FOCUS / di Filippo Re
Un po’ dimenticata e oscurata dalle crisi più gravi che investono i Paesi vicini, come la Libia, Algeri comincia a fare i conti con una situazione precaria e sempre meno stabile dal punto di vista politico
Algeria sull’orlo del precipizio? Con la caduta vertiginosa del prezzo di gas e petrolio, la disoccupazione galoppante, i sussidi statali in picchiata, le minacce di rivolte e lo spettro del ritorno del terrorismo islamico, anche questo Paese arabo rischia di aggiungersi al caos che investe il nord Africa. Tra le montagne del Sahara algerino e a sud nel deserto i jihadisti sono di nuovo pronti a colpire uno Stato che pare in disfacimento. È infatti salito il livello di allerta nelle Forze Armate algerine in seguito a recenti attacchi contro i militari impegnati a contrastrare le infiltrazioni di cellule estremiste sostenute da imam salafiti che incitano alla violenza e al fondamentalismo. Un po’ dimenticata e oscurata dalle crisi più gravi che investono i Paesi vicini, come la Libia, Algeri comincia a fare i conti con una situazione precaria e sempre meno stabile dal punto di vista politico.
Da oggi i riflettori sono accesi anche su questo gigante energetico arabo guidato da un presidente che non si vede quasi più, anziano e da tempo in cattive condizioni di salute, e non più in grado di guidare un Paese che pare sull’orlo del precipizio, in cui la crisi politica unita a quella economica si fanno sentire sempre di più. Un altro fronte caldo nel Maghreb o forse un’altra Libia sul punto di implodere sulla costa meridionale del Mediterraneo? È presto per dirlo ma, se accadesse, i contraccolpi sarebbero molto gravi per l’Europa e soprattutto per l’Italia che importa un terzo del gas e del petrolio algerino e ha quasi 200 imprese che operano sul territorio tra cui Eni, Ansaldo, Enel e Bonatti. Ma il pericolo maggiore resta l’estremismo islamico che trasformerebbe il Paese in una nuova polveriera nordafricana. L’Algeria è diventata un grande crocevia per chi raggiunge la Libia, confina con Stati come il Mali e il Niger dove il terrorismo imperversa e ha un vasto territorio in parte controllato da bande criminali spesso alleate con movimenti integralisti. Gli scontri armati tra terroristi e militari algerini sono frequenti e la penetrazione di terroristi dell’Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e di gruppi affiliati all’Isis sono quasi quotidiani e molto forte è l’influenza del gruppo salafita qaedista guidato dall’algerino Mokhtar Belmokhtar (più volte dato per morto) che si è poi unito al Mujao, il Movimento per l’Unità e la Jihad in Africa occidentale, nato nel 2011 in seguito a una scissione
dall’Aqmi. Nell’Algeria in crisi avanzano i fondamentalisti e con essi carovane di predicatori che infiammano i maghrebini con sermoni violenti e reazionari come fece un anno fa il capo salafita algerino Abdel Fattah Zarawi che lanciò la proposta di chiudere tutte le chiese cristiane presenti in Algeria e trasformarle in moschee. Una campagna anti-chiese che fece molto scalpore in cui anche la basilica di Notre Dame d’Afrique ad Algeri e la chiesa di Sant’Agostino ad Annaba venivano indicate come “resti” dell’epoca coloniale da cui il Paese doveva essere liberato. Ma l’opposizione politica lamenta anche il vuoto di potere che aleggia sulla capitale dominata dal palazzo presidenziale di un presidente fantasma, l’ottantenne Abdelaziz Bouteflika, che non compare in pubblico da due anni, e boccia con durezza la riforma costituzionale approvata di recente dal Parlamento che limiterà a due rielezioni il mandato presidenziale e riconoscerà la lingua berbera come secondo idioma del Paese. E si fanno sempre più insistenti le voci che a governare il Paese non sia più in realtà Bouteflika, eletto nel 1999 e confermato due anni fa per il quarto mandato, e nemmeno i suoi più stretti collaboratori ma personaggi del complesso economico e militare che gestirebbero gli affari statali nel nome del capo dello Stato. La questione della successione è dunque all’ordine del giorno ma dietro di essa si è accesa una lotta per il potere che starebbe coinvolgendo anche i servizi di sicurezza e settori dell’esercito. Nel frattempo tutto resta bloccato per vedere cosa accadrà ai vertici della Repubblica.
Ma ciò che a questo punto rischia di saltare è il “patto sociale” siglato a suo tempo dal governo con l’opposizione per ricostruire una nazione uscita sconvolta e disastrata dalla guerra civile negli anni Novanta. Con la ricchezza di gas e petrolio Bouteflika ha potuto rimettere in piedi l’Algeria restituendo “benessere” e sicurezza agli algerini. Si è tornati a investire in case popolari e scuole, sono stati aumentati gli stipendi dei dipendenti pubblici e ripristinati i sussidi alle fasce più povere della popolazione elargendo aiuti per pagare l’acqua, la luce e i generi alimentari. Ma questa manna piovuta dal cielo, che servì anche a tenere tranquilli gli algerini durante le “primavere arabe”, è finita o sta per esaurirsi a causa della caduta del prezzo del greggio. La netta contrazione dei prezzi degli idrocarburi potrebbe avere gravi conseguenze politiche e sociali su un Paese come l’Algeria la cui fonte primaria di reddito sono le esportazioni energetiche. Il crollo del prezzo del greggio ha fatto abbassare le entrate da 70 miliardi di dollari nel 2012 a 35 miliardi nel 2015 e per quest’anno i ricavi dovrebbero essere ancora più bassi, attorno ai 26-30 miliardi di dollari. La fine dei sussidi farà crescere il malcontento popolare, beni e servizi pubblici costeranno di più e i salari ai dipendenti statali verranno ridotti o non pagati. Lo scenario futuro è fosco e denso di incognite. Le rivolte potrebbero rendere ancora più instabile l’Algeria che non ha mai dimenticato i 200.000 morti nella stagione del terrorismo degli anni Novanta e lo stallo politico permanente potrebbe favorire l’avanzata dell’Isis e di altre formazioni combattenti. Diventata indipendente nel 1962 dopo otto anni di sanguinosa guerra contro la Francia (le vittime, per il governo algerino, furono oltre 1 milione, in gran parte civili), l’Algeria è stata governata dal Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) fino al 1989. Il leader della lotta di liberazione dal colonialismo francese fu Ben Bella che dovette frenare le spinte religiose degli ulema che volevano trasformare l’Algeria in un Paese islamico. Ben Bella, di orientamento socialista, nazionalizzò i beni francesi e tentò la strada dell’autogestione delle risorse economiche che fallì in modo disastroso.
Quando il Paese fu avviato sulla strada della modernizzazione esplosero le tensioni con i fondamentalisti islamici e con la minoranza berbera. Le prime elezioni multipartitiche si svolsero nel dicembre 1991 e furono vinte dai radicali del Fronte Islamico di Salvezza (Fis) di Abassi Madani e di Ali Belhadj ma il risultato delle urne venne dichiarato nullo dall’esercito che nel 1992 prese il potere con un colpo di Stato e dichiarò fuorilegge il Fronte Islamico innescando una vera e propria guerra civile che continuò per tutto il decennio. Iniziò un periodo di violenti scontri armati tra l’esercito algerino e le milizie del Fis clandestino con terribili massacri di civili compiuti sia dagli integralisti musulmani che dai reparti speciali delle Forze Armate. Tra il 1994 e il 1998 il Paese fu scosso da numerosi attentati terroristici, interi villaggi furono devastati e morirono anche molti religiosi cattolici. Nel 1999, dopo sette anni di guerra civile, le elezioni presidenziali registrarono la vittoria di Abdelaziz Bouteflika, tuttora capo di Stato.
Filippo Re
Tratto dalla rivista “Il Dialogo-al Hiwar” del Centro Federico Peirone