di maiale. Non propriamente un piattino leggero e dietetico che però solleticava le papille gustative a molti, tant’è che venivano persino dall’Oltrepò a gustarlo. Previa prenotazione, ovviamente. E per finire, i dolci. La zia del Borlazza li annunciava cinguettando tra i tavoli  “dulcis in fundo”, alludendo al fatto che a quel punto veniva  il bello, pardon, il buono. E via con l’onda glicemica a base di uova, burro, farina. Il “carrello” proponeva torte come  la “virulà” (bianca e nera), quella di riso, di pane o la torta paradiso. Ed ancora i biscotti Bramantini di Vigevano, quelli di riso ed il “dolce del Moro”, la cui ricetta risaliva al tempo di Ludovico il Moro. Senza dimenticare le reginette dei dolci lomellini: le Offelle di Parona.Facile immaginare il perché, nella famiglia Borlazza, il più “patito” era bianco e rosso di carnagione e pesava non meno di novanta chili, a prescindere dall’essere uomo o donna. La cucina dell’Evelina e le tradizioni di famiglia non consentivano a nessuno di sgarrare , tant’è che Carlino Borlazza, il figliolo dell’ostessa, innamoratosi di una impiegata della posta di Mortara, venne costretto dal parentado ad interrompere quella liaison dangereuse poiché la giovane era (orrore!) vegetariana. “Non vorrai mica rovinarti con una così, eh, Carletto!”, lo investì la madre, puntando gli avambracci sui larghi fianchi. E il figlio, abbassando lo sguardo, risposte, rassegnato: “No, no, mamma. Le ho già detto che non è il tipo che fa per me”.L’Uva Matta ospitava, talvolta, anche i matrimoni, come nel caso di Filippo e Danielina, convolati a nozze nella chiesa di Sant’Eusebio e poi a pranzo dall’Evelina,accompagnati da testimoni e parenti ( in tutto una cinquantina di commensali). Seguendo il copione delle tradizioni goliardiche, i due fratelli Carletto ( quelli della “Carletto Spurghi”) – Virginio e Vannino, detti anche “i due vù” – amici di vecchia data dello sposo, distribuirono a tutti dei profilattici della Durex, in confezione da uno. Ridendo come matti, ne fecero dono anche alla signora Evelina che ringraziò educatamente, mettendosene in tasca un paio.

Tornata in cucina, la titolare dell’Uva Matta avvicinò Rosalba Tinelli, cameriera  a tempo perso che dava una mano in occasioni come quella, sussurrandole: “Rosalba, tienile te queste cicche americane. Io non riesco a mettermele  in bocca perché mi si attaccano ai denti”. La cameriera, imbarazzata, ringraziò. Senza avere il coraggio di spiegare alla signora Castiglioni che non  di chewingum si trattava ma di ben altro. Ma Evelina era così, un po’ all’antica, fuori moda e tutta “presa” dal suo mondo che iniziava in cucina e finiva sull’uscio della trattoria. Un po’ di tempo fa, ad esempio, accade un episodio che strappava ancora qualche sorriso. Con l’Uva Matta confinava la tabaccheria del signor Giurlandotti. Per le feste natalizie, davanti alla sua rivendita, il tabaccaio aveva posizionato un manichino vestito da Santa Claus, con uno sgargiante completo rosso e la lunga barba bianca. Poi, passata anche l’Epifania, l’aveva ritirato nel ripostiglio a fianco della legnaia, spogliato dagli indumenti. Siccome non stava in piedi, lo appoggio ad una sedia. Il manichino assunse così una posa che poteva definirsi “riflessiva”: seduto, con la testa reclinata ed appoggiata al braccio destro. Evelina, vuotando il secchio dei rifiuti di cucina nel bidone che teneva a fianco della legnaia, vide quella figura dalla finestra aperta del ripostiglio. “ Ma cosa ci fa quell’uomo lì, nudo come un bruco, seduto sulla sedia? Ma non sente il freddo?”. Provò a schiarirsi la voce, per richiamarne l’attenzione ma quello niente. Non dava segni di vita. Che si fosse sentito male?  Non sapendo bene come comportarsi, prese la decisione di avvertire il Giurlandotti. In quel momento il tabaccaio era solo in negozio e lei, dopo un po’ d’esitazione data l’imbarazzante situazione, lo informò sulla presenza di quell’uomo che stava lì al freddo, senza vestiti, nel ripostiglio. E si offese non poco quando il tabaccaio, capito al volo l’equivoco, si mise a ridere. Non fu facile per il povero Giurlandotti placare la permalosa Evelina, spiegando per filo e per segno che non di uomo si trattava ma di un manichino spogliato dai vestiti e riposto in magazzino. La Castiglioni, borbottando un “balengo di un balengo”, se ne andò, impettita ma quell’episodio, grazie alla “lingua lunga” del tabaccaio fece il giro di tutta Buttignolo.

Marco Travaglini

La repubblica dei pescatori

Sulla fiancata, spiccava – scritto con la vernice rossa – il nome : “Stella della Castagnola”. Su quella barca ci viveva alcuni mesi l’anno, giorno e notte, buttando le reti dove le correnti lo consentivano e dove il pescato poteva soddisfare almeno i bisogni primari, una volta venduto al mercato ed alle pescherie. “Non ci si arricchisce,caro mio, cùn al pèss dal lag. Ma almeno, puoi star sicuro, si resta liberi. Con il vento in faccia e le stelle sopra la testa. E la libertà non ha prezzo

PESCATORI4

Un fremito. Leggero, quasi impercettibile. Se la vista non lo ingannava, il galleggiante si era mosso. D’altronde, il lago era fermo come una macchia d’olio. Non c’era nemmeno la solita brezza che, a quell’ora del mattino, scendendo dai contrafforti del Mottarone ,increspava lievemente la superficie. L’acqua era immobile e il galleggiante – ne era certo – aveva sussultato. Un breve tremolio. Una volta. Due volte… Mario “Alborella” strinse più forte, con entrambe le mani, la canna. Gli occhi guardavano fissi la lenza e il galleggiante di sughero. Era sicurissimo che quel tappo tondo, colorato di bianco e di rosso, con quel tremolio appena percettibile stava “segnando”. Sulla sua fronte, tra le rughe, si incanalavano goccioline di sudore. Era teso come un archetto, pronto a dare il colpo appena la preda abboccava. Un colpo secco per prenderla all’amo e poi, finalmente, avrebbe chiuso i conti con quella trota di lago che lo faceva ammattire. Era un sacco di tempo che tra i due era aperta la sfida. E, fino ad allora, il risultato era sempre stato lo stesso: la trota gli fregava l’esca e lui restava lì con un palmo di naso, beffato. “Forse, stavolta la frego io”, diceva tra se. Ed ecco che, all’improvviso, il galleggiante sparì di botto sotto il pelo dell’acqua. All’istante Mario “frustò” la canna con uno strappo secco. Ma la sentì leggera , leggera e vide luccicare al sole – con un beffardo bagliore argentato – l’amo pulito, senza esca e – soprattutto – senza trota. “Maledetta bestiaccia”, imprecò Mario “Alborella”, agitando il pugno impotente verso il lago, come se la trota lo stesse a guardare , sogghignando. “ Anche stavolta mi ha fregato il verme e mi ha fatto fare la figura del pirla. Ma un giorno o l’altro la piglio e poi, com’è vero che c’è un Dio, la PESCATORI6metto giù in carpione”. Così, ciondolando sulle gambe malferme, con il cestino dove aveva riposto due dozzine di alborelle lunghe più o meno un dito, frutto della pesca di un paio d’ore, se ne andò verso casa. Quei pescetti erano l’unica specie che riusciva a pescare e che gli era valsa il soprannome che portava. Mentre quella trota di lago, furba e scaltra, era la sua ossessione. Tutti i giorni provava a farle fare il salto dal lago alla padella e tutti i giorni quella si prendeva la soddisfazione di far fare a lui la figura del pesce, soffiandogli l’esca dall’amo dopo avergli dato l’impressione della cattura. Mario “Alborella” era così. Pescatore da terra e da canna, non amava salire in barca nonostante fosse nato sull’isola dei Pescatori. E da quand’era in pensione, dopo aver fatto il giardiniere dei Borromeo, aveva ingaggiato quella sfida quotidiana dall’esito ormai scontato. Altra storia era quella di Giorgio Merati, detto “ Giorgio dell’Inverna” perché sentiva i venti e in quelli leggeva il tempo. Già da piccolo, suo padre l’aveva avviato alla pesca. Com’era accaduto a lui – che aveva appreso abitudini e tradizioni da suo padre – aveva trasmesso al figlio, fin dall’età di 5 anni, i primi segreti della pesca sul lago. Gli aveva parlato delle correnti e dei venti, delle reti e di come andavano calate. Ma soprattutto di quando e dove si poteva fare una buona pesca. “Ci vuole rispetto per il lago e per le creature che ci vivono”, gli diceva sempre.”Noi PESCATORI2peschiamo, certo. E questo ci dà da vivere ma mai abbiamo esagerato. Bisogna sapersi accontentare, perché ogni cosa deve rispettare gli equilibri”.Ancora oggi, nelle notti più chiare, quando si vedevano nitide le sponde da una parte e dall’altra del lago, gettava la sua rete al largo, nel golfo Borromeo. Era di Baveno ma avrebbe voluto vivere a Pallanza. “ E’ la regina del lago. Dal portamento così signorile che lascia senza fiato e , al tempo stesso,così schietta e sincera da sembrare una donna del popolo”. Sì, gli piaceva Pallanza ma dopotutto amava guardarla dal lago più che da riva. Da quand’era nato aveva le spalle coperte dall’ombra lunga del Mottarone e lo sguardo che incrociava il tondo e rassicurante profilo del Monte Rosso , che scendeva su Suna per bagnarsi i piedi nel lago. L’isola Madre l’aveva ospitato tante volte che neppure più teneva il conto. E l’isola Pescatori era un po’ la sua seconda casa. Lì, sulla lingua di terra che andava dal Verbano, il bell’albergo rossiccio che guardava in faccia la patrizia dimora sull’isola Bella, al “codino” che puntava dritto il suo naso curioso in direzione di Feriolo e Fondotoce, c’era quel lembo di terra che qualcuno, in passato, chiamava – non si sapeva bene il perché – la “Repubblica dei Pescatori”. Quante notti aveva passato, tutte intere fino all’alba, solcando lentamente il dolce movimento delle onde, sotto il cielo scuro che veniva bucato dalle piccole stelle lucenti o rischiarato dalla luna che faceva correre le ombre sull’acqua. E le barche le “spezzavano”, con la loro scia lenta mentre si muovevano a colpi di remo verso il largo. “Se hai un cuore e una camicia, vendi la camicia e visita i dintorni del Lago Maggiore” ,   scriveva Stendhal. E come dar torto a lui ed a quei viaggiatori colti che, fin dall’Ottocento avevano scoperto il lago Maggiore e – con le loro descrizioni – contribuirono a fare del Verbano la meta privilegiata di un turismo europeo d’élite affascinato dall’ambiente lacustre nel quale, come delle perle rare, facevano bella mostra di se le isole Borromee. Certo, le isole Borromee erano dei gioielli. Tre belle pietre preziose che arricchivano il diadema del lago. E se l’isola Madre e l’isola Bella spiccavano per grazia, signorilità, la terza era un po’ quella scapigliata, più ribelle. Un po’ come lo spirito, avventuroso, di chi ci abitava. Sì, perché l’isola dei pescatori, conosciuta anche come Isola PESC66Superiore, era   l’unica isola di quel piccolo arcipelago ad essere stabilmente abitata. Quei suoi 350 metri di lunghezza per 100 di larghezza ospitavano un piccolo centro abitato, dalle caratteristiche case a più piani (con lunghi balconi per essiccare il pesce), con la piazzetta, i caratteristici vicoli stretti, molto simili ai “carruggi” o alle “mulattiere di mare” liguri. E poi il lungolago e la via principale , dove le poche decine di abitanti – da sempre – potevano permettersi gli spostamenti ,ovviamente e rigorosamente a piedi, da un capo all’altro dell’isola. Quella era la sua “casa” e , senza ombra di dubbio, la conosceva come le sue tasche. E così anche per i paesi della costa più   vicini. Praticava quasi ad occhi chiusi   il suo braccio di lago per averlo navigato un infinità di volte, dall’alba al tramonto ed anche di notte. Ma l’insieme del Verbano, la terra dov’era nato e dove viveva, aveva imparato a scoprirlo soprattutto grazie ai libri. A scuola e soprattutto fuori dalla scuola, sfogliando avidamente i testi che trovava nella piccola biblioteca della parrocchia. C’era poi un testo di geografia molto dettagliato sul lago che, quasi quasi, era in grado di ricordarsene interi capitoli a memoria. “ Il Lago Maggiore si trova ad un’altezza di circa 193 m s.l.m., la sua superficie è di 212 km2 di cui circa l’80% è situata in territorio italiano e il rimanente 20% in territorio svizzero. Ha un perimetro di 170 km, è lungo 54 km, la larghezza massima è di 10 km e quella media di 3,9 km. Il volume d’acqua contenuto è pari a 37,5 miliardi di m3 di acqua con un tempo teorico di ricambio pari a circa 4 anni. PESCATORI3Il bacino imbrifero è molto vasto, pari a circa 6.599 km2 divisi quasi equamente tra Italia e Svizzera (il rapporto tra la superficie del bacino e quella del lago è pari 31,1), la massima altitudine di bacino è la Punta Dufour nel massiccio del Monte Rosa (4.633 m s.l.m.) quella media è invece di 1.270 metri sul livello del mare”. E ancora, leggendo avidamente i testi di geografia, tendeva ad allargare, curioso, lo sguardo ben oltre al lago in se, cercando di capire bene cosa stava attorno al “suo” lago. Così non mancava di fare qualche nuova scoperta…”Il bacino è caratterizzato dall’esistenza di una trentina di invasi artificiali con una raccolta di circa 600 milioni di metri cubi di acqua che, se rilasciati in modo contemporaneo,   eleverebbero il livello del lago di circa 2,5 metri. La massima profondità è 370 metri (al largo di Ghiffa).Gli immissari maggiori sono il Ticino, il Maggia, il Toce (che riceve le acque del torrente Strona e quindi del lago d’Orta) e il Tresa (a sua volta emissario del lago di Lugano). I tributari maggiori hanno un andamento di deflusso diverso, mentre Ticino e Toce che hanno un bacino imbrifero ad alte quote raggiungono un flusso massimo nel periodo compreso fra maggio e ottobre in coincidenza allo scioglimento di nevi e ghiacciai, gli altri tributari hanno un andamento fortemente influenzato dalle precipitazioni”. Poi c’erano i corsi d’acqua minori, che non riusciva ad individuare sulla carta geografica perché era di una scala troppo grande. Si ricordava però i nomi dei torrenti Verzasca, Cannobino, San Bernardino, Giona, Margorabbia e Boesio.Aveva letto avidamente tutte le informazioni, immaginando rotte e percorsi. Sapeva bene che il lago, pur grande, aveva come unico emissario il Ticino che fluiva lento uscendo all’altezza del ponte di ferro a Sesto Calende. Aveva imparato come l’origine del Lago Maggiore fosse sicuramente glaciale: ne era testimone la disposizione delle colline formate da depositi morenici di natura glaciale. Però , spiluccando qua e là su libri e vecchie carte, aveva scoperto una cosa in più: l’escavazione glaciale era avvenuta su una preesistente valle fluviale. Ed infatti, il profilo del lago – bastava guardarlo – presentava la tipica forma a “V” delle valli fluviali. Una cosa che sapeva bene, essendo pescatore e navigatore di lago, riguardava le isole. A parte le tre borromee, nel Lago Maggiore erano presenti altre   isole meno grandi, piccole o addirittura minuscole che sembravano – viste dai monti e dalle colline – delle capocchie di spillo.   Erano altre cinque nella parte   piemontese, due nell’alto lago svizzero ed una solo, piccola piccola, dalla parte lombarda, per un totale ( aggiunto l’arcipelago delle tre fra Stresa e Verbania) di undici. Partendo dall’alto verso il basso , di fronte al paesino di confine svizzero di Brissago si trovano le due omonime isole alle quali – lasciata la Confederazione per scendere sulla costa tra Cannobio e Oggebbio ci si imbatte nei tre scogli emersi dei Castelli di Cannero dove, su quello più grande, si erge lo scheletro della “Vitaliana”, la rocca fatta costruire all’inizio del 1500 dal conte Ludovico Borromeo sulle rovine del castello della Malpaga, dimora dei pirati Mazzarditi che misero a ferro e fuoco gli abitati delle sponde del lago. Al suo fianco l’altra isoletta con le prigioni e, dalla parte opposta, che guarda verso Maccagno, lo scoglietto del Melgonaro, su cui cresce solo una stenta ma tenace pianta che se ne infischia dei venti e delle intemperie.Per finire c’erano poi l’Isolino di San Giovanni, di fronte a Pallanza, l’isolotto della Malghera – un fazzolettino di terra tra L’Isola Bella e quella dei Pescatori – e , buon ultimo, verso sud,   l’Isolino Partegora nel limitato golfo di Angera, sulla “sponda magra” del lago, quella battente bandiera lombarda. Quella sera di fine autunno, sia Giorgio che il piccolo Filippo – che ormai aveva dieci anni – erano rimasti sull’Isola dei Pescatori. Avevano tirato in secca la barca ed erano andati a cena a casa del Giovanni Farina che, sul lago, era più conosciuto come il “ Giuanin dai Misultitt”. Il soprannome gli era stato affibbiato in ragione della sua fama di pescatore di agoni che, una volta puliti e fatti seccare al vento e al sole, venivano salati e disposti – frammisti a foglie d’alloro – nelle missolte, i contenitori nel quale venivano conservati gli agoni. E com’erano buoni, i misultitt. Riscaldati appena un po’ sulla brace o sulla pietra ollare, venivano PESCATORI2ripuliti dalle scaglie e aperti a metà, per lungo, sfilando via la lisca. Una spruzzata d’aceto e qualche goccia d’olio e via.. Il sapore deciso poi s’ammorbidiva se li si accompagnava   con la polenta calda ed un fiato di vino rosso. Quel vino rosso pungente che non mancava mai sulla tavola del Giuanin e che lui, in vista dell’inverno, provvedeva a “metter via” dopo averlo fatto imbottigliare dal Nazareno, un ex-frate che aveva le vigne di “americana” tra Loita e Campino.La scelta di fermarsi per cena ed anche per la notte era solo in parte voluta. Sul lago, infatti, stava soffiando il Maggiore, il più impetuoso e pericoloso dei venti. Scendeva fischiando da nord, dalla piana di Magadino, in Svizzera, ed era capace di alzare onde alte anche due o tre metri. Il rischio di veder rovesciato lo scafo e di trovarsi a mollo, nell’acqua scura e fredda, era troppo alto. Ed in quelle condizioni ci si poteva anche rimanere secchi, lasciar la pelle, annegando.Meglio andar coi piedi di piombo e non sfidare la furia del lago. Meglio star lì, al riparo, davanti al camino del Giuanin. A cena   c’era anche Mario “Alborella” e, ad ascoltare i loro discorsi, c’era solo da imparare. Iniziarono subito a parlar di venti e di onde ed il piccolo Filippo intervenne per chiedere quanti e quali fossero i venti che soffiavano sul Verbano. “ Caro al me fiò – disse Giuanin -; la risposta a questa domanda dovresti già saperla, visto che sei il figlio del Giorgio dell’Inverna. Ma ho come l’impressione che ti piace sentire anche la nostra versione. Eh, Mario. Cosa dici? Gli parli tu dei venti o lo faccio io?”. Fa tì, Giuanin – replicò “Alborella” – che ti ghè una bella parlantina. E con un bel bicièr da mericanin la lingua ta diventa ancà pussè lunga e svelta”. PESCATORI5Così Giuanin si mise a parlare dei venti. Partì dal “mergozzo”, l’altro vento del nord, che s’immetteva sul lago provenendo dalle parti dell’altro, più piccolo, specchio d’acqua che guardava verso la bassa Val d’Ossola, il   Mergozzo, prendendone il nome, fino a quelli dell’est, come l’Inverna.   “ D’inverna ce ne sono diversi. C’è quella del bel tempo, che soffia di pomeriggio ed è come una carezza un po’ decisa e c’è quella che gonfia e ghiaccia l’aria d’inverno. E’ quella vera, che porta con se la “brisa”, che mette il gelo nelle ossa”. Un fiato di vino e Giuanin, preso slancio dopo l’attimo di pausa per la “gollata”, riprese a descrivere le correnti d’aria. “C’è il “marenc”, il marenco, un’inverna calda che monta su quando da sud spira lo scirocco. E’ l’aria che fa crescere il lago”. Accortosi che Filippo lo guardava con occhi sgranati, anticipando la domanda, aggiunse: “Beh, non è che l’aria faccia crescere proprio il lago. E’ che, essendo calda, fa sciogliere la neve in alto e l’acqua scorre a valle fino al lago che, appunt
o, cresce di livello
”. Poi, preso ancora fiato, raccontò della “buzzasca”, aria che portava la neve; della “vachera” che, scendendo dalle pendici del Mottarone, annusandola, portava con se l’odore delle mucche al pascolo. Il “muscendrin”, originato dal Monte Ceneri ( “tùta roba svizzera”) muoveva l’aria fredda ma secca. Puliva il cielo e portava il sereno. “Vedi, ragazzo mio. Come ti avrà già detto tuo padre, il vento può far bene o far male alla pesca. Quando soffia quello da nord, in primavera, l’è una disgrazia. Raffredda l’acqua e i pesce va più in profondità e chi s’è visto s’è visto..non lo peschi più. Mentre invece quando soffia il marenco si va sul liscio con coregoni e bondelle perché l’acqua sale, entra quella dei fiumi e l’acqua dal lagh la   sa fa turbula, e nel torbido si pesca che è un piacere”. Ma ormai si era fatto tardi ed era ora d’andare a dormire. E se era vero che “chi dorme non piglia pesci”, quella sera – calate le ombre sul lago dove il “maggiore” spazzava le onde – non era sera d’andare in barca a pescare. Marino Balossi era anche lui pescatore. Ma veniva dall’altra “sponda”.Nel senso che era di Pallanza, cioè della parte più ad est del golfo Borromeo. Dopo un bel po’ di anni da operaio in fabbrica, alla Rhodiatoce, si era licenziato e con la liquidazione aveva comprato un burchiello da lago lungo nove metri. Una bella barca da pesca, con poppa e prua praticamente identiche ed il fondo piatto. I “risciunà”, gli arcioni tondi sui quali andava infilata la tela che riparava dalla pioggia, erano – come di regola – montati a poppa. E, sulla fiancata, spiccava – scritto con la vernice rossa – il nome : “Stella della Castagnola”. Su quella barca ci viveva alcuni mesi l’anno, giorno e notte, buttando le reti dove le correnti lo consentivano e dove il pescato poteva soddisfare almeno i bisogni primari, una volta venduto al mercato ed alle pescherie. “Non ci si arricchisce,caro mio, cùn al pèss dal lag. Ma almeno, puoi star sicuro, si resta liberi. Con il vento in faccia e le stelle sopra la testa. E la libertà non ha prezzo”, diceva sempre Marino a chi gli chiedeva qualcosa sulla pesca. Il Balossi ( “prego..il sciur Balossi”, come diceva a quei milanesi un po’ bauscia che avevano un po’ di grana in sacchetta e pensavano con quella di poter comprare tutto ) era conosciuto anche col soprannome di “Ribelle” un po’ perché aveva fatto in tempo a fare il partigiano su in Val Grande, con i garibaldini della “Redi”, un po’ perché non si tirava mai indietro quando c’era da far valere i diritti dei pescatori e, più in generale, di quelli che avevano sempre avuto di meno. Come quella volta che aveva issato una bandiera rossa sull’albero più alto dell’isolino che divideva l’Isola Bella da quella Superiore. C’era calma di vento, quella sera. Ma le acque del golfo, tra Carciano e l’Isola Bella, era comunque agitate. In tutti i sensi. Il matrimonio di una delle ultime principessine Borromeo con un rampollo di una casata di capitani d’industria era l’evento del momento. Un via vai di motoscafi a far da spola tra l’isola e la terraferma, accompagnati dal fastidioso rumore degli elicotteri che volteggiavano a bassa quota, creava disagi per chi – sul lago e dal lago – traeva di che campare. I pescatori, infatti, piuttosto indifferenti all’appuntamento mondano, stavano il più possibile alla larga. Tutto quel can can aveva scombinato l’esistenza,   tranquilla e poco incline alla frenesia, di chi viveva sul lago. Nonostante i turisti che frequentavano i paesi da Arona fino a Cannobio – passandoli tutti in rassegna,quasi sgranando un rosario di nomi, d’alberghi e di ritrovi: Meina, Lesa, Belgirate, Stresa, Baveno, Feriolo, Fondotoce, Suna,Pallanza, Intra, Ghiffa, Oggebbio e Cannero – , la vita per chi era del posto, soprattutto per gli isolani affidata ad un rassicurante “tran tran”.Per questo, per protesta, lui aveva piazzato lì quello straccetto vermiglio, inPESCATORI4 mezzo al lago. Così, per sfida, tanto per disturbare. E nonostante non sventolasse per colpa dell’aria ferma ( “Oh, santa Madonna.. gheva gnanca un bigulin d’aria “) avevano dovuto mandare due motoscafi con quattro guardie del corpo per tirarlo via. “Una cosa da poco, dai,ma pur sempre uno schiaffo di quelli che lasciano il rossore”, raccontava ridendo e tossendo, con il toscano mezzo mangiato che gli ballava all’angolo della bocca. Aveva anche una nipote, Martina, della stessa età di Filippo. Piccola, minuta, dai capelli corvini raccolti in due trecce, aveva uno sguardo sveglio,intelligente. Studiava che era un piacere ma gli piaceva anche tanto giocare purché fossero giochi avventurosi. Ed aveva le ginocchia sempre sbucciate…”Guarda qui, Giorgio, il mio “maschiaccio”. E’ bella, eh? Tutta suo nonno”, diceva orgoglioso, indicando Martina che – quando usciva in barca con lui – era addetta a metter in acqua la lenza quando bordeggiavano a tirlindana. Questa particolare pesca alla traina si effettuava sfruttando il movimento dell’ imbarcazione. Si calavano in acqua diversi cucchiaini ondulanti con infissi degli ami, pensati e costruiti apposta per questo genere di pesca. Questi – che penzolavano a profondità variabili – , richiamavano le prede , ingannandole con il loro sfarfallio. Il grosso mulinello, applicato sul bordo della barca, consentiva di svolgere la lenza, affidando alla corrente la bava che terminava, in fondo, con un bel peso di piombo di diverse decine di grammi che, a sua volta, consentiva di far rimanere ben stesi i cucchiaini. Martina si divertiva un mondo a recuperare piano il lungo filo ed , a volte, quando le prede non erano troppo grandi, riusciva a portarsele fin sotto lo scafo dove il Marino, con una mossa rapida di guadino, le tirava in secco e le liberava dall’amo. Qualche volta capitava che Giorgio e Marino, con figliolo e nipote, andavano a pesca insieme. Con un ritmo lento ,andavano per agoni con la bedina, una rete che formava una specie di sacco, di catino, per come veniva usata. Ed era una fatica del boia, manovrarla. Allora era meglio essere in due perché – se avevi fortuna e la pesca era generosa – c’era da spezzarsi la schiena a tirarla in secco, sul fondo del burchiello. Ma loro erano così, un po’ matti e un po’ all’antica. Quasi nessuno calava più in acqua la bedina perché non avevano il fisico di una volta quando, in una notte, capitava che la rete andava dentro e fuori per sei, sette volte. “ Ti ricordi,eh? Ci venivano dei muscoli così.. E, quando si tornava a riva, all’alba, la schiena non la sentivamo più dal male”, diceva il Marino. Giorgio si limitava ad annuire. Era di poche parole, piuttosto taciturno. Ma dovette fare la sua parte perché i ragazzi erano curiosi e non ci si poteva sottrarre a lungo a quel fuoco di fila di domande sulle reti, i pesci, le correnti. Ed allora, via, a raccontare delle reti volanti da calare a diverse profondità per poi recuperarle magari ad uno o due chilometri di distanza dato che, per l’appunto, “volavano” via, seguendo le traiettorie delle correnti. “Non erano fissate ed i galleggianti di sughero sulla corda superiore navigavano che era una bellezza.Poi, al lume delle lanterne, le individuavamo e, tirate in secca, rovesciavano in barca   il pesce”. “E qualche volta, invece, non c’era imprigionato un bel niente e si andava via con la coda tra le gambe, ad orecchie basse, come dei cani bastonati”, aggiunse il “Ribelle”. Filippo e Martina, tutt’orecchi, si bevevano le parole dei grandi. “Prima che si usasse il nylon le reti erano fatte di canapa, seta e cotone. Erano più spesse, più grosse. E più pesanti”, spiegava Marino. Al quale faceva eco Giorgio, ormai ben disposto al dia
logo:”Non è come adesso che sono belle e robuste. Bisognava “tenerle da conto”, dedicandogli molti lavori di manutenzione. Andavano asciugate, rappezzate, tinte. Le avete viste, no?, quelle vecchie reti stese a prendere il sole sull’Isola? Erano un po’ scure perché erano state tinte. Un po’ per conservarle più a lungo e un po’ per mimetizzarle”. “Come facevano a tingerle?”, chiesero quasi all’unisono Martina e Filippo. “Di tanto in tanto venivano immerse in una grossa caldéra ( “puciate dentro”, precisò Marino ridendo ) dove bollivano nell’acqua insieme alle bucce delle castagne ed alla cenere presa dal camino. Così si irrobustivano e diventavano meno visibili”. “ E come non parlare, poi, delle reti da fondo..“ Quelle le lasciavi lì un bel po’ in acqua. Anche 48 ore. E andavano giù perché avevano dei sassi legati di sotto che le fermavano”. E il tremaglio? Quei ragazzini erano tremendi. Mitragliavano i due pescatori con raffiche di domande e stavano lì, vispi, in attesa delle risposte. “Il tremaglio lo usiamo ancora oggi per il pesce persico, vero Marino?”, disse Giorgio passando la questione al “palanzott”. “ Già, caro il mio socio. E’ una rete a tre maglie che, messa in acqua, resta bella tesa e dritta. Le maglie sono più larghe all’esterno e più strette PESCATORI6all’interno, così che il persico resta dentro, impigliato”. “Quelli della sponda “magra”, invece – aggiunge Giorgio – erano molto bravi con i “legné”, con le legnaie. Facevano su delle belle fascine di robinia che, legate, venivano immerse in acqua lungo la riva. I persici ci deponevano le uova e si riproducevano.Poi, quando tornavano lì ed erano di “misura”, cioè oltre i 18 centimetri..zac! Li catturavi senza fatica. Oggi, invece, per l’inquinamento che di là è un bel problema, visto che i depuratori non sono in marcia, le legnaie sono andate quasi tutte a ramengo. E l’è un vero peccato”. Tra una domanda e l’altra, la notte era scesa sul lago. Sulle sponde si vedevano le luci dei lampioni. Una lunga fila gialla tra Suna a Pallanza, interrotta solo dalla massa scura della Castagnola, il “colle più alto” di Verbania, al largo del quale il lago era ben profondo. Più chiare, quasi bianche, le luci invece tra Feriolo, Baveno e Stresa, dove – negli alberghi – si faceva festa. Cullati dallo sciabordio delle onde sulle fiancate dell’imbarcazione, coperti con un plaid a quadrettoni e sdraiati sul fondo piatto su di un piccolo materasso, i due ragazzini si erano addormentati. E chissà che cosa sognavano..Un giorno, gettarono le reti a poche centinaia di metri dal “codino” dell’Isola, tanto per vedere “ se si riesce a tirar in barca qualcosa” per far cena e, se andava bene, per vendere una cassetta o due di bondelle per il Carlin “Spina”, il pescivendolo di Carciano che pagava bene il pescato. “Ah, al nostar Carlin! Quello sì che non ha il braccino corto”, diceva il Marino, masticando il toscano spento. “Non fa storie sul prezzo perché sa bene che il pesce fresco si piazza bene alle mense delle ville di quei signoroni di Milano che vengon qua a rifarsi i polmoni con   l’aria buona”. Parlavano del più e del meno quando, ormai vicini al vespro, col sole in calo, decisero di tirare in PESC22secco le reti. Filippo e Martina, usciti anche loro in barca, si diedero da fare per dar manforte al recupero. In breve le reti, sgocciolando, finirono sul fondo dei due burchielli insieme a due dozzine di bondelle, tre o quattro coregoni e un luccioperca che – ad occhio e croce – poteva pesare sì e no un paio di chili. Ma, insieme al pesce, nella rete era finito anche una specie di cilindro verdastro. Forse, dato che il fondale vicino all’isola non era propriamente un abisso, la rete aveva “raspato sù” quell’affare lì. I ragazzi lo guardavano curiosi e morivano dalla voglia di scoprire cosa fosse. “Altolà,voi. Lontani e fermi”, intimò Marino. “Non si sa mai che possa essere qualcosa che può anche far male. Nel lago ci è finito di tutto e, soprattutto dopo la guerra, con le reti abbiamo tirato in secca un sacco di porcherie, compreso delle bombe inesplose. State un poi lontani, che ci guardiamo noi”, disse, sospettoso. Non pareva però un’ordigno ma una specie di tubo. Lo prese in mano e lo ripulì con uno straccio che usava per le mani quando trafficava con il motore della barca. “Caspita, Giorgio. Vardà anche tì..Luccica.Sembra d’argento”, esclamò, stupito, il vecchio Balossi. “Sì, dev’essere proprio d’argento”, commentò Giorgio dell’Inverna. “E, guarda…sembra sia avvitato. Chissà cosa c’è dentro!?”. Facendo forza con lo straccio, dopo aver cosparso la parte alta del cilindro – che pareva proprio una specie di coperchio- con lo “svitol” che usavano per sbloccare le viti arrugginite dell’argano e del mulinello della tirlindana, lo aprirono. “Guarda,guarda..c’è una specie di documento. Sembra una pergamena. Dev’essere ben vecchia.Forse è meglio lasciarla così, non aprirla e portarla all’Isola, dall’avvocato Montagnoni”, disse Giorgio. E Marino, annuì. Anche i ragazzi erano d’accordo. L’avvocato era un po’ la “memoria storica” dell’Isola. Aveva fatto gli studi di legge a Milano, all’Università Cattolica, e poi si era preso lo sfizio di una seconda laurea – in storia moderna – all’ateneo di Friburgo. Da quando si era trasferito nella casina azzurra vicino alla chiesa di San Gandolfo, che aveva ereditato da suo padre Raniero, si era dedicato ad indagare sulla storia delle isole e dei loro abitanti. Tant’è che ora veniva indicato da tutti come “l’avùcat dà la storia”. E, una volta a riva, era a lui che si sarebbero rivolti per avere il conforto di qualche notizia in più sul ritrovamento. “Mal che vada – disse il Marino, che teneva sempre “i piedi per terra”, anche se viveva gran parte del suo tempo in barca – si può sempre fare due lire con l’astuccio. Se è sul serio d’argento, ci guadagnamo più che con le bondelle”. L’avvocato Gianmario Montagnoni era intento nelle sua lettura quotidiana della “Gazzetta dello Sport”. Gran appassionato di ciclismo, lasciava volentieri i suoi amati libri di storia per analizzare attentamente le cronache sportive degli assi del pedale sulle pagine del “foglio rosa”. Del resto ,cosa poteva farci? Scapolone impenitente ( “nonostante qualche innocente infatuazione”; di se stesso, amava dire,quasi a giustificazione per il non essersi mai sposato, “non sono mai stato colpito dalla freccia di Cupido e forse anche il mio archetto aveva la corda rotta” ), oltre alle ricerche storiche ed alla buona cucina, non aveva altri vizi. La sua passione per Coppi e per i “grimpeur”, gli scalatori che s’alzavano sui pedali quando la strada iniziava a salire e lasciavano gli altri impiantati sull’asfalto o lo sterrato, con un palmo di naso, era proverbiale. Qualcuno all’Isola, bonariamente, lo aveva ribattezzato “ Pordoi”, ricordando così il suo incontenibile entusiasmo quando parlava della “cima Coppi” del Giro d’Italia. I due pescatori ed i ragazzi, dopo aver bussato alla sua porta ed ottenuto il permesso d’entrare, lo trovarono così: intento a leggere con la lente d’ingrandimento in mano, seduto vicino alla finestra sulla sua grande sedia impagliata. Dopo i saluti e una rapida descrizione degli eventi accaduti, specificando bene dove si trovavano con la barca quando il cilindro d’argento era finito nella rete da pesca, l’avvocato – leggendo avidamente il testo della pergamena, chiaramente vergato a mano e miracolosamente conservatosi grazie all’involucro che
l’aveva mantenuto in buono stato, difendendolo dall’acqua e dall’umidità – si mise a pensare. Ci furono alcuni minuti di totale silenzio. Nessuno osava fiatare. Il Montagnoni corrucciava la fronte, leggendo e rileggendo quelle poche righe. Giorgio e Marino scrutavano le sue espressioni. Martina e Filippo si guardavano intorno, incuriositi da tutti quei libri che c’erano in quella stanza. Dopo un po’, l’avvocato disse: “ Amici miei, cari ragazzi..abbiamo avuto una fortuna immensa. Questa pergamena ha una importanza straordinaria. Forse spiega un sacco di cose. Intanto, ve la leggo.Ascoltate bene. Ve la traduco già pesce lago retesubito perché è scritta nell’italiano di fine settecento”. L’avvocato non riusciva a celare l’emozione. Le mani gli tremavano. Si schiarì la voce e, finalmente, lesse la pergamena. “ Oggigiorno, primo Messidoro 1798”…cioè, se non ricordo male, il 19 giugno.. “ rifocillati e rimessi in forze dalla generosa ospitalità dei pescatori di questa meravigliosa isola che, soccorrendoci all’indomani del 4 Fiorile ( che corrispondeva al 23 di aprile ) dopo il tragico epilogo della battaglia di Gravellona, ci nascosero nelle loro case a rischio e pericolo della loro stessa vita..”. L’avvocato fece una pausa e disse: “Qui si legge poco e male, perché l’inchiostro ha sbavato un po’, ma il senso è chiaro..Vediamo un po’..”. E riprese la lettura: “..sfidando l’ordine regio in un epoca di temperie e funesti presagi, seppero tener alta la fiaccola della libertà e dell’indomito spirito repubblicano. Noi, patrioti e combattenti, ancora in vita grazie al loro coraggio, in procinto di lasciar l’Isola per riparare verso l’Elvezia, dichiariamo questo lembo di terra, abitato da fieri e orgogliosi patrioti, l’ultimo baluardo di Libertà. Viva la Repubblica Lepontina. Viva la Repubblica dei Pescatori. Evviva le genti che voglion vivere a testa alta”. “Ci sono anche tre firme: Lazzaro Prosperi, Filiberto Orioli, Antonio Merati. Eh, caro Giorgio – esclamò l’avvocato Montagnoni – quest’ultimo forse era un tuo antenato. Ecco cos’era il “segreto” che il vecchio prete d’allora, Don Piero, affidò al lago perché nessuno “potesse ghermirlo e, per tramite suo, cagionar malevoli conseguenze ai generosi pescatori di codesta isola”. I quattro lo ascoltavano sempre più stupiti e chiesero, com’era inevitabile, di poterne capire di più. “ Sciur Avucàt, ci faccia capire anche a noi che non siamo “studiati” come lei. Cos’è questa storia? E cosa c’entrano i patrioti, il prete, la repubblica e compagnia cantando?”, sbottò il Marino, grattandosi la nuca, perplesso. “ Giusto,giusto..Scusate ma mi son fatto prendere un po’ la mano”, intervenne l’avvocato. “ Dovete sapere che, nel corso delle mie ricerche, mi sono PESC66imbattuto – consultando le carte dell’archivio della parrocchia – in una specie di memoriale che era stato scritto da Don Piero Lunelli, il parroco che per più di trent’anni officiò la messa e confesso tutti qui all’isola, tra la fine del 1700 e gli inizi del secolo successivo. Si vede che i pescatori avevano tratto in salvo alcuni patrioti scampati dalla carneficina dell’aprile 1798 e questi ultimi, per ringraziarli, avevano messo nero su bianco un attestato di stima nei loro confronti, prima di riparare in Svizzera. Ed il prete, nel dubbio che le guardie dei Savoia potessero metterci su le mani e dar vita ad una rappresaglia contro i pescatori, lo mise in questo cilindro d’argento e lo gettò nel lago”. Infatti, l’anziano studioso , si era già imbattuto in qualche indizio. Come nel caso della descrizione, fatta da Don Piero nel suo diario, dell’ involucro che conteneva alcune reliquie di San Protasio, uno dei due patroni di Baveno, che – svuotato del suo prezioso contenuto religioso – era stato adibito “ ad un compito adatto a suggellar per sempre un temibil segreto”. Eccolo qui, dunque, il “temibile segreto”: la prova di un atto di altruismo e di ribellione degli isolani nei confronti della monarchia sabauda. E si spiegava anche quel riferimento un po’ sibillino alla “prova di generosità manifestata dagli abitanti del basso lago verso la causa giacobina” di cui parlava un vecchio testo sui moti rivoluzionari nell’Ossola e nel Verbano, pubblicata un secolo dopo a Bellinzona, nel canton Ticino. Si era fatta ormai sera. Ma nessuno se la sentiva di rinviare all’indomani il racconto che era stato ormai avviato. Così, preparata alla buona una cena frugale a base di polenta e latte e una mezza dozzina di misultitt appena dissalati, i due pescatori ed i due ragazzi, ascoltarono dalla bocca dell’esperto Montagnoni, la ricostruzione di quanto accadde in quell’epoca. “Intanto, avete mai sentito parlare dell’Azari?”, chiese l’avvocato. “Come no… E’ il nome del viale che attraversa Pallanza, dalla piazza Gramsci fino su al ponte del Plusc”, rispose pronto Marino. “ Beh, sì.Insomma, più o meno. Quello che ha dato il nome al viale, come dici tu, era   Giuseppe Antonio Azari, un giovane, brillante, avvocato di idee repubblicane. Aveva studiato giurisprudenza all’Università di Pavia e lì, sulle rive del Ticino, entrò in contatto con dei giacobini. Affascinato dai propositi rivoluzionari aderì alla loro causa prendendo il nome di battaglia di “Giunio Bruto”. Nel 1796, quando Napoleone alla testa delle sue armate d’oltralpe valicò il confine ed invase l’Italia, progettò di impadronirsi degli uffici del capoluogo Pallanza e proclamare la Repubblica Lepontina. Ma il tentativo insurrezionale non andò in porto. Nella notte tra il 22 ed il 23 ottobre venne arrestato a casa sua, insieme a   Prospero Bertarelli ed Antonio Bianchi, gli altri capi della congiura.Stessa sorte subirono, a Fondotoce, i piccoli gruppi di rivoluzionari che erano pronti all’azione: le guardie regie li catturarono e li disarmarono. E così, amici miei, in una sola notte, la prospettiva della Repubblica Lepontina andò in fumo”. “E poi, che fine fecero lui ed i suoi amici?”, l’interruppero, ormai completamente “presi” dalla storia, Martina e Filippo. “Eh, finì male. Lo portarono subito a Novara dove venne processato con urgenza e condannato a morte mediante impiccagione. La sentenza, senza possibilità d’ appello, venne eseguita il 3 dicembre nel fossato del Castello. Il suo cadavere venne bruciato e le ceneri sparse al vento. Una lapide, posta 88 anni dopo, nel 1884, sulla sua casa a Pallanza, in “Ruga” al numero civico 45, lo ricordava così: In questa casa nacque l’avvocato Giuseppe Antonio Azari che nel 1796 a 26 anni scontò collaPESC26 vita l’onore d’avere capitanate le squadre della libertà a Fondotoce. Gloria al precursore del secolo XIX e del suo martirologio per la unità e libertà d’Italia”. “Porca l’oca”, esclamò il Marino. “E io che non sapevo nemmeno come mai il viale si chiamasse così. Questo Azari era uno che di coraggio ne aveva da vendere se a meno di trent’anni ha fatto quella fine per le sue idee”. “ Sì, Marino. Era un uomo coraggioso”, continuò l’avvocato. “ E la storia non finì lì. Se nel 1796 fallì un complotto del nostro eroe pallanzese , che intendeva sollevare la regione per farne un dipartimento autonomo, passarono meno di due anni e , nel 1798, il generale francese Léotaud sbarcò proprio a Pallanza con una schiera di giacobini armati, ed occupò Cannobbio e parte dell’Ossola. Poi a
ccadde quel accadde, alla battaglia di Gravellona, dove riuscirono a sopravvivere i tre patrioti della pergamena”.
Signor Montagnoni, ci racconta come andò quella battaglia? Lei che ha studiato la storia lo saprà senz’altro..”, esclamarono insieme Filippo e Martina, eccitatissimi per l’evoluzione che aveva ormai preso quella vicenda. “Ma è tardi, ragazzi..”, provò a resistere, a dire il vero blandamente, l’avvocato. “ A questo punto, cara al mè avucàt, fatto trenta bisogna anche far trentuno e andare fino in fondo con questa storia, non crede?”, disse il papà di Filippo.

E sia. Ho però bisogno di quel libro lì, Martina. Me lo puoi portare? “, disse il Montagnoni indicando un volume rilegato in cuoio nero che stava appoggiato sul piano della cassapanca vicino alla finestra. Avuto il libro tra le mani, cominciò a raccontare, aiutandosi con il testo. “ Era “ il 3 fiorile”, di domenica mattina, verso l’alba, quando – il 22 aprile 1798 –   i reggimenti reali di casa   Savoia, composti da dragoni, granatieri e regia marina, schierati   nei pressi del borgo di S.Maurizio, lasciarono alle loro spalle Gravellona Toce e marciarono verso i rivoluzionari stanziati nei dintorni di Omavasso. Lo scontro in campo aperto avvenne verso le dieci, nella   zona dei prati “primieri”, quella che oggi è conosciuta come il Campone. Il canto della “marsigliese” accompagnò l’attacco dei repubblicani. Si combatté accanitamente tra la sponda destra del Toce e i primi contrafforti della montagna, in un terreno scivoloso, fangoso, reso pesante dalle piogge dei giorni precedenti. I savoiardi erano in difficoltà. Non riuscivano ad avanzare sotto il tiro di un paio di vecchi cannoni caricati a mitraglia. Sbandavano, indietreggiando, nonostante l’assoluta superiorità numerica ed il miglior addestramento militare. Verso mezzogiorno le file dei   repubblicani si irrobustirono ma non a sufficienza per reggere le folate offensive dei soldati del Re. Reso innocuo uno dei cannoni , i soldati regi iniziarono a premere contro il   lato più debole dello schieramento rivoluzionario. Le sorti si capovolsero del tutto quando giunsero , in ulteriore rinforzo , le truppe regie   provenienti da Arona che , sbarcando a Feriolo, arrivarono a Gravellona. Le compagnie di granatieri dei reggimenti di Savoia e della Marina presero d’infilata la compagnia di granatieri della Cisalpina che era stata messa a guardia del fiume , attaccando così alle spalle i   patrioti.  Gli insorti repubblicani , ormai perduti,   si lasciarono alle spalle 150 morti e 400 prigionieri e si diedero alla fuga verso la Svizzera , nascondendosi ovunque fosse possibile. Molti vennero poi scovati e   uccisi dai popolani fedeli al Re, soprattutto in Valle Vigezzo .Il Marchese Enrico Costa di Bearengard nelle proprie “Memorie a proposito del fallito tentativo di far insorgere l’Ossola”, descrisse così la vittoria sui repubblicani : “ La metà dei Patrioti, le loro bandiere, i cannoni sono rimasti a noi; il resto e fuggito sulle montagne,dove i contadini ne hanno fatto giustizia sommaria, d’altra parte voi sapete che,checché si faccia, il contadino ama il Re e vuole la stabilità“. La settimana dopo, tra sabato 28 e lunedì 30 aprile, gran parte dei rivoluzionari repubblicani furono fucilati a Domodossola. Ma non finì lì. Le fucilazioni continuarono più tardi,il 26 maggio, quando PESC22caddero sotto il piombo del plotone d’esecuzione anche il Comandante Leotto – vale a dire il coraggioso generale francese Giovanni Battista Léotaud – e il suo aiutante Lion. Il 29 giugno stessa sorte toccò al ventiduenne Giulio Albertazzi , a Pallanza , mentre ,all’alba dello stesso giorno, una medesima fine venne riservata ad Omegna al ventenne milanese   Graziano Belloni. L’eccidio si concluse con l’esecuzione con la fucilazione , a Vogogna,dell’avvocato Filippo Grolli – uno dei principali artefici dei moti rivoluzionari – guardato a vista da ben 85 soldati regi.

Ah, quanta amarezza, ragazzi miei, davanti a questa brutta fine   “, commentò l’avvocato Montagnoni, togliendosi gli occhiali dalle lenti spesse, sfregandosi gli occhi . “ Eppure il sacrificio di tanti uomini per un ideale di maggior democrazia, non fu vano. Lo volete sapere cosa accadde solo pochi mesi dopo? La Francia ordinò,il 5 dicembre,al Generale Joubert l’attraversamento del Ticino, l’occupazione di Novara e , subito dopo, di Torino. Così, l’8 dicembre 1798 – il 18 Glaciale dell’ Anno VII, secondo il calendario rivoluzionario francese – Carlo Emanuele IV di Savoia abdicò e partì per la Sardegna , scortato dalla flotta inglese. Il territorio piemontese veniva diviso in 6 dipartimenti amministrativi. La casa Savoia , che regnava sul Piemonte e sulla Savoia dal 1418 ( la Sardegna era stata acquisita più tardi, nel 1720 ) non disponeva piu’ di territori continentali e quello che era lo stato sardo prese il nome di Repubblica Cisalpina”. Era ormai notte inoltrata. I due pescatori ed i due ragazzi si congedarono dall’avvocato, lasciando a lui la preziosa pergamena perché potesse poi consegnarla alle autorità e farla esporre in pubblico, magari in quel museo del lago e della pesca che era stato inaugurato a Verbania. L’isola era silenziosa. Le strette viuzze erano illuminate dalla luce fioca della luna che, bella piena, rischiarava il lago. Le stesse ombre sull’acqua e il fruscio della chiglia che rompeva dolcemente le onde nel tragitto verso la terraferma, accompagnavano i pensieri di Giorgio e di Marino, di Martina e di Filippo. Nessuno parlava ma non c’era bisogno. Erano stanchi e felici. La pesca, una volta tanto, non era servita a riempire di pesci luccicanti le cassette   del Carlin “Spina”. Era servita a qualcosa di più importante. A qualcosa che non aveva prezzo. Bastava guardar verso l’isola, verso quella sagoma scura che si allungava sul lago, nel mezzo del golfo Borromeo. Bastava guardare verso la Repubblica dei Pescatori.

Marco Travaglini

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