PICCOLE GRANDI STORIE

"…E la Lippa roteava nell’aria”

LIPPA2Mai capitato di sentirvi dire, in varie forme dialettali, “…ma vai a giocare a lippa ! “, che era poi – spesso – un modo come un altro per esprimere una scarsa considerazione nei mezzi e nelle qualità del prossimo ?

Riordinando i ricordi dei giochi d’infanzia, da “praticare” all’aperto, nei prati ( dove non c’erano vetri da rompere e, di conseguenza, non c’erano nemmeno botte da prendere..), un posto di tutti rispetto va assegnato – per simpatia e particolarità – alla “Lippa”. Mai capitato di sentirvi dire, in varie forme dialettali, “..ma vai a giocare a lippa ! “, che era poi – spesso – un modo come un altro per esprimere una scarsa considerazione nei mezzi e nelle qualità del prossimo ? Un modo, a dire il vero, piuttosto improprio ed ingeneroso vista la discreta abilità che era richiesta ai praticanti della “lippa”, vera antesignana – secondo alcuni – del baseball. Ma, tralasciando l’aspetto storico sul quale ritorneremo dopo, vediamo in che cosa consiste il gioco. Si comincia dagli attrezzi, che sono due: il bastone e la “lippa” vera e propria, entrambi di legno, non di rado ricavati da un manico di scopa o, in mancanza, da qualsiasi ramo purché diritto ( era molto diffuso l’uso del nocciolo, flessibile, sinuoso e robusto ). La “lippa”, di solito lunga una spanna e mezza, aveva due punte che permettevano – colpendone una con il bastone – di alzarla e batterla al volo per “tirarla” il più lontano possibile. E la “lippa”, roteando nell’aria, tesseva la fitta trama del gioco. Il bastone – lungo più o meno un metro – aveva due funzioni: da una parte quella, già detta, di “battere” la lippa e dall’altra quella di fungere da unità di misura nella determinazione dei punti. Il gioco era aperto a tutti, da due ragazzi in su, e ci si accordava innanzitutto sulla scelta del campo, sulla direzione del tiro e sul numero dei punti necessari a vincere la partita.

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Prima di dare il via alla sfida bisognava “segnare” la base, cioè un cerchio di circa 150 centimetri di diametro, da tracciare “grattando” il terreno con il bastone, muovendosi su se stessi in senso rotatorio come in una sorta di “compasso vivente”. Sorteggiato l’ordine di battuta dei giocatori, la “lippa” poteva cominciare, ovviamente rispettando le regole che non erano poche.Vediamole, nella successione dei “gesti”. Il battitore si poneva dentro la base con lippa e bastone in mano, gli avversari si disponevano ad una distanza – ritenuta dagli stessi “giusta” – per poter valutare direzione e lunghezza del tiro. Il battitore, che disponeva di un solo tiro, chiedeva l’apertura del gioco pronunciando una parola convenzionale ( da noi diceva “lippa” ) e gli altri gli esprimevano il loro consenso rispondendo con un’altra parola ( nel caso che ricordo era “dàgla”, cioè dagliela.. intendendo la bastonata ), ma potevano anche rispondere diversamente, per ingannare il battitore e – secondo le regole – eliminarlo qualora questo avesse iniziato ugualmente il gioco. Tuttavia il battitore, a scanso di spiacevoli sorprese, sventava le insidie mettendosi al riparo con la formula liberatoria ed universale del ” Tutto vale! “. Sgombrato il gioco da preliminari e trabocchetti, avveniva il lancio della “lippa” che, colpendola a mezz’aria, si voleva mandare il più lontano possibile dalla base. Se sbagliava il tiro lo si dichiarava “cotto” e doveva lasciare il passo a chi seguiva. Se il tiro era valido, gli avversari tentavano di acchiappare al volo la “lippa” e se l’operazione aveva successo il battitore era “cotto”. Nel caso che la presa al volo falliva bisognava recuperare la “lippa” dal punto di caduta e rispedirla al battitore che doveva , a sua volta, ribatterla al volo e mandarla il più lontano possibile per “difendere” la base e poter avere ancora in mano gioco e battuta. Scontato che, se non riusciva, la cosa si faceva più complessa: se la “lippa” cadeva entro il perimetro della base o entro la misura di un bastone dalla medesima, il battitore era “cotto”; se cadeva oltre queste misure il battitore aveva diritto a tentare tre tiri alzando e battendo al volo la “lippa” dal punto in cui era caduta. I punti venivano calcolati in modo piuttosto singolare. Se il battitore andava a segno, proponeva lui stesso un numero di punti equivalente ( a sua valutazione ) a tante misure di bastone quante ne intercorrevano tra la base ed il punto di caduta della “lippa”. Gli avversari accettavano la proposta ? I punti venivano assegnati.

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Gli avversari però potevano fare una controproposta ( ovviamente inferiore.. ) : se il battitore l’accettava quella diventava legge, se la rifiutava si arrivava alla misurazione. Se la distanza risultava più vicina a quella proposta dal battitore i punti che aveva richiesto venivano raddoppiati, se viceversa era più giusta la controproposta il battitore restava con un palmo di naso e all’asciutto. Un bel regolamento, vero? In realtà il gioco della “lippa” offriva tre varianti: quella soltanto “battuta”, in cui si cercava di far arrivare la “lippa” in un certo punto o alla massima distanza – con delle gare molto semplici in cui ognuno giocava per se – , la versione della “lippa” in cui un giocatore la tirava e l’altro doveva afferrarla al volo ed infine la “lippa” tirata, afferrata e rilanciata, la più complessa ed anche la più bella, che abbiamo prima descritto. Ed è lei, per tornare al punto di partenza, la probabile antenata del baseball. Il gioco più famoso d’America – che in origine venne chiamato Town-ball, successivamente New York Game e dal 1839 con l’attuale Baseball – deriva dal Cricket portato in America ( come il Bowling… ) dai coloni inglesi. E se il “nobile Cricket ” discendesse dalla popolare “lippa”? Il cerchio sarebbe chiuso. E tutto torna, com’è successo per il Baseball. Dall’Europa si trasferì in America dove si rifece un nome per poi tornare nella terra d’origine. In Italia l’americano Max Ott ( forse una modifica anglofona di Massimo Ottino.. ), nel 1919, a Torino, organizzò la prima squadra italiana di Baseball. Una prova della “capacità migratoria” della lippa ? Di quella lippa che in Italia aveva molti nomi a seconda delle regioni ( dall’Aré Brusé fiorentino alla Bricca canavesana ) ed una comune radice antica ? Non saprei rispondere. So però che mentre mister Ott organizzava il Baseball tricolore con più o meno le stesse regole della “lippa”, i nostri bisnonni ed i nostri nonni ( allora ragazzini ) almeno qualche volta provavano la battuta al volo. E non è detto che non riuscissero a fare anche un bel po’ di punti.

Marco Travaglini

 

Circolare, circolare

CASALE1Piazza del Cavallo, uno dei luoghi più antichi di Casale Monferrato, era il punto di incrocio di via Saffi, via Duomo, via Roma e via Lanza. A dir la verità portava il nome di Giuseppe Mazzini  ma per i casalesi, in ragione della presenza, al centro, della statua equestre di Carlo Alberto, era rimasta la Piazza del Cavallo. Un sabato mattina, giorno del mercato contadino, la gente incuriosita guardava, con stupore e diffidenza, il semaforo nuovo di zecca che proprio quel giorno prendeva servizio. Accanto al palo zincato che sorreggeva il marchingegno con i tre segnali luminosi  stazionava, autorevolmente impettito nella sua uniforme, un imponente vigile urbano. Da Gravellona Lomellina a lì, la distanza non superava i quaranta chilometri e Arduino Borlazza, alla veneranda età di novantuno anni, non mancava – quando la bella stagione lo consentiva – di salire sul primo autobus del mattino e, con poco più di un’oretta di viaggio, togliersi lo sfizio di bighellonare nell’area del mercato, curiosando. Anche quel giorno, complice la tiepida giornata di fine primavera, fece così. Attratto dal capannello di persone che sostava nei pressi del semaforo il vecchietto, curioso più che mai, si mise a guardare pure lui. Quando il vigile, allo scattare del verde, ordinò a gran voce “Circolare, circolare”, attraversando  la strada, Arduino lo seguì con passo deciso. Giunto dall’altro lato della via, oltre le strisce bianche del passaggio pedonale, il vigile si voltò e, al successivo scattare del verde, si riavviò dall’altra parte della strada intimando con risolutezza il suo “Circolare, circolare”. Il vecchio Borlazza, messo in soggezione, toltosi il cappello iniziò a grattarsi la testa, perplesso. Deciso a non far figure, all’ordine dell’uomo in divisa, non esitò a seguire  con fare remissivo il pubblico ufficiale. La stessa scena si replicò due, quattro, sei volte quando, ad un certo punto, ilcasalevecchietto, rosso in volto e con le gambe doloranti, sbottò: “Ma basta là , con stò circolare, circolare. Non circolo più un bel niente e non mi muovo più di qui. Sono venuto per vedere il mercato ed  è tutta mattina che mi fa andare avanti e indietro.  Ho le gambe che mi fanno male e chissà cosa penserà mai mia moglie che mi aveva detto di aspettarla da questa parte della strada per il tempo che andava all’emporio. Sono stanco, caro il mio vigile. Spenga pure quella roba lì che fa le luci tanto io non mi  muovo più, l’ha capito?”. L’agente di polizia municipale gli rivolse lo sguardo di coloro che incontrano, loro malgrado,  uno fuori di testa e pensò proprio ad uno svitato. Intanto, raggiunto dalla signora Clementina, il vecchio Borlazza  prese sotto braccio la moglie e disse: “E’ meglio che andiamo via. Ho visto poco o niente ma mi sa che d’ora in poi andrò solo alla fiera di Mortara perché qui hanno messo delle macchine che fanno le luci e il vigile fa correre tutti di qua e di là della strada. Secondo me è una maniera come un’altra per sfinirci e farci venire un colpo, così risparmiano anche sulla pensione”.  “Ma dai, dici?”, rispose la moglie. E lui, tirandola per un braccio, borbottò: “Dico, dico. Dico di sì. Quello lì è matto. Magari lo è diventato a forza di guardare quella macchina con le luci che ti tira scemo. Dai, andiamo via”.

Marco Travaglini

Andar di frodo, oltre il confine, in barba alla frontiera

Un “sfrusadur” è colui che praticava il mestiere dell’andar di frodo  (“ da sfroos”, nel nostro dialetto sui laghi ), grazie al contrabbando. Rinaldo è stato una specie di “teorico” della materia. Ricordo ancora quella volta che mi tenne una specie di “lezione”. La parola già ti dice tutto. Cosa significa,  “contrabbando” se non contravvenire al “bando”, cioè alla legge che esige un tributo minacciando una pena?

contrabbando lago svizzera

“E’ l’esistenza stessa di un confine e dei  vincoli  per attraversarlo che è sempre suonata, nella mia testa, come un invito a  fregarmene, a farli fessi, insomma a  frodarli. Vedi…quando  chi esercita un potere, qualunque esso sia, decide che per andare  da una parte all’altra di un territorio, è necessario pagare un prezzo, io sto con quelli che s’ingegnano ad  escogitare  il sistema di passare senza pagare un bel niente. E’ una questione di principio e di libertà”. Ribelle e poco incline alle regole, Rinaldo è stato anche uno dei tanti “sfrusit”. Un “sfrusadur” è colui che praticava il mestiere dell’andar di frodo  (“ da sfroos”, nel nostro dialetto sui laghi ), grazie al contrabbando. Rinaldo è stato una specie di “teorico” della materia. Ricordo ancora quella volta che mi tenne una specie di “lezione”. “La parola già ti dice tutto. Cosa significa,  “contrabbando” se non contravvenire al “bando”, cioè alla legge che esige un tributo minacciando una pena? E allora, noi contrabbandieri realizzavamo un guadagno  violando la legge. Ad una condizione, ovviamente. Che il ricavo fosse tale al punto che il costo del passaggio del confine della merce fosse inferiore al prezzo che si pagava praticando le vie legali. Alla faccia del dazio e delle gabelle, capisci? “. Se obiettavo che era, dopo tutto, qualcosa di illegale e che lui ed i suoi amici erano, nei fatti, dei fuorilegge, si metteva a ridere.“Ma va là. Non dire stupidagini. Noi, ilago svizzera contrabbandieri fuorilegge?  Guarda che il contrabbando è una forma di   ribellione alle imposizioni. Eravamo un po’ come dei Robin Hood ed i canarini della Finanza sembravano  gli sgherri del sceriffo di Nottingham”. Quando parlava del “confine”, s’illuminava. Era stato il teatro naturale delle sue gesta da contrabbandiere e si capiva che , in fondo, l’aveva fatto più per l’avventura che per il guadagno. Quando capitava di trovarci, soprattutto nelle serate d’inverno, al caldo  dell’Osteria dei Gabbiani, davanti ad una bottiglia di vino, mi raccontava, le “regole” del mondo degli “sfrosit” .“ Devi sapere che spesso capitava che contrabbandieri e guardie di confine si trovassero nella stessa osteria prima di “andare al lavoro”, e  devi sapere anche che le guardie non avevano “le fette di salame sugli occhi” ma, consapevoli che i loro paesani erano costretti per fame a fare un viaggio pericoloso sui sentieri di montagna o sulle barche,  chiudevano spesso un occhio e, a volte,  anche tutti e due. In quel caso lasciavano che noi spalloni attraversassimo il confine, limitandosi a sequestrarci una parte della merce, segnalando sul rapporto che era stata confiscata ad ignoti.  A volte eravamo noi stessi a consegnare alla Finanza una piccola parte del carico, ma solo per salvare il resto”. Mi racconta di come ilbisogno aguzzasse l’ingegno. Addirittura, sul lago di Lugano,  avevano sperimentato un piccolo, rudimentale sommergibile a pedali che viaggiava giornali svizzerasott’acqua :il “sigaro del Ceresio”. Era il 1948 e veniva usato per trasportare merce di contrabbando attraverso il lago. Tre mesi di “servizio”, tre viaggi al giorno per quasi tre quintali di merce a viaggio. Poi, nel novembre di quell’anno, a Porlezza, sulla sponda comasca, il “sigaro” –che andava avanti indietro – portando roba di qua dal confine ed “esportando” in Svizzera riso, carne ed alcolici, l’hanno beccato, sequestrandolo. Risalendo la nostra “quota parte” di catena alpina , tra la Valle Anzasca ed il passo di Gries, per poi scendere fino alle rive del lago Maggiore, attraversando le valli Vigezzo e Cannobina, erano ben 36 i colli e canaloni di confine frequentati,più o meno  assiduamente, dai contrabbandieri. E non erano certamente incustoditi. Lo stesso valeva per le sponde dei laghi “confinari”, come il Maggiore e il Lario, quello di Como. Per farsi un’idea basterebbe leggere il rapporto di un ufficiale al comando del IV° Circondario Svizzero, dove risulta che nel 1935 ,tra il lago Maggiore e il passo di Nufenen -il passo della Novena-,  sul versante italiano del confine, erano schierate ben 579 tra guardie di finanza e militi confinari e su quello svizzero 159 guardie doganali. Ma la fonte principale era sempre Rinaldo che, davanti ad un bicchier di vino,aveva la lingua sciolta e s’appassionava nel raccontare.“Nel contrabbando, oltre a quello del sale che ci porta indietro nella notte dei tempi, si possono distinguere tre periodi che prendono il nome dalle merci che andavano per la maggiore:  dalla seconda metà dell’ottocento fino al primo dopoguerra troviamo il periodo del caffè , poi c’è stato quello del riso che copriva gli anni della seconda guerra mondiale ed un terzo , quello delle sigarette e del tabacco,  che è durato dagli anni ’50 fino a poco dopo gli anni ’60. A dire il vero c’é stato anche il periodo della Resistenza e dell’opposizione al fascismo quando, insieme alle bricolle da trenta e piùlago svizzera contrabbando chili portate in spalla, molti dei nostri “sfrosit” diventarono anche dei “passatori”, aiutando ebrei,antifascisti e militari alleati a superare quella frontiera Elvetica che equivaleva alla salvezza”. Le “fasi del contrabbando” , com’era facilmente intuibile,prendevano il nome dal tipo di merce che “passava” la frontiera: caffè, riso, sigarette ma anche saccarina, dadi, cioccolata, zucchero, orologi, tabacco sfuso,  cartine per sigarette, accendini , scarpe, liquori,  stoffe, calze di nylon e tutto quello che veniva richiesto sul mercato di entrambe le nazioni. Con tutti i rischi del caso. Si correvano i pericoli sui sentieri percorsi di notte, quando le nubi  si mangiavano le stelle: bastava mettere un piede in fallo e si finiva giù, negli strapiombi. Dal tardo autunno a inizio primavera, in quei lunghi inverni, capitavano delle bufere di neve con tremende slavine che hanno seppellito molta gente. Sul lago, invece, si remava nelle notti senza luna, meglio ancora se c’era un tempo da lupi, a volte dentro a tempeste che strappavano preghiere e maledizioni. C’erano anche le sparatorie e  si contavano in quel caso feriti ed anche caduti sotto il piombo della guardia confinaria. Ma il rischio più frequente era il sequestro delle merci con annessi sei giorni di galera  ed una salatissima multa che poteva variare dal doppio fino a dieci volte il valore della merce sequestrata, nonché –  durante i periodi bellici – l’arruolamento forzato. Chi non aveva i soldi per lago svizzerapagare la multa scontava un  ulteriore giorno di carcere ogni 10 lire di ammenda. Se erano in due potevano rischiare sei mesi di prigionia per espatrio clandestino,  che salivano a cinque anni nei casi di recidiva e quando  venovano “pizzicate” più di tre persone insieme. Ma la vita su questo pugno di terra e acqua tra Italia e Svizzera era così e l’aria, il vento, il lago e i contrabbandieri non badavano alle pietre che segnavano il confine. “Ora, dai. Allungami un po’ di foglia di Brissago”. Rinaldo si è sempre di
vertito un mondo  nel rivolgermi parola usando il linguaggio degli sfrosadori. Condividendo un’attività che richiedeva complicità e segretezza, lui ed i suoi “soci”  parlavano in “codice”.Quando  “commerciavano” in  “ossa di morto” si riferivano allo zucchero. Il “coniglio bianco” era la  saccarina e le “bionde” le sigarette, mentre per “foglie di Brissago” s’intendeva il tabacco. Dalla manifattura tabacchi del paesino ticinese, appena oltre confine, dove lavoravano centinaia di donne, uscivano dei sigari straordinari ed un tabacco dall’aroma inconfondibile che – nei giorni di vento – passava allegramente il confine senza per questo pagar dazio. Con le “bricolle” in spalla e le pedule ai piedi, organizzati in “combriccole” guidate da un caposvizzera lago al servizio di un “impresario”, i contrabbandieri cercavano di fregare le pattuglie dei  “canarini” della Finanza (dal colore giallo del simbolo dell’arma). “Erano bei tempi, caro mio. Tempi di fame e di fatica ma avevamo una gran voglia di vivere. Oggi, invece, sono diventati tutti tristi, un po’ matti, nervosi. Corrono,non sorridono quasi mai, sono sempre ingrugniti, insoddisfatti. Quasi fanno fatica a salutarsi e quando lo fanno, non sembrano nemmeno sinceri. A volte mi viene voglia di mettere ancora in acqua la barca, come ai bei tempi e remare finché non sono al largo per poi stendermi sul fondo e stare lì, tra l’acqua e il cielo, a farmi cullare dalle onde”.

Marco Travaglini

 

Soldati  e Bonfantini, i “due Marii” a Corconio

I due scrittori scelsero questa  località come luogo di volontario “esilio rigeneratore” per uscire da “storte vicende sentimentali”

 

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Corconio è  una frazione di Orta San Giulio, in collina, raccolta nella sua malinconica bellezza. Lì, tra il 1934 e il 1936, Mario Soldati e Mario Bonfantini trascorsero un lungo periodo in questo incantato e solitario borgo che guarda sul lago d’Orta. I due scrittori scelsero questa  località come luogo di volontario “esilio rigeneratore” per uscire da “storte vicende sentimentali”. Nel 1934 Mario Soldati aveva 28 anni, era già stato in America, si era sposato con Marion Rieckelman  – una sua allieva della Columbia –  e da qualche tempo scriveva sceneggiature per la Cines-Pittaluga di Roma. Ma, sfortunatamente, era incappato in Acciaio, film tratto da un soggetto di Pirandello, diretto da Walter Ruttmann: più che un insuccesso, un verocorconio2 disastro. Si ritrovò licenziato, senza una lira e per di più anche un po’ sospetto agli occhi del Regime. Così prese una decisone netta, pur essendo per indole poco incline agli atti estremi: lasciò Roma e raggiunse l’amico Bonfantini a Novara e da lì,  in bicicletta, pedalando su strade sterrate e polverose “con ritmo quasi da professionisti” arrivarono al “buen retiro”  di Corconio, stregati da panorama tra il lago, le montagne e le antiche case di pietra. Quel posto divenne il suo luogo dell’anima, del vino, delle carte : ci rimase due anni, lontano da Roma e dal cinema, in compagnia di Mario Bonfantini  ( “vivendo la scrittori” ) e della gente del posto. Nel racconto “Un lungo momento magico” lo scrittore torinese rievocò le circostanze che lo avevano spinto a cercare rifugio sul Lago d’Orta. Lo fececorconio1 dopo la morte di Bonfantini, “ponendo fine al silenzio su quell’esperienza dovuto forse a quella forma di pudore cui si ricorre a volte per proteggere le cose più care”. In quel tempo Soldati scrisse il suo primo e bellissimo libro, “America primo amore”, diario e racconti del giovanissimo intellettuale europeo della sua esperienza di vita negli Stati Uniti, tantissimi articoli e vari altri scritti corconio4tra cui la prima parte del “La confessione”. Soggiornarono all’albergo della famiglia Rigotti , quasi adottati da quella famiglia, dove Angioletta e sua sorella Annetta, la “Nitti”, mandavano avanti l’attività , perché il padre, pa’ Pédar, “badava alla campagna, alle bestie, a fare il vino, a distillare la grappa clandestina, a commerci vari, a divertirsi e battere la cavallina”. Corconio, cento abitanti allora, fu un luogo importante per Soldati e Bonfantini, i “due Marii”, capace di offrire sorprese e meraviglie tra le pieghe più insospettabili della vita quotidiana, in prossimità del lago e sotto il “meraviglioso miraggio” del Monte Rosa. Lì condivisero con la comunità del piccolo borgo la vita, lenta e piacevole, scandita dalle partite di bocce e dalle “lunghe giornate al tavolino, ore interminabili proficue, difese e ovattate dal silenzio delle lente nebbie”. Conoscono personaggi eccentrici, ascoltando i loro racconti: il Nando, un “matto pacifico” che credeva di essere un genio della politica e si riferiva a se stesso in terza persona; il Cesarone, un uomo che aveva venduto sua moglie a un ricco capo mastro emigrato negli Stati Uniti.corconio5 Insomma, fu un periodo d’incontri e di lavoro in un atmosfera dove Mario Soldati, cresciuto negli ambienti della borghesia sabauda, scoprì i valori della “civiltà contadina”, restandone influenzato. Soldati riconobbe l’importanza di quell’esperienza , parlando dell’antica amicizia con l’altro “Mario”, quando scrisse:..il momento più importante della nostra amicizia e forse anche della sua e della mia vita è tra l’autunno del 1934 e la primavera del 1936, quando il destino ci appaiò, ci assecondò nella scelta di un volontario esilio sul lago d’Orta: quell’autoconfino rigeneratore, quel delizioso paradiso perduto e ritrovato che accogliendo lui e me, Mario il vecchio e Mario il giovane, ci salvò in extremis da strazianti, estenuanti, storte vicende sentimentali e restituì l’uno e l’altro al suo verocorconio7 se stesso. Fa bisogno di dire che recuperammo allora, e conservammo poi per sempre, il senso della realtà, della bellezza, della vita”. Sul finire della lunghissima parentesi romana, a metà degli anni Cinquanta, poco prima del suo “rientro al Nord”, Soldati frequentò assiduamente le zone della giovinezza come “villeggiante fuori stagione”, sul lago d’Orta e sul Maggiore, dove nacquero – ad esempio – i racconti de “La Messa dei villeggianti”. A Orta e Corconio, Mario Soldati tornò anche per girare nel ’59 “Orta mia”, un magnifico cortometraggio della collezione Corona Cinematografica, di grande ed elegante narrazione, girato in un superbo Ferraniacolor. Già nel  1941 aveva scelto il “suo” lago per realizzarvi le scene conclusive del film “Piccolo mondo antico” e, successivamente, vi ambientò alcuni dei suoi “Racconti del Maresciallo”. Il filmato di “Orta mia” si chiude sulla terrazza di una vecchia osteria corconio3affacciata sul lago, richiamando il luogo che aveva accolto i due amici tanti anni prima. Per una significativa coincidenza, anche Mario Bonfantini, nel suo volume “Il lago d’Orta” , del 1961, scelse di congedarsi dai suoi lettori con la stessa immagine di Soldati, descrivendo così l’albergo Rigotti: “Una modesta casa di belle linee dove era fino a non molti anni fa una cortese locanda: v’è chi sostiene che dalla sua lunga terrazza si gode, in ogni stagione, la più bella vista del lago”. Ora l’albergo non c’è più, ma tutto il resto è rimasto più o meno come allora.Dalla Chiesa di S. Stefano alla seicentesca villa della famiglia Bonola. La stazione , col quel rosso ferroviario dei muri sempre più smunto,da tempo è una casa privata: lì, i treni che sferragliano sulla Domodossola-Novara, non si fermano più da una vita. Ma se i muri  delle case potessero parlare chissà quanti racconti avrebbe in serbo Corconio. Storie per chi sa ascoltare e non ha fretta. Come non ne avevano, a quel tempo, i “due Marii”.

Marco Travaglini

ORTA MIA (Prima Visione Tv) (Italia 1960, colore; dur. 17’39”)  Regia: Mario Soldati   (Italia 1949, b/n.) https://www.youtube.com/watch?v=KQgVbkeAlT4

 
Orta può davvero considerarsi come un luogo soldatiano per elezione. E’ lì che l’autore, dopo aver passato a Corconio due anni della sua vita – dal 1934 al 1936, in sodalizio con Mario Bonfantini –  si recava spesso e vi ambientò  momenti importanti della sua ricca produzione letteraria.  ORTA MIA è un magnifico documento storico…