GIOVANNI FERRERO: "L'ANTIPOLITICA CHE VUOLE ABBATTERE COMUNI E REGIONI PER RIDURLI AD ENTI ASFALTATORI NON RENDE UN BUON SERVIZIO. SI DEVE SCOMMETTERE SU UNA NUOVA CLASSE DIRIGENTE DI GIOVANI"

"Per salvare la cultura a Torino bisogna usare le idee dell'innovazione come pennelli"

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LA CULTURA  A TORINO / 4

 

Il passato e il futuro della cultura. Intervista  con Giovanni Ferrero

 

“Unificare lo sforzo per la promozione turistica, lasciando ai musei una parte del ricavato dalle attività turistiche. Dare impulso alle direzioni artistiche fissando rigidi budget e chiedendo loro di scavare nel nuovo e di produrre localmente (serve a poco importare mostre). Accrescere le collezioni e non limitarsi a seguire le mode: le collezioni sono il vero canone di moralità perché le decisioni prese oggi verranno giudicate dal futuro. E poi bisogna aprire con forza lo spazio a defiscalizzazioni a sostegno del bene comune, come negli Stati Uniti o in paesi del Nord Europa. In concreto, molto si potrebbe fare per il turismo e per la cultura, ma bisogna correre, inventare cose nuove. Regalare le foto dei musei a Google serve a poco, forse è inevitabile ma di per sé non assicura ricadute locali”

 

A partire dagli anni 80, prima da assessore alla cultura e poi come dirigente della Fondazione CRT, lei è stato uno degli ispiratori della trasformazione di Torino da città industriale a città culturale e turistica. Basti citare, tra i progetti che ha promosso, il castello di Rivoli – Museo d’arte contemporanea, le residenze sabaude, il Museo del cinema. Oggi che il 90% di quei progetti è stato realizzato, che giudizio dà dei risultati raggiunti?

 

Certamente positivo, con un grande limite. Sono molto soddisfatto dei risultati conseguiti, e riconosco con gioia i meriti e l’impegno di quanti hanno continuato a lavorare su questi temi dopo il 1985. Credo, però, che i risultati che si sono ottenuti per l’economia del territorio non abbiano concorso a sostenere le istituzioni pubbliche che pure avevano contribuito a quei risultati. Questo potrebbe essere un primo terreno di discussione ed iniziativa. Non siamo più in una realtà dominata dalla fabbrica: una crescente parte di ricchezza nasce oggi dall’economia della conoscenza. Il mondo è cambiato e noi siamo cambiati con lui. Ma quello che è cambiato più radicalmente è il contesto istituzionale. Le politiche culturali e le istituzioni sostenute dal pubblico denaro erano parte di un disegno politico regionalista , “federale” ed unitario a livello nazionale. Oggi questo disegno è venuto meno.  Oggi dilaga l’illusione cavalcata dall’anti-politica che la cancellazione dei partiti, delle Regioni, magari la riduzione dei comuni a manutentori dell’asfalto urbano, la chiusura dei musei e delle istituzioni che non hanno entrate da mercato sufficienti al pareggio di bilancio, sia la strada per vivere ricchi e felici. Molti la  pensano così. Partiti, regioni ed asfalto hanno le loro pecche ben evidenti. In questo contesto, bene fa oggi il Governo ad adottare decisioni che non sono le migliori in astratto, ma sono le uniche oggi concretamente possibili.

Trasformare davvero lo stato centrale, però, è faticoso: temo che fra qualche anno dovremo fare i conti con la sua inadeguatezza. Emergerà che la vendetta delle attuali direzioni generali contro un regionalismo debole non ci avrà reso più forti in Europa e non ci avrà inseriti da protagonisti, quali potremmo essere per storia e cultura, tra Cina e Stati Uniti d’America.Ecco allora che la difesa e la trasformazione delle istituzioni, innanzitutto quelle culturali, di cui la Regione e il Comune di Torino si sono dotati, non è un problema settoriale: è la scommessa, unica praticabile a livello locale, per arrivare a quell’appuntamento con una nuova classe dirigente di giovani che sappia dare un apporto di livello nazionale. Le istituzioni culturali sono sempre stati i soggetti di elezione degli investimenti nei momenti di crisi, di transizione.

Suggerisco di dedicare il 90% dell’impegno intellettuale per tratteggiare i punti di forza della nostra realtà locale, per ricavare l’energia per completare, modificare e, perché no, rivoltare i risultati raggiunti e le istituzioni che li incarnano.

 

 

Un capitolo particolare, nel bilancio di ciò che si è realizzato in questi anni, è quello che riguarda l’arte contemporanea, di cui Torino è una delle capitali riconosciute. Eppure, le istituzioni che operano in questo campo – Rivoli, Gam, Sandretto – sono in difficoltà. Dobbiamo arrenderci all’idea che le istituzioni votate all’arte contemporanea siano troppe? Oppure è il segno della crisi dell’arte contemporanea, legato, magari, all’esaurirsi della grande stagione avviata dall’arte povera? O ancora, più semplicemente, è in crisi l’idea tradizionale della “forma museo”, che non si adatterebbe alle nuove forme di espressione?

 

Il massimo di sforzo per innovare, come ho detto, mantenendo le differenze e la dialettica tra punti di vista. Non penso che basti una riorganizzazione amministrativa, così come non credo che la crisi nasca dal numero di istituzioni. l problema posto è formidabile: provo solo a formulare delle modeste suggestioni.

Unificare lo sforzo per la promozione turistica, lasciando ai musei una parte del ricavato dalle attività turistiche. Dare impulso alle direzioni artistiche fissando rigidi budget e chiedendo loro di scavare nel nuovo e di produrre localmente (serve a poco importare mostre). Accrescere le collezioni e non limitarsi a seguire le mode: le collezioni sono il vero canone di moralità perché le decisioni prese oggi verranno giudicate dal futuro. Non farsi prendere dal berlusconismo (concordo con quanto detto da Enzo Biffi Gentili al riguardo). Venaria e Sandretto sono stati esempi di utilizzo di fondi strutturali per investimenti in infrastrutture. Perché non usare  fondi regionali e comunitari, secondo le opportunità permesse e con un po’ di fantasia, per dare gambe a soggetti economicamente sani e legati all’economia della conoscenza ? Il lavoro di un giovane costa al mese come una frazione di metro quadro di un edificio che poi costerà di gestione ed è sempre meno utile come mezzo di produzione.

Costringere chi tra gli artisti vuole spazio (conta la freschezza delle idee e non l’età anagrafica) a proporre cose radicali e stimolanti, che facciano discutere e che siano scomode; dobbiamo interrompere abitudini soporifere che sono la vera radice della crisi. E poi bisogna aprire con forza lo spazio a defiscalizzazioni a sostegno del bene comune, come negli Stati Uniti o in paesi del Nord Europa

Non si costruisce l’Arte Povera con Delibera o con Legge, ma si può cominciare a favorire l’ambizione di crescere dei giovani. Bisogna essere bravi abbastanza da fornire stimoli analoghi a quelli che la mia generazione ha avuto da grandi intellettuali che non hanno mai lasciato spazio, ma hanno insegnato a usare la propria testa e a prendersi lo spazio da soli, quando si era capaci di farlo.

 Sono sicuro che la parte pubblica debba sostenere luoghi che siano un riferimento per il dibattito e l’accumulo di conoscenza, nelle persone ( curatori e pubblico) e nelle cose (conoscenza, luoghi, oggetti). Non penso che esista una cultura senza istituzioni culturali; penso però che la qualità di un museo non sia la loro dimensione. Certo bisogna studiare forme nuove, ma per un motivo che è l’opposto dei luoghi comuni. Un po’ di multimedia-tecno-computerologia non salverà i musei. Ma una seria riflessione culturale che parta dalla passione per il bello che da sempre caratterizza il nostro paese può aiutare a capire questa enorme biblioteca di Alessandria d’Egitto, questa wundercammer senza limiti che sta diventando il nostro mondo. Gli strumenti di classificazione e controllo del mondo di ieri non ci servono per avere un ruolo degno della nostra storia nel mondo del futuro. Quindi cambiamo pure le istituzioni museali, ma non per ragioni contabili.

 

A Torino i consumatori di cultura sembrano essere soddisfatti dell’offerta artistica e culturale cittadina. Il mondo dell’organizzazione culturale e della produzione artistica, per contro, sembra vivere in una fase di depressione. In che modo, secondo lei, occorrerebbe rilanciare la produzione culturale e modernizzare le istituzioni, tenendo conto, tra le altre cose, che le risorse pubbliche o parapubbliche non ci sono più?

 

Forse non sarebbe male scontentare un po’ di pubblico locale. La cultura traguarda nuovi orizzonti, anche se riceve l’input di glorificare il potere del momento. Forse questo sforzo di accontentare il pubblico locale spiega in parte la depressione di cui lei parla. Se il mecenate è senza soldi e non ha idee grandi che stimolano l’artista, questi da sempre si lamenta, e sovente se ne va altrove.

Suggerisco, peraltro, di non prendersela troppo con gli assessori di turno.

Chi ha idee deve cominciare a realizzarle, a metterle in pratica e poi a metterle sotto il naso del Sindaco di Torino o del Presidente della Giunta Regionale, che, e qui non condivido Biffi Gentili, a mio parere sono preoccupati dell’attuale situazione, ma hanno scuola e stoffa per capire. Forse qui difendo la generazione mia, di Biffi e di Vanelli, più che il Partito Comunista Italiano.

Penso però che le risorse disponibili siano ancora ingenti: i risparmi delle famiglie, le inefficienze della spesa pubblica da riconvertire (ai tagli ci credo poco, se fosse così semplice qualcuno lo avrebbe già fatto!), i fondi regionali, nazionali ed europei se ben spesi (e completamente spesi), il credito bancario e le risorse delle Fondazioni.

Queste ultime non possono essere considerate come cassa per le politiche di Regione ed Enti Locali, ma soggetti che nella ricchezza di articolazioni della società italiana possono sperimentare innovazioni anche radicali nella organizzazione delle attività di pubblico interesse.  Autonome, ma con politiche discusse e valutate in modo pubblico e trasparente. Non ancelle della politica, ma neppure con l’ambizione di controllarla o di farsi controllori delle istituzioni dello Stato.

 

Lei è un grande esperto dei settori di avanguardia dell’interattività e dell’informatica “smart”. In che modo queste forme di comunicazione sono destinate a cambiare la produzione e il consumo culturale?

Internet è il passato. I Big Data sono la realtà di oggi. L’unificazione di tutti i contenuti su base digitale e la costruzione di piattaforme di uso individuale che cancellano lo spazio geografico e permettono l’interazione con una base di informazioni che non ha l’eguale nella storia dell’umanità sono ormai una realtà.

La manipolazione dell’informazione, la dinamica delle reti, l’enorme quantità di dati memorizzati sono realtà operanti e concrete: epidemiologia e genetica, elettronica di consumo e videogiochi, produzione individuale di cose attraverso dispositivi che trasformano l’informazione in oggetti senza l’uso delle mani o di una fabbrica hanno ormai invaso il mondo, insieme a potentissimi modelli di simulazione della realtà. Non ha quasi più senso parlare di microelettronica: questa, anzi, è uno tra i tanti esempi di manipolazione dell’informazione.  Ma qui mi ripeto: ci sono volumi sull’argomento. Ci sono in Piemonte migliaia di specialisti in questi campi. E ci sono, in Piemonte, milioni di persone che usano le tecnologie e vi partecipano in un modo che, a diversi livelli, è interattivo e quindi produce e non solo utilizza conoscenza. C’è chi come Banzi ha permesso con una piccola scheda elettronica che porta il nome di un re di Ivrea, Arduino, a chiunque, nel mondo, artista o artigiano, hobbista o studente, di realizzare progetti complessi di interazione uomo-macchina, o chi, come mio suocero che è stato tecnico progettista alle Ferriere Fiat, di passare, all’età di 94 anni, alcune ore al giorno a usare un tablet per sentirsi sempre parte viva del mondo.

Ogni giorno si produce informazione digitale equivalente a trecento miliardi di romanzi dell’ottocento.

Sul piano della cultura, vedo la possibilità di un’interazione in due sensi: usare le idee della scienza come pennelli per dipingere e usare la bellezza che hanno espresso i pennelli per far sì che la scommessa sul futuro veda l’umanesimo quale carta vincente.

In concreto, molto si potrebbe fare per il turismo e per la cultura, ma bisogna correre, inventare cose nuove. Regalare le foto dei musei a Google serve a poco, forse è inevitabile ma di per sé non assicura ricadute locali. Diverso sarebbe stato se lo avessimo fatto all’inizio di Internet, quando Bill Gates, non a caso, ha comprato codici di Leonardo. Ma vorrei concludere con una nota di incontenibile ottimismo: ho fiducia nei giovani, nella loro creatività, soprattutto in quelli che ci arrivano da ogni parte del mondo.

 

 

Le precedenti interviste pubblicate sul “Torinese”:

 

ALBERTO VANELLI

http://www.iltorinese.it/vanelli-generazione-imprenditori-creativi-per-aumentare-pil-torino-culturale/

http://www.iltorinese.it/sgarbi-torino-citta-bella-ditalia-imparato-mettersi-in-luce/