Un applauso, immediatamente. Un’occasione nelle intenzioni vinta, ampiamente. Un’estate in cui chi governa la città (ma se ti volti indietro, da quanto tempo è così?) manco si sogna di inventarsi uno straccio di stagione di prosa che soddisfi gli appassionati, ecco che lo Stabile torinese s’inventa quello che nel paleolitico si sarebbe chiamato “punto verde”, un piccolo finale di stagione di 24 recite al di là della stagione ufficiale, e nel proprio gioiello del Carignano, “una sorta di Globe Theatre elisabettiano”, spiana un “prato inglese” – un nuovo palcoscenico, un piano verde che occupa e ricopre oltre la metà della platea – per far posto, a sere alterne, al Sogno di una notte di mezza estate del buon Shakespeare e al Romeo e Giulietta, nemmeno a dirlo, ancora dalla penna del Bardo. Titoli facili, popolari, adatti al palato di ognuno, due ciliegine da leccarsi i baffi, assaporate in un luogo dove la calura estiva nemmeno sai che faccia abbia, dove prendono posto (abbiamo visto e sentito) sorridenti e divertite turiste, grate per il diversivo non solo refrigerante ma anche culturale, dove alzi lo sguardo e ti accorgi dei palchi pressoché affollati di giovani e no, di coppie, di famiglie, di quanti non possono ancora stare sotto l’ombrellone, di quanti grazie ai prezzi stracciati per una sera si sono detti dai!, perché non andiamo a vederci una bella commedia? Ma. Già, perché un ma é in agguato sempre. E quel ma, per l’occasione (o ancora una volta), è in quel termine “adattamento” che spudoratamente campeggia assieme a quell’altro, “traduzione”, dovuti entrambi a chi è stato affidato il compito di guidare la nave. A chi scrive il termine “adattamento” procura quasi sempre una certa allergia, dal momento che è e rimane l’occasione per un certo velleitarismo spicciolo, la superbia d’imboccare la strada di una piena libertà, di una rivisitazione per troppi momenti campata in aria, per l’invenzione facile facile e banale nei risultati pur di far sorridere o sbellicarsi quel certo pubblico che con il Teatro ha poca dimestichezza e lavora più di pancia che di testa. Per la serie, ma che cosa abbiamo da adattare, in questo modo, Shakespeare? Se adattare vuol quasi soltanto dire un bel ciao alla logicità, al modernismo a tutti i costi, inseguire senza riuscirci un progetto che finisce per fare parecchia acqua, allora è meglio “non adattare”. E questo lo diciamo non perché si vogliano tenere gli occhi chiusi davanti alla più piccola innovazione (chiamiamola così?): forse soltanto perché non ci ritrovi quella sincera e logicissima serata di intelligente adattamento, facciamo un esempio che credo molti abbiano saputo apprezzare, quello che abbiamo gustato nel recente Don Giovanni di Binasco. Altrimenti si potrebbe anche scivolare verso quell’alzata di scudi degli abbonati del Regio che ha tagliato qualche testa e che ha suggerito messinscene di una certa maggiore fedeltà.
Prendete per primo (e soprattutto) il Sogno affidato agli ardimenti di Elena Serra. Cui non par vero di poter tagliuzzare a man bassa, di qua e di là, di avere a disposizione tanto ben di dio di superficie calpestabile e allora dai! che ti faccio correre quei poveri undici ragazzi in lungo e in largo, di dare il via con un incomprensibile quanto strassordante “eins zwei drei vier fünf” e alla musica dei Laibach, “ala musicale – mi viene spiegato – del collettivo artistico-politico Neue Kunst Slowenische, di bloccarsi sui tiramolla delle due coppie di amanti, sulla passione di Titania per il bell’asino illuminato da cento piccole luci, sui troppo farfugliati interventi, lontanissimi alla vista, delle figure regali. Di poter rinunciare alla compagnia di bravi ateniesi che dovrebbero preparare gli amori di Piramo e Tisbe in occasione delle nozze di Teseo e Ippolita per convogliare il tutto in una coppia di caciarosi militi partenopei che come il gioco delle tre carte ci scoperchiano con l’inganno i cinguettii amorosi di Giulietta e Romeo, di escogitare nuove frasi, allegre, attuali, allettanti all’orecchio di oggi. Alla fin fine, subdole. Allora, è davvero poco se qualcuno si chiede soltanto perché. Non che non debba confessare i suoi piccoli peccatucci, ma Marco Lorenzi è di un’altra pasta e la “sua” storia degli amorosi di Verona ti risolleva un po’ lo spirito. Sfronda anche lui, anche lui con spavalderia adatta, anche lui assorda con musiche senza ritegno ed esige da alcuni decibel vocali che lasciano il tempo che trovano (l’incazzatura di papà Capuleti), fa appollaiare il principe della città su di un’alta impalcatura manco fosse un deejay impazzito (perché a un certo punto la poesia dei due ragazzi, con tanto di allodola e usignolo, va a finire nella bocca di costui?), anche lui attualizza il linguaggio e gioca furbescamente su qualche personaggio, infiorettandolo di sottolineature dialettali, perde una buona occasione in primo luogo con la morte di Mercuzio. Ma lui ci mette un’anima dentro e una convinzione e un disegno e a sua contemporaneità regge appieno, veste i propri ragazzi come vestono i ragazzi di oggi, i duelli sono le scazzottature e peggio di oggi, la sfrontatezza portata all’eccesso sfocia in certa tragicità che viviamo, il sangue che vistosamente cola è quello dei fatti di certe discoteche o di certe strade. Un’adolescenza senza tempo, che oltre il termine funesto nel freddo della cripta che tutti conosciamo gli lascia restituire i due giovani suicidi alla vita di ogni giorno, vivi ed eterni. Di gran bellezza i costumi di Alessio Rosati e Aurora Damanti e qui winner is il Sogno. Con smisurata passione – chapeau a tutti – gli attori di oggi e maggiormente in via d’affermazione per domani. Qualcuno eccelle, altri hanno ancora necessità di qualche positiva limatura. Guardiamo ai primi. Beatrice Vecchione come Giulietta si conferma quell’attrice ormai a tutto tondo che già in altre occasioni ci è enormemente piaciuta, ben posta sulla scia Morelli/Lazzarini sino alla Rohrwacher di oggi, Raffaele Musella incarna con bravura, con i guizzi giusti, Robin e Frate Lorenzo, Marcello Spinetta esce dal gruppo nelle vesti di Romeo e soprattutto come Lisandro innamorato, come il Tebaldo di Vittorio Camarota, certe eccezionalità di Angelo Tronca come Mercuzio e come Bottom vengono smorzate ahimè da chi lo ha diretto, offrendogli su un piatto poco d’argento una traduzione e un adattamento. Repliche sino al 22 luglio.
Elio Rabbione
Nelle foto:
Per il “Sogno”, in ordine: Barbara Mazzi e Marcello Spinetta; Vittorio Camarota e Raffaele Musella; Marcello Spinetta, Barbara Mazzi, Christian di Filippo, Annamaria Troisi.
Per “Romeo e Giulietta”, in ordine: Beatrice Vecchione e Marcello Spinetta; Barbara Mazzi, Beatrice Vecchione, Giorgia Cipolla; Marcello Spinetta (di schiena), Vittorio Camarota.
Per le immagini degli spettacoli Copyright Manuela Giusto