“Un affare di famiglia” di Kore’eda Hirokazu Palma d’oro a Cannes

Un’”altra” famiglia nel lucido e doloroso sguardo del regista giapponese

Pianeta Cinema a cura di Elio Rabbione

Kore’eda Hirokazu guarda ancora una volta all’interno della famiglia nel suo natio Giappone, lo fa all’indomani di titoli che gli hanno dato la notorietà internazionale, Little Sister, Padre e figlio e Ritratto di famiglia con tempesta. Quella famiglia la camuffa, la sconvolge, la sovverte. Parlandoci altresì di valori e di certezze perdute, di classi sociali, di povertà, in un paese che ti appare lontano dagli schemi ormai avvalorati nel mondo occidentale. Ti spinge a dimenticare del tutto il significato che nella morale corrente le si riconosce, sceglie altre basi e differenti componenti, cancella la naturalezza del vecchio istituto e schiaccia i legami di sangue, inaspettatamente per lo spettatore, se non a tratti attraverso impercettibili segnali, antepone con serafico candore la scelta della convivenza. Ti confonde: e noi per larga parte della storia siamo ingannati, portati a ragionare e a “vedere” secondo gli antichi canoni. Inizialmente Kore’eda ci mostra Osamu e il giovane Shota – ancora un padre e un figlio – mentre entrano, in un rituale ormai consolidato, in un supermercato, per scambiarsi sguardi protettivi, per tener d’occhio questo o quel commesso, per afferrare quel che possono – Shoplifters (“I taccheggiatori”) è il titolo del film per il mercato inglese, da noi Un affare di famiglia”, Palma d’oro al Festival di Cannes nel maggio scorso. Un’azione innocente, abituale, dettata dalla necessità di sfamarsi e sopravvivere. Nel ritorno a casa, incrociano una bambina che sembra abbandonata, in strada, e decidono di condurla nella loro casa, piccola, disordinata, piena di oggetti ingombranti, dove vivono con una moglie/madre, con una nonnina che sfama il gruppo con il gruzzolo della sua misera pensione, con una ragazza che vende se stessa in localini di quart’ordine: ma in quella miseria c’è calore, in quel gruppo c’è solidarietà. Per non incappare nell’accusa di rapimento, il giorno dopo si pensa per un attimo di riportare la bambina là dove è stata trovata ma certe cicatrici sulle braccia spingono il gruppo a decidere diversamente. E allora si sviluppano e si consolidano altri nuovi rapporti, forse certi affetti, le giovani donne le diresti sorelle in vena di confidenze, padre e figlio in una allegra gita al mare si lasciano andare anche a pensieri intimi, la ragazzina scopre la felicità e la nuova attività di ladruncola. Ma tutto profuma di utopia, un salto nel vuoto taglia la storia in due parti nette (un taglio che coinvolge le interpretazioni, le luci e le immagini, il montaggio, anche il modo di raccontare suona diversamente) e razionalmente vuole sbriciolare una facciata di perfezione che rivela menzogne e squallori. Quella “famiglia” è lo specchio, nel suo chiuso, della povertà materiale e non solo che si riversa nei panorami che il regista verso il concludersi della storia ci propone, l’angusto degli spazi, la neve, gli alti caseggiati.

Una filosofia inaccettabile in un alternarsi senza freni di giusto e di sbagliato, di si deve e non si deve, che Kore’eda sa raccontare non certo come una favola bensì come un mondo alternativo, diverso e sbagliato ma costruito su angoli di poesia che pervade la casa e chi la abita, di naturalezza e di semplicità delle azioni di ogni giorno, di quotidianità in cui gli attori entrano con facilità, riflessioni che l’autore offre allo spettatore guardando con lucidità al mondo di oggi.