Consegnati i premi del 34° Torino Film Festival
Sipario sul 34° Torino Film Festival, grande contenitore di storie, con i suoi 15 film in concorso come pure con le altre sezioni, “Festa mobile” in prima fila, per non dimenticare in questa edizione la gran scelta di Gabriele Salvatores tra i “suoi” film, dove lo spettatore, il cinefilo, l’appassionato s’affannano a riempire gli spazi vuoti della giornata. E anche se quest’anno la selezione ufficiale non ha eccelso per particolarissimi esempi, pur con l’offerta di otto/nove esempi (su 15) su cui soffermarsi
con maggior attenzione, i nove giorni di vetrina cinematografica sono stati l’occasione per piccole scoperte, per discussioni, per frasi del tipo “mi raccomando, non perderti il tale perché in fondo merita davvero”, di code quasi sempre ordinate, di spauracchi a vederti negata una visione per le eccessiva affluenza, con le maschere in maglietta blu che fanno la conta per arrivare con esattezza alla capienza della sala. Un contenitore dove esistono linearità classica e fattori sperimentali, racconti e approfondimenti che fanno a pugni con vuote insulsaggini, l’Est e l’Ovest, le cinematografia con cui da sempre ci confrontiamo come l’Europa e un mondo lontano e appartato che non conosciamo, passato e presente, anticipazioni e golosità imperdibili e suggestioni che ritornano da un lontano passato (Antonioni o Costa-Gavras), drammi e
commedie, amori e guerre che ti rendono appieno il mondo in cui viviamo o abbiamo vissuto. E, soprattutto, il TFF è un festival che pensa al cinema, al suo prodotto primo, all’immagine concreta e no, che lascia il red carpet in un profilo basso, che s’è inventato con grazia la figura del guest director a supportare in un angolo di tutto rispetto Emanuela Martini (la domanda imperiosa degli ultimi giorni è stata ma Sorrentino verrà l’anno prossimo, glielo avete chiesto?), che non dovrebbe poi tanto temere un taglio di quattrini da parte delle autorità locali o dagli sponsor se quel taglio dovesse unicamente essere il peso per avere qualche nome scintillante in più, naturalmente da oltreoceano.

Quindici pellicole quindi da cui la giuria guidata dal direttore della fotografia Ed Lachman (ieri l’avevamo erroneamente affidata a Christopher Doyle, ancora un direttore della fotografia, già compagno di maestri cinesi come di Gus Van Sant o Neil Jordan o Barry Levinson, al quale quest’anno è stato consegnato il Gran Premio Torino) ha tratto i suoi premi. Miglior film come pure premio per la miglior sceneggiatura al cinese The donor di Qiwu Zang, “film così meravigliosamente penetrante e così poetico nella narrazione, nella performance, nella comprensione del mondo in cui proviamo a vivere”, vicenda senza
melodramma, umanamente lucida, disadorna, specchio di una povertà e di una ricchezza nel paese dell’eguaglianza, che, come sottolinea ancora la giuria, “mostra come la tradizione del Neorealismo italiano sia ancora viva in angoli remoti del globo”. Motivazione che, se nella sua ultima parte ci fa un po’ sorridere, non può far altro che inorgoglirci pensando al peso che una parte non indifferente del nostro (antico) cinema mantiene ancora oggi, all’inizio di un nuovo millennio. 
Rebecca Hall aveva davvero poche rivali e giustamente a lei per Christine è andato il premio quale miglior attrice, per il “personaggio commovente che è in conflitto emotivo con se stesso”, mentre era ancora un po’ presto affidare il premio maschile al “talento così giovane e promettente” di Nicolas Duran interprete del cileno Jesus, tralasciando l’interprete irrequieto di Avant les rues o il preciso François Cluzet di La mécanique de l’ombre o ancora il fratello scapestrato del francese Les derniers parisiens, film che forse meritava qualche riconoscimento al di là di una spregiudicata visione della realtà parigina, come andava egualmente preso in
considerazione l’eccellente Lady Macbeth. Quello che non convince è lo sguardo benevolo su Los decentes firmato dall’austriaco Lukas Valenta Rinner, Premio Speciale della Giuria poiché “esplora con grande sensibilità e penetrante spirito di osservazione”, sfilacciato, presuntuoso nel voler filosofeggiare intorno alla scoperta di un mondo migliore (?) da parte di una domestica che lavora in una casa bene di un privilegiato quartiere alla periferia di Buenos Aires, scoperta che ha il sapore e la fattura della barzelletta, con un finale di rumorose pistolettate che non concludono e non dimostrano nulla.
Elio Rabbione





prima prova narrativa, tra spostamenti temporali che cancellano non poco la chiarezza della vicenda, delle sensazioni, degli stati d’animo, con la fragilità di un’azione che alla fine si rivela decisamente inconcludente, si contrappone la durezza del cileno Jesus di Fernando Guzzoni. La storia di un ragazzo, della sua passione per la street dance, dei rapporti tempestosi con il padre, con cui trattare soltanto del maggior ordine nella casa o di una scuola a cui iscriversi, del suo perdersi nell’alcol e nella droga, un ritratto che non risparmia nulla, in cui i rapporti familiari sono pressoché zero con la conseguenza dell’idea che il branco sia l’unica soluzione, che la ragazzina di turno sia prontamente disponibile per un imperativo sessuale, che la stessa cosa possa succedere con l’amico cui si è più legati, in un rapporto omo di irruente immediatezza, senza ripensamenti. In quel perdersi capita che, nel panorama notturno di un parco abbandonato, Jesus e i suoi amici, ubriachi, irresponsabili, pestino a morte un altro ragazzo. La paura che sempre più s’impadronisce del ragazzo, mentre dal branco arrivano avvertimenti e minacce, fa sì che padre e figlio si sentano più vicini, che la richiesta d’aiuto venga ascoltata. Ma sino a quando? Preferirà forse il padre, vittima della propria durezza e disillusione, trovare una soluzione “migliore” per la rieducazione del figlio? A tratti davvero inconcepibile la forza con cui Guzzoni tratteggia e segue i suoi protagonisti, giovani e no, la rabbia e il vuoto che esiste in tutti, li fotografa sino all’annientamento di ogni regola, di ogni prospettiva per il futuro.

