IL RACCONTO- Pagina 6

Giacomo e la briscola chiamata

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Quando il cielo lacrimava e sul lago soffiava quell’arietta fresca che intirizziva, la passeggiata sul lungolago verso la Villa Branca finiva immancabilmente davanti alla porta dell’amico Giacomo dove ci attendevano le sfida a briscola e tresette

 

Giacomo Verdi, detto “balengo” perché amava spingere la sua barca a remi tra le onde del lago in tempesta, infischiandosene dei rischi, da un bel po’ di tempo era costretto a stare in casa. Un brutta sciatalgia e i reumatismi rimediati  nel far la spola tra le due sponde del lago e le isole, gli impedivano di stare troppo in piedi. E allora, con la scusa di andarlo a trovare, ingaggiavamo delle tremende sfide all’ultima mano. “ Ah, amici miei, sapeste che rottura di balle dover star qui recluso. Per uno come me che non trovava mai terraferma e che fin da piccolo stava con la faccia contro vento, star qui costretto tra seggiola e divano, tra poltrona e letto, è proprio una gran brutta cosa. Quelle volte che non sento il cambio del tempo e riesco a metter il naso fuori dall’uscio, è una tal festa che non mi potete credere. Guardate, è come se fosse un Natale o una Pasqua fuori stagione. Ah, è talmente bello che mi sento un re”. Ogni volta, prima di tirar fuori il mazzo delle carte dal cassetto, Giacomo –  quasi stesse sgranando un rosario – ci faceva partecipi delle sue lamentele. Ma bastavano due o tre smazzate per sparigliare tutto e come d’incanto si dimenticava di acciacchi e malanni. Faceva smorfie, imprecava, sbatteva le carte sul tavolo. Non nascondeva l’ira o la gioia, a seconda di come gli “giravano” le carte, ma era un’altra persona. Amava quei giochi, vantandosi di essere un grande esperto. A volte ci teneva delle vere e proprie lezioni. “ Vedete, il mazzo con cui stiamo giocando è composto da 40 carte di 4 diversi semi. Ma c’è una grande varietà stilistica nel disegno. In alcune regioni sono diffuse le carte di stile italiano o spagnolo, con i semi di bastoni, coppe, denari e spade e con le figure del fante, del cavallo e del re. In altre si usano le carte con i semi francesi .Sono cuori, quadri, fiori e picche, con le figure del fante, della donna e del re.Ecco, sono proprio queste che stiamo usando per la nostra partita”. Parlava come un libro stampato, in un italiano corretto e persino raffinato. “Fate attenzione a queste.Sono carte bergamasche, tipicamente nordiche.Hanno caratteristiche in comune con le figure dei tarocchi lombardi. L’asso di coppe si ispira alle insegne della famiglia Sforza”. Era capace di andar avanti così per un bel po’ se non cambiavamo discorso. E allora ci raccontava delle sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’isolino una contessa ( omettendo di dire chi fosse, precisando “sapete,io sono una persona discreta e non mi piace far nomi” ) che per tutto il tragitto continuò a fargli l’occhiolino. Immaginando una qualche complicità e una sorta d’invito, appena toccato terra, tentò di abbracciarla e baciarla, guadagnandosi una sberla tremenda. “Madonna, che botta mi ha dato! Cinque dita cinque, in faccia, secche come un chiodo. Ero diventato rosso come un tumatis, un pomodoro, restando lì a bocca aperta, come un baccalà”. “ Ah, cari miei, se beccavo quel maledetto Luigino dell’Osteria dei Quattro Cantoni lo facevo nero come il carbone”. Quella storia l’aveva raccontata un infinità di volte ma, per non contraddirlo, ci fingevamo interessati e lo incalzavamo con le solite domande (“Come mai,Giacomo? Cosa c’entrava Luigino?”). E lui s’infervorava. “Cosa c’entrava, quella carogna? Cosa c’entrava? C’entrava che se l’avevo tra le mani gli davo un bel ripassoLo pettinavo per bene quel mascalzone. Mi aveva assicurato che la contessa era una che ci stava, che gli piacevano i barcaioli. Mi disse che se gli fossi piaciuto mi avrebbe fatto l’occhiolino. E me l’aveva fatto, porco boia; altro che se me l’aveva fatto. Ma era per via di un tic nervoso. Altro che starci. Sembrava una iena. E quel saltafossi lo sapeva, capite? Lo sapeva e mi ha tirato uno scherzo”. Sbollita la rabbia per quella brutta figura che ormai faceva parte dei ricordi, ricominciava a giocare, picchiando le carte sul tavolo come se quello fosse la testa pelata di Luigino. Giacomo abitava in una casa che dava su via Domo. Dalla parrocchiale , dove c’è Largo Locatelli, si scendeva verso l’abitazione per una viuzza stretta, tortuosa, lastricata a boccette che finiva nella piazzetta. Lì, al numero 12, in una casa piuttosto bassa, coperta da un tetto di piode, stava il Verdi. Quasi in faccia alla cappelletta che ,si diceva, fosse stata eretta come ex-voto per la liberazione dalla peste. Sotto l’arco s’intravedevano ancora gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino e ben due coppie di santi : Giuseppe e Defendente, da una parte;Gervaso e Protaso, dall’altra. Era lì che la povera Marietta posava il cero nei giorni in cui suo marito, quel matto di Giacomo, metteva la barca in acqua incurante del “maggiore” che spazzava le onde, gonfiando minacciosamente il lago. Ora che Marietta era  passata a miglior vita era Giacomo – ormai prigioniero a terra per via dei malanni – a dare qualche soldo a Cecilio, il sacrestano, perché non si perdesse quell’abitudine che – diceva, sospirando – “ in fondo, mi ha sempre portato bene”. Ecco, le giornate più uggiose le passavamo in casa di Giacomo, in uno dei rioni più antichi di Baveno.Lì c’è ,ancora adesso, la “Casa Morandi”, un edificio settecentesco di quattro piani, con scale esterne e ballatoi. È forse l’angolo più apprezzato dai pittori e dai fotografi di tutta la cittadina. Sono in tanti, in Italia e all’estero, a tenere sulle pareti del salotto un acquerello, una china o più semplicemente una foto incorniciata della casa Morandi. Segno inequivocabile che da lì è passata un sacco di gente ,portando con sé la storia, quella vera, quella che si legge sui libri. E magari incrociando le carte con Giacomo.

Marco Travaglini

Tutta colpa di Jules Verne

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Tutta colpa di quel francese..”. Eriberto si era espresso in modo netto,deciso. La principale responsabilità di quant’era capitato a quei due disgraziati, a suo parere, era di Jules Verne. Del resto non tutti quelli che avevano letto i romanzi del fantasioso scrittore bretone, veri e propri capolavori immortali, si erano ispirati a tal punto da cimentarsi in qualche analoga impresa per conto proprio

 

Eriberto era convinto che Gilberto e Roncolino erano rimasti   folgorati da “Il giro del mondo in ottanta giorni” a tal punto da volersi cimentare in qualcosa di simile, seppur su scala ridotta. Così era nata quell’idea balzana che recava discutere tutto il paese. Gilberto Treossi, lungo come una pertica e magro come uno stuzzicadenti, faceva coppia fissa con Marcello Ronconi,detto “roncolino”, basso e mingherlino. I due si barcamenavano con qualche lavoretto,guadagnando quel tanto che occorreva per assicurarsi almeno un pasto al giorno e un fiasco di vino per il piacere del palato. Vivevano d’espedienti, vestendosi con quanto veniva loro offerto dalle Dame di San Vincenzo.Le notti le passavano nel fienile del geometra Baroveri che, da persona generosa qual’era, non negò mai quel povero giaciglio, consentendo ai due di dormire anche nella larga mangiatoria della stalla quando veniva la stagione più fredda. Quando non erano impegnati nelle loro piccole attività e non avevano la testa annebbiata dalle bevute, si recavano nella piccola biblioteca dell’oratorio dove, seduti sulle due sedie impagliate vicino alla finestra,leggevano i libri a disposizione.Entrambi avevano frequento la scuola fino alla quinta elementare e sapevano leggere e far di conto. La vita per loro – come diceva Don Luigi, tirando un lungo sospiro – “non era stata benevola ma nonostante tutto erano due bravi cristiani”. Fu proprio la lettura del romanzo di Verne, uno dei più famosi del narratore di Nantes, a far scattare la scintilla nella testa di Gilberto. Roncolino, messo a parte della trovata, si dichiarò immediatamente d’accordo.

 

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Nella storia   i due protagonisti, Phileas Fogg – tipico gentlemen inglese – e Passepartout, il suo cameriere francese, si erano impegnati per scommessa a compiere il giro del globo in ottanta giorni. Un’impresa che, tra colpi di scena e vicende a volte drammatiche e spesso grottesche, giunse a buon fine. Verne, nella stesura del racconto, si era ispirato ad una storia vera, che aveva visto protagonista l’americano George Francis Train nel 1870. E perché loro non potevano fare altrettanto, impegnandosi a fare il giro d’Italia con il triciclo del panettiere Delgradi che Gilberto di tanto in tanto usava per consegnare il pane a domicilio? Non era forse quella un’impresa degna di nota? Tanto più che al panettiere quel vecchio triciclo serviva ormai poco o niente, sostituito da un più moderno e rapido motorino. Assicuratisi l’assenso del Delgradi per l’uso del mezzo a pedali al quale aggiunsero un secondo sellino, così da poter star comodi in due, utilizzando il piano di carico della parte posteriore per caricarvi i necessari vettovagliamenti, i sacchi a pelo e una cerata con la quale ripararsi in caso di maltempo, mancava solo il “capitale” per l’avvio del viaggio. Era evidente che si sarebbero arrangiati, strada facendo, e che la forza motrice delle loro gambe non necessitasse di spese per i rifornimenti come per un auto o altro mezzo di locomozione a motore. Bastavano un pasto, un poco di riposo e una dose di vinello per garantire le pedalate che avrebbero eseguito a turni intervallati. L’idea questa volta venne a Don Luigi. Il parroco, per corrispondere alle necessità della chiesa e dell’oratorio, ricorreva a delle raccolte di denaro sotto forma di libera elargizione in cambio delle immaginette raffiguranti Santa Maria Assunta. Perché non stamparne alcune raffiguranti i due in posa davanti al triciclo con la scritta “Diamo una mano a due ardimentosi cicloturisti impegnati a portare il nome della nostra città in giro per l’Italia con coraggio, fede e passione” ? L’idea piacque, la frase un po’ meno. Alla fine venne scelta, per accompagnare la foto, una più sobria “Due concittadini sulle strade d’Italia. Sostegno popolare all’impresa sportiva”. Non fu facile raggiungere una discreta somma ma con l’aiuto di tante persone di buon cuore e con la benedizione di Don Luigi, “l’ardita impresa” poté contare su quasi trecento mila lire che per l’epoca non erano tantissime ma nemmeno una cifra disprezzabile.

 

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Terminati gli ultimi preparativi, recuperate due tenute da ciclista d’antan che il negozio di articoli sportivi, caccia e pesca del commendator Rutigliani teneva in cantina, l’allampanato Treossi e l’esile Roncolino decisero di iniziare il viaggio con un giro tra i paesi limitrofi per far conoscere se stessi e soprattutto l’onerosa e impegnativa avventura alla quale, baldanzosamente, si apprestavano. Ne avrebbero approfittato anche per qualche bevuta d’incoraggiamento.La signora Rosa,titolare della merceria sulla piazza,ciondolò il capo con aria sconsolata:“Oh, cara Madonna; se iniziano così più che partire finiranno piegati sulle gambe, vedrete..”. Roncolino e Treossi in quanto a ciucche dure e perse erano dei veri intenditori e conoscevano bene l’ebbrezza, quella sensazione d’instabilità, di tremore alle gambe e giramento di testa che dà il vino delle osterie quando si alza troppo il gomito. Capitava abbastanza spesso di sentirli raccontare di quando, per esaudire un voto dopo un lungo ricovero in ospedale di Roncolino, erano saliti alla chiesetta della Madonna della Neve, sul sentiero che dalle ultime case del paese s’inerpica sul monte. Doveva essere una toccata e fuga, giusto il tempo di un padrenostro per poi ridiscendere in città e invece erano stati via tre giorni e due notti. Lo stesso Don Luigi, passate le prime ventiquattrore, ne aveva denunciato la scomparsa ai carabinieri, temendo il peggio. Le ricerche durarono quasi due giorni, battendo palmo a palmo i boschi della zona quando, per scrupolo, la squadra di volontari guidata dal sacrestano Sisto li aveva scovati in una cascina, ubriachi come una botte, intenti a ronfare come due locomotive a vapore. Si erano scolati tre bottiglioni di quel vinello asprigno,ottenuto dalla spremitura dell’uva americana di Costante del Brich. Quest’ultimo li teneva nascosti nel sottotetto del fienile, da anni in disuso dopo aver vendute le sue due vacche a un allevatore di un paese vicino. Limitandosi a fare la vita del pensionato, si recava di tanto in tanto a meditare nella vecchia stalla, accompagnando i pensieri con qualche bicchiere. Aver confidato quel piccolo e innocente segreto al Treossi gli costò il prosciugamento della riserva di “carburante”. A risvegliare i due, in quell’occasione ci pensò il sacrestano con un bel secchio d’acqua in testa , gelida come la mano di un morto, e una randellata ciascuno sulla schiena, di quelle che lasciano i lividi per un bel po’. Dunque, come si diceva, di stravizi e libagioni lo spilungone e il mingherlino se ne intendevano.

Caricato a dovere il triciclo, eseguiti gli scatti di rito alla partenza secondo i desideri di Franchino che teneva molto ad esibire le sue qualità nel fissare gli eventi sulla pellicola in formato 6×6 della sua fotocamera Rolleiflex, partirono. Dal piccolo pubblico formato da conoscenti e curiosi partì un applauso e i due, visibilmente commossi, ricambiarono con ampi sorrisi.

 

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L’accordo prevedeva che ai pedali si sarebbero alternati e il primo turno toccò a Gilberto che, in fase di spinta, mise in mostra una bella pedalata rotonda.Dopo qualche centinaio di metri, lasciatesi alle spalle le ultime case del borgo, puntarono l’erede del velocipede verso la prima osteria. La “tappa” era motivata dal bisogno di farsi, prima del viaggio, uno o due bicchieri da Gino, all’osteria dei Passeggeri. “Non si può partire a stomaco vuoto, no?!”, affermò Treossi con un’aria sorniona, aumentando il ritmoEvidentemente i bicchieri furono ben di più di quelli pronosticati e bastò un rapido sguardo per capire in che stato erano i due all’uscita dall’osteria. Sostenendosi uno con l’altro, malfermi sulle gambe e in precario equilibrio, s’appollaiarono sul triciclo e con qualche difficoltà si rimisero in cammino. L’intenzione dei “gemelli del litro”, prima d’intraprendere la loro avventura ciclistica, era di compiere una sorta di via crucis delle osterie, con partenza da Gino per poi visitare, a seguire, tutti i ritrovi canonici. Le papille gustative e l’olfatto erano da sempre la loro bussola. Così, alternando il vino ai piatti tipici ( “se non si mette qualcosa sotto i denti, viene il brucior di stomaco”, teorizzò Roncolino) lasciarono evidenti tracce del loro passaggio alla Casa del Popolo (barbera e salame affettato), all’omonima istituzione del paese vicino (ancora barbera ma con bruschette e sottaceti), alla Società operaia( dolcetto d’Alba e trippa in umido), nei circoli del Gallo, degli Imbianchini e di San Carlo ( barbera nei primi due, Fara e un goccio di Gemme nel terzo, accompagnati da salumi e formaggi). Passato il ponte sul fiume,nei pressi della vecchia ciminiera del cotonificio, parcheggiarono il triciclo accanto al muro di cinta, entrando con passo sempre più incerto al Dopolavoro dei ferrovieri, una sorta di “cima Coppi” del loro giro alcolico. All’uscita, i due professionisti del mezzolitro, traballanti e insicuri, inforcarono il tre ruote e sbandando pericolosamente a destra e sinistra, sparirono in direzione della provinciale. Gli abitanti del paese non tardarono molto ad avere loro notizie. Per l’esattezza il giorno dopo la partenza, a meno di una decina di chilometri dall’ultima sosta al Dopolavoro, furono trovati in fondo a un fosso da un metronotte che aveva finito il suo turno di lavoro. Completamente ubriachi, erano usciti di strada e solo l’erba alta e la poca profondità della roggia in secca avevano ridotto al minimo i possibili danni della caduta. I più pensarono che comunque, nella malaugurata ipotesi che fossero finiti nel lago, non avrebbero corso il rischio di affogare per la semplice ragione che erano tanto “pieni” che nei loro corpi non ci sarebbe stato posto neppure per una goccia in più. Soprattutto se , conoscendoli bene, si fosse trattato – vade retro Satana – di quel liquido inodore, insapore incolore chiamato acqua.Finì così l’avventura di Gilberto e Roncolino che, a parte il denaro speso in libagioni, dovettero restituire quanto avevano in tasca a Don Luigi che si affrettò a versarlo nelle esangui casse della parrocchia, accompagnando l’obolo con tre Avemarie e   due Paternostri. Ripresisi dagli eccessi alcolici e dai postumi dei brutti mal di testa, Treossi e Ronconi tornarono a frequentare la biblioteca dell’oratorio ma abbandonarono la lettura dei romanzi di Verne. Avevano scoperto un altro autore interessante, un tal Emilio Salgari che narrava di corsari delle Antille e delle Bermuda, pirati della Malesia e avventure ai quattro angoli dal mondo. Chissà se ne trassero qualche spunto in seguito. Noi non lo sappiamo e a essere del tutto sinceri non lo vogliamo nemmeno sapere.

Marco Travaglini

“Tex” Borlazza e il Rodeo in Lomellina

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Il rodeo non è solo spettacolo e storia: è soprattutto un modo di vivere che accomuna chiunque viva nel sud ovest degli Stati Uniti. E diventerà così anche per chi frequenterà Buttignolo”. Il vicesindaco, per pronunciare questo breve discorso, evitando di infarcirlo con le solite intercalazioni ( e già questo rappresentava un evento), si era agghindato come un vero vaccaro americano. Una sgargiante camicia con la fantasia a quadretti , stile tovaglia da osteria che  fa tanto country, adattissima al cowboy’s style; jeans d’ordinanza, stretti in fondo, a sigaretta e con il cavallo tenuto un pò basso;  il fazzoletto legato al collo e, immancabili, un paio di stivali texani nuovi di zecca.  In una mano teneva un dépliant che lo ritraeva a fianco di un cavallo, mentre puliva la sella , con in testa un enorme cappello da cowboy. Quel copricapo – uno Stetson originale – se l’era fatto mandare direttamente dalla John B. Stetson Company di Galveston, Texas. La scritta raccontava tutto: “Lomellina’s CowBoys’ Ranch” , il centro dedicato alla monta western vicino a casa sua, in frazione San Cristoforo. Nell’altra teneva una foto che ritraeva suo padre mentre, a cavalcioni di una manza, salutava. “Ecco quì, buon sangue non mente. Mio padre, da giovane, lo chiamavano “Tex”, ” Tex Borlazza”, il cowboy dagli occhi di ghiaccio. Ed ora, grazie ad alcuni miei cugini che abitano a El Paso nel Lone Star State, nello stato della stella solitaria, cioè il Texas per voi che non siete mai andati più in là di Mortara, ho deciso che impianteremo anche qua un bel centro per il Rodeo.Bello, eh?”. Il sindaco, l’altro assessore, i due consiglieri lo guardarono attoniti. Don Busecca, il parroco, scuoteva la testa mentre il sacrestano che lo accompagnava alzò gli occhi al cielo, sussurrando “Dio mio, è matto come un cavallo“. Ma quando Ercolino si metteva in testa un’idea ( che, per il solo fatto d’averla partorita lui, era – a suo insindacabile giudizio – “un’ottima idea”..) non c’era verso di farlo desistere o, quantomeno, ragionare. Così, un paio di settimane dopo, sbarcati a Malpensa i cugini Frank e Dave Borlazza, nati a El Paso da padre buttignolese ( Giobatta, detto Jo) e madre texana, iniziò la fase operativa dell’operazione “rodeo”. Sponsor, a parte il “Lomellina’s CowBoys’ Ranch”, che doveva consolidare la sua attività, c’erano le Bibite Peretti & Tapponi, L’Edil Lomellina e il Credito Agricolo Pavese, noto anche come “il Cap”.

 

In poche settimane i due Borlazza a stelle e strisce, appoggiandosi a Geremia Plastici, titolare del centro di monta western ( che però teneva molto a farsi chiamare Johnny Plastic), predisposero l’arena dove si sarebbe svolto il primo campionato regionale lombardo di Rodeo. Con un migliaio di euro d’ingaggio e l’impegno a garantirgli vitto e alloggio per due settimane, era stato coinvolto nell’impresa anche Silvano Scaratti, detto Crazy Horse, il primo non americano a distinguersi nel più importante rodeo degli Stati Uniti, quello dei Frontier Days che si teneva a Cheyenne. La città, capitale dello stato del Wyoming, non a caso, era gemellata con Voghera a dimostrazione che l’Oltrepo poteva diventare, a tutti gli effetti, il riferimento di tutti gli appassionati del vecchio West. E venne il fatidico giorno quando, in un tripudio di bandiere, polvere e musica country, accompagnati dalle majorettes di Mezzana e dalla banda degli Stonati di Sesto Calende, fecero l’ingresso nell’arena buttignolese dell’Acqua Ferma i partecipanti al rodeo. Erano una trentina gli atleti che si sarebbero sfidati nell’impresa di domare tori e cavalli selvaggi,lanciandosi in gare ed esibizioni di ogni genere. Tra gli applausi e le urla compiaciute dei quasi quattrocento spettatori, vestiti da indiani e cowboys, i concorrenti si rincorsero per tutto il giorno in caroselli infernali, affrontandosi in corse mozzafiato, cimentandosi in gare di velocità o di abilità con i lazos , facendosi ammirare per la maestria con la quale riuscivano a muovere una mandria di broncos, di puledri selvatici. Tutto questo, tra un numero e un altro, per arrivare al titolo regionale delle classiche specialità del rodeo: monta del toro, monta del cavallo senza e con la sella.

 

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Nessuno era riuscito a rimanere in sella per gli  otto secondi nel bull riding , nella monta del toro. Erano stati sbalzati di sella o avevano toccato l’animale con la mano libera ( la briglia di corda andava tenuta saldamente con una mano sola) ma mancava all’appello Domenico “Tex” Borlazza, l’intrepido genitore di Ercolino. E, incredibilmente, l’allevatore di manze dell’Oltrepò diede una lezione a tutti, in puro stile Buffalo Bill. Quattordici secondi e una manciata di centesimi in groppa a Celestino, un toro scalciante e incazzatissimo che faceva torto al mite nome che gli era stato appioppato. “Vacca, che record!”, urlò il Borlazza, applaudendo a spella-mani l’atletico babbo. “Sei meglio di  John Wayne! Cavolo, che forza. Quando c’è di mezzo una manza o un toro, il Tex gli fa abbassare le corna, altro che balle”, gridava, allungando grandi manate sulle spalle del povero Gaudenzio Sparagnetti, sacrestano di Sant’Eusebio che – cercando riparo – annuiva impaurito. Poi, premiati i vincitori con il titolo di campioni lombardi delle varie specialità ( Borlazza senjor, si aggiudicò ovviamente quella della monta del toro), tutti si recarono al Bar della Berta, alle porte del paese, trasformato per un giorno nel Saloon “Old wild west”, il vecchio selvaggio west dove si poteva ballare la line dance, classica danza country, oltre a scolare fiumi di birra, rimpinzandosi di  piccantissimo cibo tex mex. Mentre Ercolino, agitando il cappello da cowboy, lanciava le sue urla sempre più sguaiate, ululando come un coyote alla luna piena, lo Sparagnetti – guardando diffidente i burritos, le terrine colme di chili e le varie tortillas – si confidava con la Berta e Amleto Dolceselli, pensionato dell’Enel: “ Quello lì ha un bel dire con la sua mania del west ma a me pare una gran americanata e a quella roba da bruciasedere che c’è da mangiare, io preferisco un bel risotto con le rane, la lepre in salmì o il fagiano alla cacciatora. Ma quel Borlazza lì c’ha una testa da remulàzz!”. Poi, spiegato al Dolceselli, nativo del centro Italia,il significato di remulàzz (..“è il  ramolaccio, caro Amleto: una radice  scura, molto simile al rafano che si vende a mazzetti, come i rapanelli. E’ anche un modo per indicare una persona che ha una testa di rapa, hai capito?”), se ne andò canticchiando: “Trallalero, trallallà..la bella la va al fosso..ravanei, remulàzz, barbabietole e spinàzz.. tré palanche al màzz”.

Marco Travaglini

 

Il povero tarabuso

 

L’immagine che avevamo davanti agli occhi era davvero inquietante. Una costruzione enorme, mostruosa, capace di imporre la sua presenza su quella campagna piatta e uniforme, dove le zolle di terra scura si erano raggrinzite per la gelata notturna. Finalmente capivamo perché il povero Tarabuso, airone stellato dal richiamo cupo e cavernoso, non riusciva a riprodursi in questa landa. Lo disturbava la presenza della centrale elettronucleare Enrico Fermi di Trino. Nonostante fosse ormai chiusa dal 1990, il volatile cercava di starle il più lontano possibile. E come dargli torto se nutriva diffidenza per quell’impianto che nei primi anni sessanta disponeva del reattore più potente al mondo? Ovviamente non disponendo di una cultura ambientale si affidava alle sue percezioni e quest’ultime, come un segnale di pericolo, suggerivano di stare alla larga da quell’affare, E tutto ciò influiva sulla sua vita, in tutti i sensi, al punto da inibirne l’impulso sessuale, minacciando la continuità della specie in quei luoghi.

Povero Tarabuso, e poveri anche noi che non eravamo per nulla convinti che quella centrale fosse mai stata un buon affare. Così, per non farci rodere il fegato dai pensieri, finivamo per tentare di comprometterlo ai tavoli della trattoria Belvedere. Lì, dietro al bancone del bar, troneggiava la signora Luigina, una matrona dalle prorompenti grazie. Eravamo talmente affascinati da quella bellezza rurale che una sera, complici alcuni bicchieri in più di rosso, sostituimmo la quarta lettera dell’insegna con una “esse”, rendendo ancor più esplicita la nostra folgorata ammirazione per l’ostessa. E, in particolar modo, per una sua caratteristica fisica che suscitava in noi sentimenti e pulsioni opposte a quelle del povero airone represso. La nostra compagnia dell’epoca era alquanto varia. C’era Francesco, diffidente per natura. Non prestava facilmente ascolto e ancor meno elargiva la sua fiducia. Ripeteva spesso, quasi fosse un monito: “Apri l’occhio, gesuita”. E così i suoi interlocutori venivano iscritti d’ufficio alla Compagnia di Gesù a prescindere dai loro sentimenti religiosi. C’era poi Giovanni, un tipo molto particolare. Spesso se ne stava in disparte, manifestando scarso interesse a stare in compagnia, chiacchierare, andare al cinema o a qualche festa. Era taciturno e d’indole parsimoniosa. Un sabato decidemmo di organizzare una scampagnata per il pomeriggio del giorno dopo e concordammo cosa portare in dotazione alla compagnia. In breve stabilimmo a chi sarebbe toccato portare il pane, chi il formaggio o il salame, chi un fiasco di vino. Solo Giovanni stava zitto. Parlò solo quando venne sollecitato (“E tu, Giovanni, cosa porti?”), rispondendo con noncuranza: “Io porto mio fratello”. Ariberto, nato e cresciuto nelle case torinesi della barriera di Milano, era un tontolone, un pezzo di pane, un gariboja. In piemontese per indicare uno sciocco si usa dire “a l’é furb coma Gariboja”. Non si tratta certamente un epiteto lusinghiero poiché non si segnala la destrezza di chi se la cava con l’imbroglio ma bensì la dabbenaggine dell’individuo. Gianluigi, professore di storia e grandissimo scassatore di scatole, ci ha raccontato che il nome Gariboja risale ad un francese originario della Borgogna, tale Jean Gribouille, personaggio popolare in Francia e molto simile al nostro Bertoldino, altro bell’esempio di credulone. Oltralpe fu protagonista del romanzo La Sœur de Gribouille scritto nel 1862 da Sophie Rostopcina, contessa di Ségur. Importato da noi in Piemonte il buon Gariboja è diventato l’emblema di una ingenuità spinta ai confini della stoltezza, tant’è che vi sono moltissime espressioni che lo riguardano. Si diceva che nascondesse i soldi in tasca degli altri per timore di essere derubato (così se qualcuno li rubava non erano più soldi suoi), che la paura di bagnarsi sotto la pioggia lo induceva a nascondersi nell’acqua o che tentasse di spaccare le noci con le uova. Anche sul commercio aveva le sue idee come, ad esempio, quella di acquistare le uova a dodici soldi la dozzina per rivenderle a un soldo l’una, immaginando di ottenere un guadagno sulla quantità. Per questo l’essere furbo come Gariboja non era propriamente un complimento. Fatto sta che una sera, uscendo dall’osteria dopo aver ecceduto un tantino con le libagioni, ci avviammo sul sentiero che attraversava i campi fino a raggiungere l’alta recinzione che circondava la centrale.

Francesco, guardando Ariberto, disse: “Apri l’occhio, gesuita. Guarda là, che spreco. Tutto quel cemento e il resto dei macchinari dovevano servire alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare con un unico reattore da 260 megawatt di potenza. Capito che roba,eh? L’hanno costruita dal 1961 al 1964, entrò in esercizio nel 1965 passando all’Enel, l’ente nazionale di energia elettrica che si era formato solo due anni prima, che la gestita fino al 1987, anno di cessazione del servizio dopo l’incidente di Černobyl dove esplose un reattore spargendo una nube radioattiva su una parte dell’Europa”. “Mi ricordo, boia d’un boia. Non si poteva più neanche mangiare l’insalata a foglia larga e bisognava lavare tutto due o tre volte”, intervenne Ariberto, dandosi una manata sul ginocchio. “Eh, sì.. l’insalata. Apri l’occhio, gesuita. Ma se tu la verdura non l’hai mai mandata giù perché ti faceva strozzare? Hai sempre mangiato solo riso, pasta, pollo e salame. Ma dai, fatti furbo!”. Francesco concluse il suo discorso ricordando i tre referendum contro il nucleare e, per sottolineare con più forza il suo punto di vista, fece la pipì sul pilone del cancello. Quello che per molto tempo fu considerato reato in quanto rientrava negli “atti contrari alla pubblica decenza” quando venivano imbrattate le cose altrui o si espletassero i propri bisogni contro edifici pubblici, suggerì a tutta l’allegra combriccola di emulare il gesto dell’amico. E così, più leggeri pure più allegri, ci avviammo verso le rispettive abitazioni dedicando un ultimo pensiero al povero tarabuso che, inibizioni sessuali a parte, certamente senza averne consapevolezza, aveva dimostrato di possedere molto prima di Greta Thumberg e dei Friday for Future una coscienza ambientale di tutto rispetto, un evidente e insopprimibile desiderio di pace e, forse, un desiderio inespresso a favore di una diversa politica energetica. In fondo apparteneva alla nobile famiglia degli aironi e non era certamente un gariboja.

Marco Travaglini

L’on. Figurelli e l’imprevisto

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Ma, Castagnetti che fine ha fatto?“. Anselmo Ruspanti lo chiese, con sguardo interrogativo, ad Albano Galavotti che a sua volta, allargando le braccia, lasciò intendere che lui non ne aveva la più pallida idea.

Forse la Marietta ci può essere d’aiuto”, intervenne Flavio Rizzato, più noto come “cìaparatt”, grazie all’abilità con cui liberava cantine e solai dalla presenza dei roditori. E infatti Marietta, abituata a farsi gli affari di tutti in paese, s’affrettò ad informare i tre che lo “spelafil”, l’elettricista Giuseppe Castagnetti, era andato per funghi  alle “Cascine” e, probabilmente da lì era salito al monte Vago. “Oh, Madonna! Ma è diventato matto? E adesso? Come facciamo a metter su l’impianto elettrico dato che i fili li ha lui?”. Carmine Degrelli, che aveva sentito tutto, diede voce alla preoccupazione dei presenti. Senza l’elettricista non c’era modo di collegare il cavo elettrico alla batteria da camion che Galavotti portava nel baule della sua “giardinetta”, una Fiat 1100 familiare color caffelatte. E senza il collegamento elettrico le “trombe” dell’impianto di amplificazione sarebbero rimaste mute e l’onorevole Figurelli non poteva fare il suo comizio. “Bisogna inventarsi qualcosa perché tra poco arriva e se vede in che stato siamo conciati, s’incazza come una belva e poi, apriti cielo..”, lamentò Anselmo che, in quel momento, rappresentava la massima autorità sul campo, in quanto responsabile del PCI per i comuni della sponda occidentale del lago. Per l’onorevole Figurelli, dopo i discorsi  in piazza  Motta a Orta e al circolo operaio di Lavignino ad Armeno, quello in piazza Marconi ad Ameno era il terzo e penultimo appuntamento del giorno, prima di passare da Omegna e risalire la valle Strona fino a Luzzogno per l’ultimo appuntamento, sul calar della sera. Tutto era programmato con precisione poichè d’autunno il sole tramontava prima e alla sera in pochi sarebbero usciti di casa per andare a sentire Figurelli, nonostante fosse conosciuto e ben stimato. Un ritardo ad Ameno avrebbe compromesso il resto della giornata. E non andava per niente bene. Mentre Galavotti stava armeggiando attorno alla batteria per capire cosa si potesse fare spuntò da un vicolo, allegro e fischiettante, il Castagnetti. “Giuseppe, testa di legno, dove ti eri cacciato, eh?”, l’apostrofò Ruspanti, rosso in volto. Per tutta risposta l’elettricista mostrò il cestino di vimini  che portava a tracolla, colmo di sanissimi porcini. Per un attimo i presenti temettero che Anselmo volasse addosso allo “spelafil” ma l’intervento provvidenziale di Flavio, il  “cìaparatt”, riportò tutti alla realtà: “Non c’è tempo da perdere. Tra poco arriverà l’onorevole e bisogna essere pronti. Dai, Giuseppe, corri a prendere i cavi mentre noi prepariamo il resto”. Detto e fatto, quando il sidecar guidato da Paulin Nobelli entrò in piazza, con l’onorevole seduto nel carrozzino ,l’allestimento era completato: impianto collegato, microfono funzionante, due bandiere rosse posizionate ai lati di un piccolo leggio. Figurelli, da esperto oratore, sapeva “tenere” i comizi. E quando capitava su di una piazza, una piccola folla s’accalcava e spesso non si trattava solo di sostenitori. Talvolta anche i curiosi s’intrattenevano perché i comizi erano vissuti come degli spettacoli, per  di più se si svolgevano  all’ aria aperta e l’oratore di turno era capace di catturare l’attenzione degli astanti. In quel caso raccoglieva  più di un applauso. Ma, prima di ogni altra cosa, il saper affrontare e risolvere gli imprevisti  rappresentava un’arte che disponeva di pochi maestri e di moltissimi intenditori. Tra i primi senz’altro s’annoverava il Figurelli. Così, quando nel bel mezzo del suo appassionato discorso sopraggiunse una grande auto bianca che si fermò sul ciglio della piazza, lui non tradì nessuna emozione o turbamento, infilando frasi e concetti con proprietà di linguaggio.Lo stesso non si potè  dire del pubblico che guardò con stupore quell’auto, una sfavillante e lussuosa Cadillac Eldorado in versione berlina, bianca come il latte. Un modello di quel genere, con le pinne posteriori che la rendevano unica e le sue dimensioni inusuali in lunghezza e larghezza, era impossibile non notarlo. Quando poi dalla vettura scese un signore di mezza età, fasciato in un abito di alta sartoria, con un bastone dal pomello d’avorio pronunciando con voce sonora il nome di battaglia dell’onorevole quand’era partigiano ( “Cippo!”), sulla piazza cadde il  silenzio. Figurelli lo guardò dritto negli occhi e, allargando le braccia, gli andò incontro  gridando a sua volta: “Amico mio!”. I due parlarono fitto per una decina di minuti sotto gli sguardi increduli e curiosi del pubblico.Poi, salutato l’onorevole con una vigorosa stretta di mano, lo sconosciuto signore risalì sulla Cadillac e proseguì per la via che portava fuori dal paese guidando lentamente e restando a centro strada, attento a non rovinare la carrozzeria di quel gioiello. L’onorevole Figurelli, a sua volta, riprese il comizio dal punto in cui l’aveva interrotto e nel breve di un quarto d’ora terminò tra applausi e grida d’approvazione.Salutato il pubblico, prima di risalire sul sidecar che Paulin aveva già messo in moto,venne avvicinato da Ruspanti e Galavotti che chiesero lumi sull’episodio. Chi era quell’uomo? Come mai si conoscevano?La risposta di Figurelli li lasciò di stucco: “Cari compagni, non ho proprio la benchè minima idea. Non l’avevo mai visto prima d’ora anche se mi ha parlato di un suo prossimo viaggio a Roma quasi fossimo grandi amici. Ho persino il sospetto che  mi abbia scambiato per un altro anche se si è rivolto con il mio nome di battaglia che però è noto a tutti. Io, comunque, non mi sono fatto scappare l’occasione: uno così, con un macchinone tale, fa sempre scena in paesi piccoli dove noi comunisti siamo visti con un pò di sospetto”. Ecco cosa significava, in concreto, saper dominare gli imprevisti.

Marco Travaglini

Conegrina e “il Carabiniere”, inflessibili guardapesca

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Conegrina, al secolo Aquilino Bonello, messa alle spalle una vita da ambulante, si è riciclato come guardapesca, ereditando la mansione che, per più di trent’anni, è stata il pane quotidiano di Alighiero Dentoni. Il passaggio delle consegne è avvenuto da poco, quasi per caso.

Una sera che i due si erano trovati a condividere un mezzino di rosso all’osteria dell’Onda la cosa è venuta fuori con naturalezza. Alighiero Dentoni , era noto ai più come “il Carabiniere”, poiché da giovane aveva indossato la divisa dell’Arma. Quasi nessuno lo chiama per nome e cognome. Non per cattiveria o noncuranza, e nemmeno con l’intenzione di ignorare l’anagrafe; è solo che, con il tempo, il soprannome ha spodestato il cognome, sostituendolo nella vita di tutti i giorni, lasciandogli solo il compito di rappresentarlo nei documenti ufficiali. Comunque, “il Carabiniere”, in procinto di raggiungere il traguardo della pensione come dipendente della Provincia, stava da tempo lambiccandosi su chi potesse prendere il suo posto. Arcigno,inflessibile,incorruttibile e poco incline alle smancerie si era guadagnato il rispetto di tanti ma la simpatia di pochi. Conegrina era tra i rari amici con cui da anni, alla sera, scambiava due parole all’osteria, bevendo insieme o giocando alle carte. Quest’ultimo, dai paesi ai piedi dei monti fino in pianura, godeva di una certa notorietà. Per anni aveva battuto in lungo e in largo il territorio con il suo scassatissimo autocarro proponendo nei mercati e sulle “pubbliche piazze” i suoi prodotti. Nel suo campionario aveva un po’ di tutto: aghi, ditali, filo per cucire, soda, lisciva, candeggina, sapone, mollette per stendere la biancheria, spazzole per lavare i pavimenti, pettini e tante altre utili cose. Il suo grido di battaglia era arcinoto: “Forza, forza  donn! Conegrina e savon! “.

 

A volte risuonava anche un possente “Donne, oggi il tempo volge al bello, è arrivato in piazza l’Aquilino Bonello”. Gli affari andavano a gonfie vele. Praticava dei prezzi onesti e non faceva storie quando, di fronte a un acquisto importante, gli veniva richiesta una dilazione nei pagamenti. Spesso accettava, dimostrando di gradirlo più del denaro, una sorta di baratto: io do una cosa a te e tu ne dai un’altra a me. Molte sue clienti intravedevano così una specie di doppio vantaggio: si liberavano di cose inutili ottenendo in cambio oggetti che potevano servire. Nessuno può dire con certezza le ragioni dell’amicizia tra i due ma era plausibile che fosse proprio il buon Conegrina ad aver attaccato bottone all’anziano guardapesca, scalfendone la riottosità fino a conquistarsi l’amicizia. Comunque fossero andate le cose è certo che Alighiero Dentoni raccomandò con insistenza l’ambulante all’assessore provinciale Fernando Chiurlazzi, titolare della delega alla pesca. Quest’ultimo, potendo decidere come procedere alla sua sostituzione, optò per l’atto diretto di nomina, raccomandando al Dentoni un adeguato periodo di affiancamento.Mi raccomando,eh? Non perdiamo tempo con tutte quelle balle della burocrazia ma, attenzione: non voglio guai. Quello lì che mi hai segnalato dev’essere all’altezza e ne rispondi tu di persona se succede qualcosa,intesi?”. Il “Carabiniere”, borbottò delle rassicurazioni: “ Stia tranquillo, assessore. Garantisco io”. Il Chiurlazzi, di fronte ad una frase del genere si tranquillizzò, rammentandosi che veniva spesso pronunciata anche dal suo grande maestro del quale teneva in ufficio, appeso al muro, una gigantografia con il petto sporgente, copia uguale e sputata del ritratto che teneva sulla scrivania suo padre che, negli anni trenta, era stato il podestà del paese. Nel frattempo,espletate le pratiche e venduta a buon prezzo la licenza mercatale che , considerata l’entità del giro d’affari e di clientela, faceva gola a molti, per Aquilino Bonello iniziò una nuova vita. L’affiancamento dimostrò quello che già s’intuiva: l’incredibile affiatamento tra i due che andavano non solo d’amore e d’accordo ma si comportavano come se l’uno fosse l’esatta copia dell’altro. Regolamento alla mano, sembrano le controfigure di Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi, i due famosissimi arbitri svizzeri di Giochi senza Frontiere. Mancava solo il celebre conto alla rovescia ( “Attention… Trois, Deux, Un… Fiiit!“) ma il doppio fischio finale, quello sì che c’era. Eccome se c’era: uguale, tremendo, inconfondibile. Due  acuti, perforanti sibili. Come ignorarli? Non si poteva far finta di niente. Quei suoni intimidatori, all’unisono e in perfetta sincronia, segnalano l’infrazione. Oppure, nel migliore dei casi, l’ammonimento. Entrambi in divisa, si comportano da veri e propri “sceriffi d’acqua dolce”. Conegrina, che è sempre stato uno sveglio, il regolamento se l’é studiato a memoria. Niente carte e foglietti ( che se vanno in acqua si rovinano) ma tutto in testa, ben impresso nella zucca ormai priva di capelli. Non sfuggiva nessun particolare, ai due. Nessun dubbio o incertezza su quali attrezzi fossero consentiti e quali altri proibiti; una precisione invidiabile per i periodi e le situazioni in cui si potevano usare gli attrezzi a inganno, come il bertovello o la nassa . La lenza da fondo, la “lignola”? “Al massimo con 30 ami e mai e poi mai dal 25 aprile al 31 maggio”.

 

Il lato delle maglie della rete interna di un tremaglio? “Non inferiore a trenta millimetri”. E la  sciabica, quella che un tempo veniva  chiamata  la  “persichéra”, una rete con una sacca particolarmente allungata, utilizzata per la pesca del pesce persico? “ Guai a metterla in acqua, ora come ora”. Si aveva quasi il sospetto, e a pensar male si fa peccatomi si indovina, che si divertissero a comportarsi da carogne. Al Dentoni, pur incassando già l’assegno della pensione, non passava nemmeno dall’anticamera del cervello l’idea di mollare. Si era riciclato come guardapesca volontario. Giorni addietro sono stati visti all’opera, con uno sprovveduto pescatore della domenica che aveva chiesto ad entrambi delle informazioni. Sono partiti a raffica: “ Deve sapere che la pesca è consentita a partire da un’ora prima del levar del sole sino ad un’ora dopo il tramonto, da queste parti. Dovesse recarsi invece sul lago Maggiore è tutta un’altra storia perché là valgono le disposizioni della convenzione Italo-Elvetica. Le raccomandiamo i divieti; stia molto attento perché qui non si può sgarrare”. Il malcapitato si è sorbito l’intero calendario di pesca.”Dal 25 aprile al 31 maggio, niente persici. Per la trota di lago , da metà ottobre alla fine di gennaio. Luccio da metà febbraio a metà marzo. Niente carpe, cavedani, tinche per tutto giugno. La pesca all’anguilla è consentita anche nelle ore notturne, ma solo sul Maggiore. Qui da noi, stia tranquillo, non ne prenderà nemmeno una”. Il sorrisetto sornione di Aquilino tradisce una punta, tutt’altro che impercettibile, di cinico sarcasmo. E via con le misure minime delle specie pescabili: dai 18 centimetri del persico ai 30 del luccio. Aggiornatissimi, non si fanno sfuggire le novità. Un esempio? Eccolo: “ La misura minima per la pesca della trota? Modificata da cm. 22 a cm 30. Con esclusione della trota mormorata,  la cui lunghezza minima è confermata in cm. 35 e della trota iridea,  la cui cattura è disciplinata a parte. Entrata in vigore, seppure in via sperimentale? Dall’alba dell’ultima domenica di febbraio”. Annichilito e esausto, il tipo ha ringraziato e, fatto dietrofront, ha riposto la canna da pesca nel baule dell’auto e se n’è andato. Forse, agli “sceriffi”, bisogna che qualcuno gli dica di non esagerare. Ammesso che si trovi qualcuno che abbia tanto coraggio e che, in ogni caso, non sia pescatore, evitando ritorsioni.

Marco Travaglini

Marietta e le donne del burro

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Marietta, originaria di Sovazza, si era trasferita a Baveno dopo aver sposato – non più giovanissima – Oliviero Brenti, dipendente della Navigazione del Lago Maggiore che divideva la sua attività tra l’imbarco bavenese e lo scalo di Carciano


 Con i suoi lavori da domestica, Marietta integrava il magro reddito familiare dopo il pensionamento anticipato del marito che, da sempre cagionevole di salute, aveva bisogno di frequenti cure mediche. Da ragazza era stata una delle donne “del burro” che dai paesi del Mottarone – Armeno, Sovazza e Coiromonte , partivano a piedi nel cuore della notte con la gerla in spalla per vendere il burro sui mercati dei due laghi. Era una fatica non da poco, alla quale si sottoponevano per il desiderio – e la necessità – di realizzare un sia pur modesto guadagno che compensasse i loro sforzi. Nei giorni che precedevano ilviaggio, nelle stalle degli alpeggi del Mottarone, la panna del latte appena munto veniva versata nel cilindro delle zangole e le donne iniziavano a sbatterla agitando lo stantuffo. Dopo un paio d’ore di continua agitazione, il burro era pronto per essere tagliato nei panetti di vario peso, pronti a raggiungere le cucine di Omegna, Orta, Stresa e Baveno. Le  donne “del burro” partivano per la stessa meta sempre in coppia, per maggior sicurezza. Una lanterna in mano, per rischiarare il sentiero nelle notti senza luna, il carico ben disposto nella gerla e un passo di montagna che dava conto di quanta forza poteva infondere la necessità. Quando le coppie s’incontravano, prima di lasciarsi alle spalle le viuzze dei borghi di montagna s’udiva un bisbigliare di saluti che, mano a mano s’allontanava dalle case, diventava sempre più tenue, fino a sfumare nel silenzio notturno. Già prima dell’alba, anticipando il cantare del gallo, le donne avevano raggiunto le loro mete, iniziando un meticoloso giro tra le case, secondo un copione che nessuno aveva mai scritto ma che veniva riproposto ogni volta, come un abitudine consolidata tra chi acquistava e chi vendeva. C’era chi ritirava e pagava il burro limitandosi a uno scarno cenno di saluto e chi, invece, moriva dalla voglia di “attaccar bottone” con quelle ragazze che venivano giù dai monti. C’era chi chiedeva il loro nome e quali fossero i loro legami di parentela; chi offriva una tazzina di caffè nero, preparato nel pentolino sulla fiamma del camino e chi accompagnava l’offerta della bevanda calda con una ciambella dolce o un pezzo di pane e formaggio. S’intrecciavano, nel tempo, conoscenze e amicizie.A volte anche simpatie che sfociavano in veri e propri amori, com’era successo tra Marietta e Oliviero. Le donne  “del burro“, finito il giro dei clienti si recavano nelle botteghe dove – impegnando una parte del loro guadagno – acquistavano provviste, stoffe e filati, sapone e fiammiferi. Nella gerla ormai vuota di ognuna veniva riposta la mercanzia e, dopo un ultimo saluto, si avviavano sul cammino del ritorno. All’arrivo, in tempo per l’ultimo vespro prima che la luce del tramonto lasciasse il passo alla sera, era gran festa. Per i piccoli c’era sempre una fetta larga di pane bianco o con l’uvetta e sul tagliere, accompagnando le fette di polenta, non mancavano formaggio e salame. Talvolta anche un mezzo litro di vino rosso. La fatica di quelle donne andava in qualche modo risarcita e il calore che si creava attorno a loro e ai “misteri” contenuti nelle gerle, svelati man mano che si svuotavano. Oggi come oggi il burro con la zangola, su all’alpe, lo fanno in pochi e non si scende più a piedi dai sentieri, sotto le stelle, per venderlo sull’uscio. Adesso ci sono i caseifici, le latterie turnarie, i grossisti che vanno a prendere il latte e lo trasformano. E le donne “del burro” sono solo un ricordo del passato

Marco Travaglini

 

Valontan, una storia di provincia

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A Brunello Martoccini era nato un figlio. Una bella notizia per  l’anziano zio, il signor Virgilio Borlazza, che viveva a Romentino, nel novarese. Contadino in pensione, Virgilio, aveva promesso al nipote che avrebbe fatto da padrino al battesimo del primo figlio

Brunello, nel frattempo, si era trasferito a Torino. Quindi era lì, nella capitale sabauda, che doveva recarsi.  Nessun problema, a parte uno. In verità non un grande problema ma piuttosto, come dire?, delicato: il mal d’auto che Virgilio soffriva con particolare disagio. Anche da giovane, quando capitava di prendere la corriera alla fermata, davanti al cascinale dei Borlazza, appena messo il piede sul gradino avvertiva quel malessere che agguanta lo stomaco e lo strizza ben bene. “Comunque, la parola data va mantenuta”. E  il signor Virgilio non era uomo da venir meno alle promesse. “Piuttosto faccio il viaggio con la testa fuori dal finestrino ma quando il prete bagna la testa dell’Edoardo(questo il nome  scelto per l’erede di casa Martoccini)  devo esser lì, altro che balle!”, affermava deciso l’anziano contadino.La moglie , la signora Adele, doveva ritirare dei medicinali prescritti dal medico e , cogliendo al balzo l’occasione, per non perder tempo,  lo spedì in farmacia , raccomandandogli di acquistare anche delle pillole utili a contrastare quella fastidiosa nausea che alcuni, come lui, provavano durante i lunghi viaggi in automobile. Virgilio non si fece pregare, consapevole com’era che le decisioni della moglie erano irrevocabili e che a nulla sarebbe valso opporvi resistenza. Dunque, andò. In pochi minuti, raggiunta la farmacia e varcata la soglia, si trovò una sorpresa che avrebbe voluto evitare: dietro al bancone non c’era il farmacista D’Intrugli ma sua moglie, una signora un po’ impicciona e molto, ma molto curiosa.“Oddio, proprio quella lì mi toccava d’incontrare. E’ quasi peggio dell’Ercolino, quel gran rompiballe di mio nipote ”, sospirò Virgilio. Dopo lo scambio di saluti , molto formale e piuttosto freddino,  l’anziano allungò la ricetta sul bancone  e aggiunse: “..mi servono anche le pastiglie per l’auto”.  La moglie del farmacista, alzando gli occhi dal foglio, lo guardò negli occhi e chiese: “Valontan?”. Virgilio, contrariato per la domanda, borbottò dentro di sé..”Eccola qua, la curiosa. Vuol sapere dove vado,eh? Ma io non gli dico un bel niente”. E stette zitto. La signora intanto, voltando le spalle all’anziano,  cercava sugli scaffali le medicine, mormorando  tra sè e sè , “Valontan”.Virgilio, che aveva l’udito buono, a dispetto dell’età,  scosse la testa e pensò: “Di nuovo. Eccola che insiste. Non riesce proprio a farsi i fatti suoi…Ma io starò muto come una tomba e la soddisfazione di dirle dove devo andare proprio non gliela dò”. La farmacista, raccolte le confezioni sul bancone, rilesse quanto stava scritto sulla ricetta.. “Allora, vediamo un po’. Supposte di glicerina..sì..sciroppo per la tosse..eccolo.. antibiotico e antipiretico sono qui. Ah… ecco..Valontan”.Virgilio, esasperato dall’invadenza, rispose seccato: “Vado a Torino. Contenta, adesso? ”.La signora, sgranando gli occhi, disse:”Ma signor Virgilio, io non volevo sapere dove andrà lei. Valontan è il nome delle pastiglie”. L’anziano però non le credette. Pagò le medicine, ritirò la merce e lo scontrino e, prima di andarsene le disse: “Eh, sì! Altro che non vuol saperlo, la scìura farmacista. Ma se me l’ha chiesto tre volte, cara Madonna!  Farsi i fatti propri mai, eh..? Buongiorno”.

Marco Travaglini

Mariolino e la guida dell’uomo “col cappello”

Da qualche anno possiedo una barca. E’ la Lampreda, cedutami a poco prezzo dal vecchio Lino Sgambarolli, costretto a buttar l’ancora sulla terraferma a causa dei reumatismi e della sciatica che l’hanno piegato in due.

La “sua” Lampreda era la terza di una serie. Diventata mia, riverniciata di bianco e d’azzurro, si è guadagnata il titolo di quarta. Lino mi aveva lasciato piena libertà. “Il nome deve essere quello che più ti piace. Non c’è l’obbligo di tener lo stesso e lo puoi cambiare, tanto lei – che la si chiami per nome o no –  volterà la prua dove decidi tu, manovrando il timone o il colpo di remi. Ma se ti garba chiamarla come l’ho chiamata io, fai una cosa: ribattezzala “quarta”, così la storia va avanti”. Mi raccontò che prima di lei c’erano state altre due Lamprede. La prima, messa in acqua, sul finire degli anni trenta s’inabissò nell’agosto del 1944 davanti alla Punta di Crabbia, dov’era ormeggiata. Un aereo tedesco, volando sul lago in appoggio a un rastrellamento contro i partigiani del Mottarone, tanto per sfogare la sua rabbia impotente visto che i partigiani se ne stavano nascosti nei boschi, la  colpì a morte con una raffica di mitraglia , sventrandole entrambe le fiancate. La seconda barca era stata bagnata nel maggio del 1947, dopo quasi tre anni durante i quali Lino fu costretto ad una lontananza forzata dal lago, minatore prima e scalpellino poi in terra di Francia, dalle parti di Lione. I magri guadagni lasciavano ben poco alla speranza di metter qualcosa da parte ma quei quattro franchi in croce e qualche lira racimolata vendendo un boschetto di castagni dalle parti di Brolo gli bastarono per l’acquisto di una modesta ma robusta lancia da lago. Per trent’anni Lino e la sua barca hanno attraversato in lungo e in largo il Cusio, pescando in ogni dove, con ogni tempo e in tutte le stagioni dell’anno. Fatto salvi, ovviamente, i periodi di ferma. Dalle rive lo salutavano, nei mercati si vendevano i suoi pesci ( almeno finché l’ammoniaca, il cromo e gli altri veleni non trasformarono, a poco a poco, l’acqua in aceto), nelle osterie capitava di ascoltare le sue storie al modico prezzo di un quartino di barbera del Monferrato. A metà degli anni ’80, una massiccia immissione di carbonato di calcio,  riportò l’acqua ad un valore accettabile di acidità. Quella grande pastigliona di bicarbonato fece digerire il lago, tanto che i pesci – dopo tanto boccheggiare – tornarono a respirare e Lino si rimise a pescarli con la sua Lampreda ( la seconda, appunto). Giunta alle soglie del pensionamento forzoso, dopo più di trent’anni di onesta navigazione, figli e nipoti gli fecero una grande sorpresa, regalandogli un gioiello di barca, uscita fresca, fresca  dai cantieri navali di Solcio, sul lago Maggiore. La forma aguzza, slanciata; il fasciame di legno liscio e brillante, gli scalmi d’acciaio inossidabile, lucidi come i pomelli della stufa dell’osteria dove andava a far bisboccia. Un bijoux che si è goduto per poco. Lino è stato un gran vogatore che solo negli ultimi anni si è arreso al motore. Io non ho la sua tempra e seppur non disdegnando d’infilare i remi negli scalmi e darci dentro a bracciate regolari, uso frequentemente il motore. Al calare della sera, tiro in secca la barca nei pressi dell’ex Canottieri, dalle parti dell’Ospedale della Madonna del Popolo. A volte la ricovero da Mariolino, alla Bagnera di Orta. Una soluzione abbastanza comoda, dato che possiede uno sgabbiotto, chiuso con catena e lucchetto, dove si possono ritirare remi e motore. A far la guardia c’è Lupo, il cane di Mariolino: un bastardino bianco e nero che tira fuori i denti e ringhia proprio come un lupo quando s’avvicina un estraneo. “ Il tuo motore è come in banca, lì dentro”, rassicura Mariolino. Non ne dubito affatto. Lupo  esegue l’incarico come un mastino. E se il suo padrone gli dice di star di sentinella ( proprio così..”di sentinella” ) si può scommettere che lui ci mette una grinta sufficiente a scoraggiare i malintenzionati. Mariolino è fortunato ad avere, come “migliore amico dell’uomo” quel cagnetto. Sono sempre insieme, anche quando Mariolino guida la sua vecchia NSU Prinz. Lupo guarda fuori dal finestrino laterale, ringhia alle auto, abbaia alle luci colorate del semaforo, scodinzola quando si passa davanti all’osteria dove la signora Maria spesso gli “allunga” un cartoccio d’avanzi. Il problema è che  Mariolino, con la sua guida da “uomo col cappello”,  fa venire i brividi gelati lungo la schiena. Avete presente quella categoria di automobilisti che, con il loro stile di guida, fanno dannare l’anima? Se si ha la sventura di incontrarne uno così, magari su una strada stretta e tutta curve, o – peggio – essere costretti a stargli dietro mentre arranca sui tornanti, non ci sarà alcun bisogno di usare la tenaglia per strapparvi dalla gola il peggior campionario di accidenti, riversandoglielo addosso. Perché quando si mette al volante un “uomo col cappello” sono guai seri. Non superano mai i trenta all’ora, viaggiano a centro strada, frenano in continuazione, pigiano continuamente il clacson. Impermeabili a tutto: impettiti, con gli avambracci tesi e le mani intente a strangolare il volante. In più, come un distintivo, l’immancabile copricapo ben calcato sulla nuca. In casi come questi il vero malcapitato sei tu, povero diavolo, costretto a guidare a passo d’uomo, alternando il piede da un pedale all’altro: acceleratore ,freno, frizione. Cambio. Freno, acceleratore. Attento a non tamponarlo,  roso dall’indecisione sull’eventuale sorpasso. Manovra, quest’ultima, caldamente sconsigliata: l’uomo col cappello può decidere di svoltare da un momento all’altro, senza preavviso e, dunque, senza mettere la freccia. L’assoluta certezza che lo anima è proporzionale all’incapacità che manifesta impugnando il volante. Dunque, mai sottovalutare chi guida con il cappello. Non conviene contraddirlo. Non mettetegli fretta, armatevi di pazienza e fatevene una ragione. Ecco, Mariolino è uno di questi. L’ esatto contrario del mito futurista della velocità. Più lento della lentezza ma senza alternativa: prendere o lasciare. Si vede proprio che chi nasce uomo d’acqua fa fatica a muoversi con quattro ruote sulla terraferma.

Marco Travaglini

“I pifferi di montagna vennero per suonare e furono suonati”

Un giorno che stavamo pescando in barca dalle parti di Oira – eravamo, mi pare, a fine marzo – Faustino si appisolò, tenendo la canna appoggiata sotto le gambe incrociate. L’abbiocco gli era venuto perché, la sera prima, era stato al circolo di Brolo a far bisboccia con una compagnia di tiratardi.

Nel dormiveglia aveva assunto quella posizione da fachiro che, a prima vista, non doveva nemmeno trovare tanto scomoda. Stavamo pescando le tinche a fondo, con la polenta. Il galleggiante – una bella e robusta “trottola” di sughero bianca e blu – sparì improvvisamente sott’acqua. Una tirata così secca lasciava intuire, senza margine d’errore, l’abboccata famelica di una bella sberla di pesce.La canna subì uno strappo netto, deciso. Faustino, svegliandosi bruscamente, l’agguantò al volo, scattando in piedi. Un movimento fatale che gli fece perdere l’equilibrio. La scena era quasi comica. Cominciò ad annaspare nell’aria, ricercando un appiglio che non c’era. Sembrava un goffo gabbiano che, dispiegate le ali, cercava di volare senza staccarsi da terra. Cadde pesantemente in acqua prima che potessi in qualche modo aiutarlo. L’attaccatura del  mulinello s’incastrò nello scalmo, bloccando la canna, ormai per metà inabissata. Faustino, nuotando a cagnaccio , stava faticosamente a galla. Aggrappatosi alla mia mano tesa, non senza fatica, riuscì a issarsi nuovamente sull’imbarcazione, facendola dondolare pericolosamente. Mancò poco che la barca si rovesciasse e che finissi anch’io in acqua. Bagnato fino al midollo, si levò i vestiti fradici. La cerata con cui coprivo la barca tornò utile al fine d’evitare lo spettacolo poco attraente del mio amico in mutande. Le parole che pronunciò, per quanto scarse, non credo sia il caso di trascriverle. Tra lago e cielo, i destinatari erano facilmente intuibili. Tempo una decina di minuti e, attraccata la barca al molo di Oira, eravamo nella cucina del Clemente Cristoforo, detto “Cavezzale”.

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Il nostro amico, pescatore anche lui, appena aperta la porta di casa e viste le condizioni di Faustino che, oltre a tremare come una foglia per il freddo, ansimava come un mantice, organizzò il pronto intervento: mastello d’acqua calda per il pediluvio, coperta di lana e un bel bicchiere di Barbera. Rinfrancatosi nel corpo e nello spirito,davanti ad una bottiglia di quello buono (Cavezzale ne teneva una sempre pronta, a portata di mano, per le “emergenze”)  Faustino diventò loquace e in vena di ricordi. Il tuffo fuori stagione gli rammentò la volta in cui dovette nascondersi nel fosso di una risaia dalle parti di Vignale, alle porte di Novara. Era di maggio, verso la metà del mese. L’anno non poteva certo scordarselo: il 1953. “ A quel tempo ero un giovane operaio e da meno di un anno ero stato indicato dal partito a rappresentarne l’organizzazione

 

giovanile a livello provinciale. Allora mi avanzava poco tempo per pescare le anguille”. Faustino  Girella-Nobiletti era stato uno dei più brillanti e vivaci dirigenti della gioventù comunista novarese nei primi anni cinquanta. Un’attivista coi fiocchi. Tanto bravo e affidabile che un giorno, su richiesta del senatore Leone, venne inviato a Vercelli.I comunisti della città del riso avevano

 

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Nel tentativo di ottenere quel premio di maggioranza nelle elezioni politiche di giugno,la Democrazia Cristiana e altri cinque partiti (Partito Socialdemocratico,Partito Liberale, Partito Repubblicano,la Südtiroler Volkspartei e il Partito Sardo d’Azione) effettuarono fra loro l’apparentamento. “Noi, tutta la sinistra e personalità come Ferruccio Parri e Piero Calamandrei avversammo con forza quella legge”. Aggiunse come nel Paese fosse ancora vivo il ricordo della “legge Acerbo”, voluta da Mussolini pochi mesi dopo la Marcia su Roma. In base a quella legge, la lista che prendeva più voti otteneva i due terzi dei seggi. E fu così che il “listone fascista” , grazie ai brogli e alle intimidazioni delle squadracce, nel 1924 ottenne il 64,9 per cento dei voti, dando il via libera al regime. Comunque, tornando al racconto, in quei giorni Faustino preparò il suo “corredo”. Infilò nel tascapane un po’ di vestiario di ricambio, la tuta, due pennelli ( “per le scritte murali”), una pagnotta di segale e una piccola toma di formaggio del Mottarone. Giunto a Vercelli con il treno, si recò alla sede del Pci dove ad attenderlo c’era Francesco Leone. Il senatore era un personaggio di prim’ordine. Noto antifascista, tra i fondatori del Partito Comunista, era stato comandante di formazioni antifranchiste durante la guerra civile spagnola e dirigente di spicco della Resistenza. La prima sorpresa l’ebbe in quel momento. L’incarico che egli era stato riservato consisteva nel contattare i vecchi monarchici vercellesi e, spacciandosi per un inviato della casa Reale ( i Savoia erano in esilio a Cascais , in Portogallo), doveva invitarli a mobilitarsi contro quella legge-tagliola.

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Del resto, in Parlamento, i rappresentanti del Partito Nazionale Monarchico avevano votato contro. Il “corredo” restò nel tascapane e gli venne consegnato un completo grigio scuro che gli andava un po’ stretto di spalle, corto di maniche e lungo di gamba ma a quei tempi non si badava troppo ai particolari. Anche a un inviato dei Savoia, in quegli anni del dopoguerra, si potevano perdonare dei difettucci sartoriali. Il falso anello con il sigillo della Real Casa invece gli andava a pennello. Bello, grande, solido:sarebbe parso vero in tutto per tutto anche all’esame dei più esperti conoscitori. Merito di Gianandrea Fiorino, un artigiano orafo di Valenza che aveva fatto il partigiano in Valsesia con Cino Moscatelli. “Mi venne da ridere, guardandomi allo specchio”, confidò Faustino. Rise ancora di più quando, appreso che sua madre vedova dimorava a Pratolungo, una frazione di Pettenasco, sfruttando il suo doppio cognome, il Partito decise di affibbiargli il titolo nobiliare: Fausto Girella-Nobiletti, Conte di Pratolungo. Si sganasciò pensando a un suo amico e compagno, sindacalista della FIOT-CGIL, la federazione nazionale italiana operai tessili. Lui sì che portava un nome e un cognome che era tutto un programma: Umberto Re. In fondo, sarebbe bastato invertire la sequenza con cognome e nome e, voilà: la più alta carica dei Savoia. Ma, forse, non era il caso di esagerare. Comunque, da quel momento e per oltre due settimane, con la nuova identità, girò in lungo e in largo il vercellese. Dal tè e pasticcini nei salotti di anziane dame ai cascinali dove vivevano contadini, mezzadri e fittavoli rimasti fedeli alla Corona, Faustino si dava da fare come un dannato per spiegare e convincere i suoi interlocutori che Sua Maestà , il Re Umberto II d’Italia, vedeva come il fumo negli occhi quel disegno ordito dai democristiani e dai loro alleati, del quale“l’ignobile legge” rappresentava l’arma più subdola e pericolosa. In fondo, da quanto s’intuiva, il “Re di Maggio” non la pensava in modo poi tanto diverso. Dunque, bastava calcare la mano un po’ qua e un po’ là per scaldare le passioni represse dei fedelissimi dei Savoia. Tutto andò liscio, tra baciamano e saluti militareschi, finché non accadde il guaio. E che guaio! In uno dei giri, sull’aia di un cascinale dove aveva appuntamento con un anziano veterinario nostalgico, udì un canto che conosceva bene, anzi, benissimo: “Son la mondina, son la sfruttata, son la proletaria che giammai tremò:mi hanno uccisa, incatenata, carcere e violenza, nulla mi fermò. Coi nostri corpi sulle rotaie,noi abbiam fermato i nostri sfruttator; c’è molto fango sulle risaie,ma non porta macchia il simbol del lavor..”.

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Si era imbattuto, colmo della sfortuna,in un gruppo di mondine. Alcune di loro, l’anno prima, avevano partecipato alle lotte sindacali per i contratti, il salario e l’occupazione nelle risaie di Lumellogno, nella bassa novarese. Lì avevano conosciuto Faustino nella sua veste di dirigente dei giovani comunisti. Una di loro, oltretutto, una morettina di un paese vicino a Reggio Emilia, l’aveva conosciuto proprio bene e a fondo. Quando lo videro, vestito come un signore, parlare fitto con quel vecchio monarchico, tenendolo per di più sotto braccio, ammutolirono. Lo sconcerto durò pochi secondi e poi, come un temporale estivo, si scatenò il putiferio. Insultandolo in tutti i modi possibili ( “traditore”, “venduto”, “carogna”, “voltagabbana” )fecero correre il malcapitato a perdifiato fin quando riuscì a nascondersi in un fosso pieno d’acqua. A mollo, insieme alle rane, ci stette fino a notte tarda. Scampato il pericolo, nei giorni successivi tornò a casa, con una tosse carogna e un raffreddore tremendo. La settimana dopo, il 7 giugno 1953, all’apertura dei seggi,la vittoria del blocco centrista sembra scontata. I “forchettoni”, come li chiamava Pajetta, si apprestavano a spartirsi la torta elettorale. E invece accadde il miracolo. Con grande sorpresa, lunedì 8, dal voto degli italiani le forze politiche della coalizione ottennero solamente il 49,85% non usufruendo così del premio di maggioranza, annullando gli effetti della legge che più tardi venne pure abrogata. Per circa 57 mila voti non scattò il premio di maggioranza. Rispetto al 1948 la Dc perse l’8,4 per cento e tutte le liste apparentate arretrarono. Il Pci ottenne il 22,6 per cento, il Psi il 12,7. I monarchici, a loro volta, passarono dal 2,8 al 6,9, più che raddoppiando i consensi. Il leader dei socialdemocratici, Giuseppe Saragat, sconsolato, esclamò: “La colpa è del destino cinico e baro”.Faustino, in cuor suo, restò convinto di aver dato una bella mano per far crescere il “cinismo” del destino. E pazienza se il giornale della Curia vercellese  – non si è mai saputo come –  gli dedicò un corsivo al vetriolo, titolato “pifferi di montagna vennero per suonare e furono suonati”. E così anche oggi, pur essendo passati tanti anni, nel ricordare la storia del suo “bagno” più famoso, non nascose il rammarico per “l’incidente” con le mondine. Si erano sì spiegati, più avanti, con alcune di loro ma aveva la sensazione che, pur fidandosi più del partito che di lui, non avessero compreso le ragioni strategiche che l’avessero portato a vestire, in quelle due settimane, i panni del Conte di Pratolungo.

 

Marco Travaglini