Riuscite a immaginare una commedia gialla in cui a ben vedere non vi interessa poi granché di scoprire chi sia il colpevole? Assolutamente no, inconcepibile. Eppure, ricredetevi. Può succedere. Per esempio, se andate al Gioiello – repliche fino all’11, non perdetevelo – a ridere e divertirvi intorno agli intrighi che popolano Che disastro di commedia. Un testo inglese dal titolo The play that goes wrong, scritto a sei mani, gli autori si chiamano Henry Lewis, Jonathan Sayer e Henry Shields, un testo che ha esordito nel 2012 in un piccolo teatro all’interno di un pub londinese, “The old red lion”, con una sessantina di spettatori a sera per trasferirsi un paio d’anni dopo al Duchess Theatre di Londra dove è ancora in scena. Uno spettacolo che successo dopo successo ne ha fatta di strada, continuamente in salita, manco a dirlo, con doverosa esportazione, dalla Nuova Zelanda all’Australia agli States dove, con la produzione di JJ Abrams, è approdata a Broadway. Per quanto riguarda il vecchio continente, s’è aggiudicata nel 2015 gli Oliver Awards inglesi come miglior commedia dell’anno e in Francia l’anno successivo il Premio Molière, in questi ultimi mesi ha debuttato pure a Budapest e Atene. Come da noi. All’interno la storia strampalatissima, surreale, a tratti feroce nella propria nullità, di una compagnia amatoriale che tenta di mettere in scena un giallo che definiremmo di serie B, un omicidio all’interno di una villa XY, gli otto personaggi – un morto che non è poi tanto morto, un addetto alla consolle cui interessa soltanto ritrovare un cd dei Duran Duran, un domestico che si dimentica le battute e se le scrive sulla mano o sul polsino bianco, salvo poi avere le idee poco chiare per quanto riguarda l’accentazione delle stesse parole, un commissario con qualche scheletro nell’armadio, una fidanzata del morto che se la intende con un futuro cognato sempre alla ricerca degli applausi del pubblico, e che naviga in mezzo a crisi isteriche ad ogni pie’ sospinto, una scenografa che smania dal sostituirla nel ruolo, il focoso e irruente biondone che riuscirà ad attaccare il proprio parrucchino alla mensola dell’infuocato caminetto.
Già, il caminetto. Lui anche “personaggio”, come lo sono tutti gli altri angoli della scenografia. Malconci, disastrati, introvabili al momento giusto, cadenti, porte che non si aprono e finestre e tendaggi che se ne vengono giù, cornette del telefono raggiunte a fatica e a fatica tenute in equilibrio, dal momento che qualcuno le ha mal posizionate, i fogli del copione che si sparpagliano a terra, se una colonna è lì a mostrare il proprio compito di sorreggere, potete star tranquilli che al primo spintone cadrà giù e allora quel pavimento un tempo sorretto saldamente si tramuterà, al di là di ogni legge fisica, in un impraticabile piano inclinato. E poi un mare di gag, battute sbagliate, anticipate o posticipate, un sincrono di suoni e movimenti che fa quel che può, una neve che dovrebbe essere copiosa e si riduce a un paio di coriandoli o poco più lanciati con nessuna convinzione in aria. Un gran divertimento, solidissimo alla prima, con a tratti le voci degli attori a perdersi, coperte dalle risate e dagli applausi. Mark Bell è il regista deus ex machina di ogni allestimento, colui che controlla ed esige e spreme da ogni virgola ogni effetto possibile, con un rigore perfetto, con un meccanismo comico come raramente se ne vede su un palcoscenico. Certi meccanismi e un senso comico, il mantenimento di un ritmo che non ammette soste, la padronanza del luogo teatrale, il rispetto del millimetro che ogni prova attoriale impone, tutto questo attribuiamolo alla compagine che abbiamo applaudito ieri sera, superlativa, a dimostrazione che, se mai ce ne fosse bisogno – e anche in questa stagione teatrale i nomi credetemi non mancherebbero -, troppe volte i nomi di richiamo non portano con sé una professionalità e una bravura di eguale peso. È difficile recitare “male” e per avventura quando si è così bravi, così l’uno complementare all’atro, così dentro ad un ingranaggio incredibile che non fa una piega. Mai. Gabriele Pignotta, lo pseudomorto, ha ormai il suo posto nei cartelloni di Torino Spettacoli; da citare tutti gli altri, Luca Basile, Stefania Autuori, Marco Zordan, Viviana Colais, Alessandro Marverti, Yaser Mohamed e Valerio Di Benedetto, sotterrati tutti dalla catena d’incidenti che invade il palcoscenico ma che sudando le sette camicie concludono con rarissima bellezza. Da vedere, assolutamente. Per una serata in cui la politica, le ferrovie inguaiate per la neve, le imprecazioni contro il capufficio, l’ultimo bisticcio con la suocera che avete a carico non trovano davvero posto.
Elio Rabbione