Marzo 2019

Svolta nel giallo dei Murazzi: “Ho ucciso io Stefano Leo”

AGGIORNAMENTO Said Machaouat, cittadino italiano di origini marocchine, nato nel 1992 ha confessato e ha fatto trovare l’arma del delitto, un coltello, in una cabina elettrica di piazza d’armi. Gli inquirenti stanno facendo tutte le verifiche, ma pare proprio che il colpevole sia lui. Aveva perso il lavoro, la compagna non gli avrebbe fatto più vedere i figli e passava la notte nei dormitori. Durante l’interrogatorio ha detto: “L’ho ucciso perché ho visto che era felice, non lo sopportavo”. La vittima sarebbe stata scelta a caso.
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A poche ore dalla marcia in ricordo del giovane ucciso a coltellate ai Murazzi, una clamorosa svolta nelle indagini sull’omicidio di Stefano Leo, il giovane assassinato lo scorso 23 febbraio vicino al Po. In queste ore si starebbe procedendo al fermo di un ragazzo indiziato di delitto: è un 27enne italiano di origini marocchine con alcuni precedenti penali. I carabinieri avrebbero trovato riscontri dalle confessioni dell’uomo che  si è presentato spontaneamente in Questura. Trasferito al comando dei carabinieri  è stato interrogato alla presenza di un legale.

Torino, a Porta Nuova il Treno Verde

L’amministrazione comunale firma il Manifesto per una mobilità a zero emissioni

É arrivato alla stazione Porta Nuova di Torino il Treno Verde di Legambiente e Ferrovie dello Stato Italiane, campagna realizzata con il patrocinio del Ministero dell’Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare. Il convoglio ambientalista sarà in sosta alla stazione del capoluogo piemontese fino al prossimo 1 aprile.

Un viaggio lungo i binari della Penisola per raccontare la mobilità sostenibile, ridurre l’inquinamento (secondo il principio europeo “chi inquina paga”), puntare sull’intermodalità e sull’elettrico, a partire dai trasporti pubblici e dalla sharing mobility, con l’obiettivo di dar voce ai tanti protagonisti (aziende, start up, istituzioni, associazioni e territori), esempi di buone pratiche nella mobilità sostenibile che percorrono già questa strada.

Sabato è stata inaugurata ufficialmente la tappa torinese, alla presenza di Alberto Unia, Assessore all’Ambiente del Comune di Torino, Federico Mensio, Presidente della Commissione Ambiente di Torino,Fabio Dovana, Presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta, Davide Sabbadin, Portavoce del Treno Verde, Marco Della Monica, direttore regionale di Trenitalia, Cristian Aimaro di Amiat Torino,Domenico Rinaldini di Ricrea, Giovanni Mura e Alberto Scagliola di Enel X e Carlo Mannu di Bosch.

Sul Treno Verde, autorità, cittadini, aziende e start up stanno firmando il Manifesto per una mobilità a zero emissioni, dieci impegni per cambiare volto alle aree urbane e dare avvio a questa rivoluzione, a partire dall’adozione in ogni città di ambiziosi Piani urbani di mobilità sostenibile (Pums): spostarsi con il mezzo di trasporto più utile e senza inquinare; promuovere viaggi a piedi; riconquistare zone da togliere alle auto, per ridisegnare lo spazio come bene comune, puntando innanzitutto sulla sicurezza; muoversi con più mezzi e con la sharing mobility per una mobilità socialmente sostenibile e con zero inquinamento.

È accaduto anche  a bordo della quarta carrozza dove, su proposta di Legambiente, l’assessore all’Ambiente della Città di Torino, Alberto Unia, ha firmato il Manifesto: “Siamo molto contenti che anche un esponente dell’amministrazione comunale abbia firmato – ha affermato il portavoce del Treno VerdeDavide Sabbadin – questa è l’undicesima regione nella quale le istituzioni hanno abbracciato il nostro documento, che delinea una nuova mobilità sostenibile e possibile. Per noi è un primo passo simbolico verso l’Italia che cambia”. In città la mobilità a “zero emissioni” – ossia gli spostamenti a piedi, in bicicletta o e-bike, con i mezzi pubblici a trazione elettrica, compresi i treni urbani – rappresenta già oggi il 40% degli spostamenti cittadini. Non è poco. La mobilità sostenibile a Torino, dunque, ha una buona base di partenza per l’obiettivo “emissioni zero” entro il 2030, così come Legambiente chiede all’amministrazione.

L’arrivo del Treno Verde in Piemonte rappresenta anche l’occasione per un confronto sul nuovo Piano Aria, recentemente approvato dalla giunta regionale: “Attendevamo questo provvedimento da almeno quattro anni – ha dichiarato il presidente di Legambiente Piemonte e Val d’Aosta, Fabio Dovana – ci aspettavamo un documento un po’ più ambizioso, in grado di vincere la sfida contro l’inquinamento atmosferico. Il piano è comunque uno strumento imprescindibile, che dev’essere poi calato nelle varie realtà. Per questo, adesso tocca ai sindaci fare di più”.

Torino è una delle città italiane per le quali la Commissione Europea ha deciso, tre settimane fa, il deferimento alla Corte di Giustizia UE per il mancato rispetto della Direttiva sulla qualità dell’aria, in particolare per quanto riguarda i limiti massimi consentiti per il biossido di azoto.

La qualità dell’aria del capoluogo piemontese, che sarà approfondita con la presentazione dei dati sul monitoraggio del Treno Verde a Muoviamoci Bene, il secondo Forum per la Mobilità Nuova in Piemonte in programma lunedì 1 aprile, è un elemento fondamentale da valutare nel provvedimento di revisione dellaZona a traffico limitato (Ztl), attualmente al vaglio dell’amministrazione comunale: “Il provvedimento in corso di scrittura va nella giusta direzione – ha evidenziato Federico Vozza, vicepresidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta – ma vogliamo stimolare l’amministrazione ad essere più coraggiosa, per non rischiare che la revisione non produca gli effetti sperati, e non venga compresa dalla popolazione. In altre città, come a Milano, l’Area C ha effetti positivi in termini di qualità dell’aria e di congestionamento del traffico”.

Morte sulle strade: vittime una diciottenne e un ventenne

DALLA PUGLIA 
Due giovani sono morti e un terzo ragazzo è rimasto gravemente ferito in un incidente stradale la scorsa notte nei pressi di Bitonto. Per cause da accertare, il giovane alla guida di una Fiat Punto Evo ha perso il controllo  sfondando il guard rail in una curva. L’auto è poi finita in una scarpata ribaltandosi. Hanno perso la vita un ragazzo poco più che ventenne e una diciottenne. Un terzo giovane è stato soccorso da un’ambulanza del 118 e trasferito al Policlinico in gravi condizioni. A dare l’allarme una coppia di amici che viaggiava su un’altra auto.

Anarchici: uova di vernice e maschere antigas tra il materiale sequestrato

C’è un poco di tutto tra il materiale sequestrato sabato 30 marzo dalle forze dell’ordine in occasione della manifestazione anarchica internazionale a Torino

La polizia di Stato, ed in questore Francesco Messina nel tirare le somme dell’azione di prevenzione (di cui abbiamo già riportato a parte) ha anche reso noto il materiale che è stato sequestrato e, tra questo, c’è davvero di tutto:
Nr.222 torce a fuoco da segnalazione
Nr.15 fumogeni piccoli
Nr.5 fumogeni grandi
Nr.10 bottiglie da 50 cl piene di benzina
Nr.143 maschere antigas
Nr.89 filtri per maschera antigas
Nr.32 occhiali a tenuta stagna
Nr.120 paia di guanti
Nr.11 parastinchi
Nr. 86 caschi
Nr. 23 giubbotti di colore nero
Nr. 17 pantaloni di colore nero
Nr.43 barattoli vernice spray
Nr.10 martelli
Nr.3 forbici da elettricista
Nr.1 cesoia allungabile
Nr.1 piede di porco
Nr.1 martello rompi vetro
Nr.12 palle in acciaio
Nr. 1 chiave a cricchetto
Nr. 1 cacciavite
Nr.8 confezioni da 30 uova piene di vernice (tot. 240)
Nr.22 uova piene di vernice ricoperte da cera
Nr. 6 pannelli in plexiglass collegati tra loro e muniti di maniglie, al cui esterno era stato affisso una striscione recante la seguente scritta “PER UN MONDO SENZA FRONTIERE NE’ AUTORITARISMI – NI PATRIE NI PATRON – NI SALVINI NI MACRON – ALL COPS ARE BORDERS – REBELLION AND SABOTAGE”
Nr. 1 striscione recante la seguente scritta “ MALP – MORTE ALLA POLIZIA – CONTRO TUTTE LE AUTORITA’.

Il Tor.


 
 

Verona, gli opposti estremismi e la Dc

Sin da ragazzo, dai corsi di formazione alla politica guidati dai “maestri” della sinistra Dc e da autentici cattolici democratici e popolari – nel mio caso da Carlo Donat-Cattin a Sandro Fontana, da Guido Bodrato a Luigi Granelli – ho imparato sostanzialmente 2 cose, tra le molte che si potrebbero citare quando si parlava di fede e politica e del rapporto tra i cattolici e la politica. Innanzitutto la fede, quando diventa un fatto pubblico, non può mai trasformarsi in un randello da scagliare contro l’avversario. Perché altrimenti si corre il rischio, peraltro concreto, che proprio la fede diventa intolleranza, fondamentalismo e integralismo. In secondo luogo la fede di una persona o di un gruppo di persone che si riconoscono in un movimento politico o partitico, non può mai essere strumentalizzata e piegata per un fine di mero consenso elettorale. Se in un passato lontano, o meno lontano, è stata utilizzata per questo fine non è una buona ragione per consolidare quella deriva e quella degenerazione. Ora, per fermarsi al convegno di Verona sulla famiglia al centro di violente e sgangherate polemiche, noi abbiamo assistito non solo a quei due rischi che denunciavo all’inizio ma anche alla riproposizione, attorno ad un tema etico, religioso, culturale e politico così delicato e così complesso, del ritorno degli “opposti estremismi”. Opposti estremismi che è stato talmente semplice verificare e toccare con mano al punto che erano anni, se non decenni, che non assistevamo più a queste contrapposizioni frontali e persin violente, appunto. Un cliché che, purtroppo, ha accompagnato lo sviluppo e la crescita della stessa democrazia nel nostro paese dove una destra clericale e integralista si contrapponeva spesso ad una sinistra laicista, libertaria con profonde venature anticattoliche e senza esclusione di colpi. Una delegittimazione reciproca dove il tutto veniva sacrificato sull’altare di una incomunicabilità preconcetta e pregiudiziale. Però, e qui c’è la profonda differenza tra ieri e oggi, si registra purtroppo l’assenza – e lo dico senza alcuna tentazione nostalgica – di un movimento/partito capace di declinare sino in fondo la laicità dell’azione politica, di manifestare pubblicamente la propria ispirazione cristiana senza derive clericali o confessionali, e Infine di saper dispiegare un progetto politico senza alcuna ipoteca integralistica. Insomma, manca un partito come la Democrazia Cristiana, o il più striminzito Partito Popolare di Martinazzoli capaci di battere gli “opposti estremismi” attraverso la politica, la laicità dell’azione politica, la cultura della mediazione, il riconoscimento del pluralismo e la predisposizione a comprendere le ragioni dell’avversario senza puntare al solo annientamento del “nemico”. La scomparsa di questi elementi discriminanti per una vera cultura democratica segnano anche il ritorno della destra contrapposta alla sinistra, degli integralisti contrapposti ai laicisti e della fretta a demolire e a distruggere gli avversari piuttosto che privilegiare il confronto e il dialogo. Ora, è inutile rimpiangere un passato che non ritorna più. Semmai, e al contrario, la responsabilità di questa regressione democratica e di questa caduta della qualità della democrazia italiana, è solo ed esclusivamente di quei cattolici democratici popolari – cioè di chi è stato educato con quella cultura e con quello stile – che hanno sistematicamente abdicato alla propria “mission” e anche al proprio dovere di democratici e di cristiani. Anche dal convegno di Verona e dalle roventi polemiche che l’hanno accompagnato, dunque, arriva un messaggio preciso e quasi perentorio. Forse è giunto il momento di ripartire davvero. A livello politico con la riscoperta e la riproposizione di una “politica di centro” e di una “cultura di centro”; a livello culturale con la riattualizzazione del pensiero cattolico democratico e popolare e a livello personale con il recupero di uno “stile” che ha caratterizzato il comportamento e il modo d’essere dei grandi statisti e leader democristiani quando si affrontavano temi delicati e difficili come quelli che in questi giorni sono stati al centro di mille polemiche e di radicali contrapposizioni.
Giorgio Merlo

Elisa e il sax di Colin Stetson

Gli appuntamenti musicali della settimana

Lunedì. Al Jazz Club è di scena il vocalist Samuele Spallitta. Al Milk suona il trio di Antonello Salis.
Martedì. Al Jazz Club si esibiscono i Kasmata, mentre al Blah Blah sono di scena i Lay.
Mercoledì. Allo Splendor di Aosta il duo cubano Sosa-Caniiizares.
Giovedì. Al Circolo della Musica di Rivoli suona il sassofonista americano Colin Stetson con Paolo Spaccamonti. All’OffTopic si esibisce il quartetto Cara Calma. Al Jazz Club suona il trio di Sergio Di Gennaro. All’Hiroshima Mon Amour è di scena Edda. Al cine-teatro Gobetti di San Mauro si esibisce la cantante Elis Prodon accompagnata dal pianistaFabio Gorlier.
Venerdì. Al Jazz Club si esibisce il quartetto Women in Swing. Al Folk Club suona il chitarrista Francesco Piu. Al Sociale di Valenza è di scena il trio di Andrea Pozza con ospite il sassofonista Harry Allen. Al Magazzino di Gilgamesh si esibisce il cantante inglese Jason McNiff.
Sabato. Al Jazz Club sono di scena i Nolamee. All’Auditorium del Lingotto arriva Elisa ( in replica domenica e martedì). Al Blah Blah sono di scena i Destroy All Gondolas. Allo Ziggy si esibiscono i Von Neumann.
Domenica. Sempre allo Ziggy sono di scena gli Sherpa. All’Hiroshima Mon Amour suona il Canzoniere Grecanico Salentino.
 

Pier Luigi Fuggetta

I bianconeri trovano un’Empoli agguerrita

Se l’intento era quello di agguantare i tre punti e nello stesso tempo preservare i senatori in vista degli impegni di Champions, ebbene, scopo raggiunto. 

Il pubblico dello Stadium, però, avrebbe voluto vedere anche una parvenza di gioco da parte della propria squadra; invece, per tutto il primo tempo ha visto in campo solo l’Udinese.Complice un infortunio per Dybala in allenamento poco prima dell’inizio della gara, Allegri sceglie di partire con un 4-4-2, con Bernardeschi e Mandzukic davanti, Emre Can e Matuidi a guardia delle fasce.L’Empoli è ben impostata ed agguerrita, si propone in avanti senza timore reverenziale: già al 22′ Krunic mette paura alla difesa bianconera con un destro radente che finisce fuori per un pelo.Al 30′ ci prova la Juve: Marione Mandzukic incorna di testa in area su cross di Matuidi, ma Dragowski fa un miracolo e salva la propria porta.Il possesso palla, comunque, è sempre a favore dell’Empoli (che, tra l’altro, ha un gioco simile a quello dell’Ajax, ndr), mentre Madama arranca e fatica a contenere gli avversari; l’unico ad essere sul pezzo è, ancora una volta, Bernardeschi, ma da solo poco può fare.Il primo tempo si chiude con i fischi del pubblico, che non comprende il motivo per cui, con CR7 e Dybala indisponibili, non sia sceso in campo Kean – in forma strepitosa – dal primo minuto al posto di Mandzukic, per il quale continua il periodo difficile, nonostante qualche buona sponda per i compagni.Nella ripresa la Juve tenta di cambiare ritmo: Matuidi prima e Bernardeschi poi arrivano pericolosamente davanti alla porta avversaria, ma non la centrano. Allegri a questo punto cambia modulo e passa al 4-3-3, arretrando Can accanto a Rugani e Chiellini, poi al 16′ st sostituisce un impacciato Alex Sandro con Spinazzola, applauditissimo.Per la gioia del pubblico, al 24′ st esce Matuidi per Kean, che dopo appena tre minuti segna l’1-0 : lancio lungo dalla sinistra di Chiellini, raccoglie Mandzukic che fa sponda e Kean  infila Dragowski di destro.Poco dopo, la Juve ha l’occasione per il raddoppio: palla recuperata da Pjanic sulla tre quarti, Kean si trova solo davanti alla porta, ma Dragowski arpiona con il braccio destro e sventa il tiro.Sul finire, entra Caceres per Bernardeschi e si abbassa il baricentro della Juve, Can va a fare la mezz’ala difensiva; in tal modo però, l’Empoli prende campo e possesso palla, e negli ultimi dieci minuti ridiventa pericolosa, tanto che riesce a guadagnarsi un insidioso calcio di punizione dal limite, che per fortuna non incide.Al di là dei tre punti conquistati, si sottolinea la duttilità di Emre Can – giocatore sempre pronto, anche se oggi ha commesso, nel finale, un paio di errori – , la continuità di Bernardeschi (l’unico dei suoi ad aver tenuto la testa alta anche nell’inguardabile primo tempo) e il periodo d’oro del giovane Kean.

#finoallafine.

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Rugiada Gambaudo

 

 

 
 

 

 

 

Inviato da Libero Mail per iOS

Nessun incidente al corteo anarchico

ll capo della polizia, prefetto Franco Gabrielli si è congratulato telefonicamente con il questore di Torino, Francesco Messinaper il dispositivo di sicurezza messo in atto in occasione della manifestazione anarchica di ieri. “E’ stata garantita la sicurezza dei torinesi in una giornata davvero complessa”, ha detto all’ANSA il questore che ringrazia  i funzionari e tutti gli uomini che hanno preso parte al servizio. “Ho una squadra di fuoriclasse”, ha commentato. Il questore osserva che alcuni partecipanti controllati prima della manifestazione “Non avevano intenzione di rispettare le regole  e per questo sono stati bloccati e identificati e denunciati”. Avevano con sé spranghe, caschi e passamontagna. Su Twitter la sindaca Chiara Appendino, nei confronti della quale gli anarchici ieri  hanno scritto minacce sui muri della città per l’operazione dello sgombero dell'”asilo”, ringrazia le forze dell’ordine per “la gestione dell’ordine pubblico  davvero impeccabile”.

(foto archivio)

La terra grama e il “rosso generoso”

Comando Supremo, 4 Novembre 1918, ore 12..La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta…L’Esercito Austro-Ungarico è annientato.. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza… Firmato:Armando Diaz”

Il “bollettino della vittoria” l’aveva sentito leggere ad alta voce dal dottor Giubertini. Il medico condotto, tra una visita e l’altra, non mancava mai l’appuntamento con il quartino di vino e il mazzo da quaranta delle carte da scopa. La Società di Mutuo Soccorso si trovava all’angolo tra la strada principale e la viuzza che conduceva al Municipio. Dietro al bancone, intento a mescere il vino, l’oste occupava gran parte dello spazio, grande e grosso com’era. Alvaro, per tre lunghi anni aveva servito la Patria, passando da un fronte all’altro, schivando il piombo austriaco dai monti del Cadore fin giù nelle golene del Piave.Non sapeva nemmeno lui come aveva fatto a portare a casa la pelle. E per di più intera, senza nemmeno una ferita grave se s’escludeva quello sbrego sul gluteo sinistro che gli era stato impresso da una fucilata presa di striscio, partita dallo schioppo di un fuciliere imperiale del Kaiser sul Monte Piana, nelle Dolomiti di Sesto. Non doveva essere tra i migliori tiratori di Cecco Beppe, per sua fortuna. Nonostante la ferita,aveva tenuto la posizione e s’era guadagnato una medaglia di bronzo,per altro non richiesta. Sentir raccontare con tanta enfasi della guerra uno come il dottore che aveva schivato il fronte,restando nelle retrovie,al servizio   medico dello Stato Maggiore,gli provocava acidità di stomaco.Avrebbe voluto alzarsi, schiaffeggiarlo e cacciarlo fuori dall’osteria ma quello era pur sempre il medico condotto e lui solo un contadino di montagna che la guerra aveva reso ancor più povero di quanto già non fosse. Così,tenendo a freno la lingua,svuotò il bicchiere e s’alzò dal tavolo,salutando con un cenno del capo gli altri avventori.Fuori l’aria era fredda.Scendeva dalla Val Chiusella e era talmente brusca da far rabbrividire. Per fortuna s’era portato appresso,uscendo di casa,il pastrano che aveva trovato in quella malga sull’altipiano dove si era rifugiato durante una delle giornate più difficili di quella brutta guerra.Non seppe mai a chi fosse appartenuto e nemmeno cosa avesse indotto il legittimo proprietario a lasciare incustodito quel prezioso capo di vestiario. Una fuga improvvisa o una disgrazia? Chissà. Non era di foggia militare e non portava mostrine.
 

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Fatto sta che quell’inaspettato rinvenimento gli fu molto utile e lo considerò alla stregua di una vera e propria grazia piovuta dal cielo.Cessate le ostilità tornò a casa dopo un lungo viaggio dove alternò alle rare tradotte ferroviarie le più frequenti e lunghe marce a piedi. In paese trovò rovine e miseria.I suoi vecchi, Albino e Giuditta, erano morti all’inizio dell’ultima estate di guerra. Se n’erano andati a distanza di pochi giorni l’uno dall’altra. La cascina era in pessime condizioni e il terreno stava andando in malora. La campagna attorno a Pavone era sempre stata generosa con chi non avesse paura di spaccarsi la schiena nel lavorarla ma in quei tempi grami anche la terra era diventata avara. Pareva caduta preda di una maledizione che l’aveva resa micragnosa, dura come pietra,con quelle zolle che resistevano alla zappa come le teste chiodate di crucchi dalle Dolomiti al Carso. Si preparava un Natale amaro. Di pace, finalmente, ma anche di fame. Nei primi tempi si era fatto aiutare da un suo zio. Orgoglioso com’era, patì molto quella situazione nonostante il fratello del padre fosse una persona buona e generosa.Dissodò il campo, seminò quel poco che aveva, imbastì persino delle novene perché anche la fede,che pure non l’aveva mai visto così attento ai precetti, poteva aiutare in frangenti come quelli, scansando scoramento e disperazione.Raccolte in qualche sacco le patate seminate in quel terreno ostico, aveva provato a venderle a Bairo ma era stato accolto con ostilità da un gruppo di tirapere ,i tirapietre. Era quello, in parola e nei fatti, il soprannome di quelli che,come abitudine non propriamente ospitale,accoglievano i forestieri a suon di pietre.Ridevano, quei pazzi. E gridavano “a l’é bianch ‘me la coa dël merlo”,è bianco come la coda del merlo. Alludevano al fatto di averlo conciato per le feste,impaurendolo.Altro che vender patate! L’avevano fatto nero ed era già tanto l’esser riuscito a scappar via. Non erano anni facili da nessuna parte e il Canavese non faceva differenza. Imperversavano le rivalità tra gli abitanti dei vari paesi. Per uno di Foglizzo, paese dei mangia rane (ij cagaverd ) era dura andar d’accordo con quelli di San Giusto Canavese che chiamavano, poco amichevolmente, ij singher ,gli zingari. E ij biàuta-gambe , i dondola-gambe, cioè i fannulloni di Rivarolo ironizzavano – ricambiati con gli interessi – sui gavasson di Ozegna, simulando i colli ingrossati dalla tiroide. Un certo rispetto se l’erano guadagnati quelli di Rivara,ij strassapapé,gli “stracciacarte“. Apparivano agli occhi dei più come persone ben fornite degli attributi giusti grazie a una lontana leggenda secondo la quale nel lontano ‘500,durante la stesura di un atto notarile,un cittadino strappò il documento dalle mani del notaio e lo distrusse davanti ad una piccola folla.
 

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L’avido notaio aveva la pessima ma per lui redditizia abitudine di riportare cifre maggiorate in favore dei   suoi conti,ingannando i poveri contadini, spesso analfabeti e incapaci a far di conto. Una storia, come tante altre, che veniva raccontata e tramandata da quelli di Favria, ij tajastrass, quelli che ti tagliavano i vestiti addosso, facendosi allegramente i fatti altrui.Alvaro, a testa bassa, continuò la sua lotta con quella terra taccagna.Per ottenere un minimo di raccolto dovette impiegare il massimo degli sforzi,dimostrandosi molto più generoso di quanto non fosse quella campagna che lo strizzava come un cencio, rubandogli fino all’ultima stilla di sudore.Un giorno, al mercato di Ivrea, mentre cercava delle sementi e una gerla nuova per il fieno necessario ai pochi conigli che aveva iniziato ad allevare, incontrò Giovannino Bedini, anch’esso contadino, proprietario di un po’ di terra dalle parti di Torre Balfredo.Originario del vercellese e non più giovane d’età,Giovannino si era piegato la schiena fin dai tempi dell’infanzia aiutando i genitori nel ricavare da quella terra poco generosa il minimo che servisse per vivere.O meglio, per sopravvivere. Eppure,a detta dei più (e bastava uno sguardo attorno ai suoi campi per trovare conferma) le rese non erano poi così malvage. Forse dipendeva da lui la scarsa capacità di far fruttare le semine tra quelle zolle scure. Per di più un vecchio zio di nome Giacomone gli aveva lasciato in eredità alcuni filari di vigna sulla serra morenica di Piverone, poco distante dalla sponda nord occidentale del lago di Viverone.I due contadini, seduti al tavolo dell’osteria della Pesa, discussero a lungo e dopo il terzo “mezzino”,Bedini avanzò una proposta. Se Alvaro fosse stato dell’idea, a suo dire, avrebbero trovato un modo per aiutarsi a vicenda.Come? Dando una mano a Giovannino nel tentativo di ottenere da quel terreno una miglior resa. Così i due,diventando soci e lavorando nella vigna, si sarebbero divisi i proventi della vendita dell’uva che, finita la vendemmia,avrebbero consegnato alla cantina sociale. Alvaro accettò, ormai sfinito dai tentativi di ricavare qualcosa di buono da quel suo terreno quasi sterile.In poco tempo il sodalizio diede a entrambi delle buone soddisfazioni. A parte la società della vigna, gli altri lavori erano pagati a giornate e rendevano bene ad Alvaro.
 

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La produzione,copiosa e di qualità, suddivisa tra verdure, frutti degli alberi (per lo più ciliegie,pesche e susine) e persino dei fiori, nella piccola serra che era stata impiantata, era tale da soddisfare le necessità dei   negozietti che richiedevano i loro prodotti. Ad Alvaro,dopo aver masticato tanta rabbia e fatica per un tozzo di pane,pareva che la sfortuna avesse imboccato un’altra strada, allontanandosi da lui. Anche Giovannino era contento. La signora Gina, proprietaria dell’emporio, pagava la merce con una puntualità da far invidia a uno svizzero e così pure la fioraia, il gestore del Osteria del Sirio e la cantina sociale.Ma furono le vigne a far scattare il colpo di fulmine e l’idea. Come se in testa avesse avvertito lo schiocco di una bocciata al volo, Giovannino subì un vero e proprio colpo di fulmine, una sensazione d’innamoramento a prima vista talmente forte che gli salì un nodo in gola fino a costringerlo a gorgogliare,tra le lacrime,la sua immensa felicità. I lavori nel vigneto erano impegnativi in tutte e quattro le stagioni. Ogni giorno c’era qualcosa da fare,nella vigna o nella piccola cantina che era stata ricavata accanto al fienile della cascina dei Bedini. Potature, innesti, lavori d’aratura tra i filari per far respirare le zolle eliminando le erbacce, accorciamento dei tralci troppo lunghi. E poi, quando l’uva era matura, la vendemmia. Tutta a mano, grappolo per grappolo. In cantina,dove il mosto fermentava e il vino dell’anno prima s’imbottigliava, quel moto perpetuo impegnava Alvaro, taciturno e sgobbone come sempre, a fianco di Giovannino al quale non difettava mai l’entusiasmo.Era talmente contento il buon Bedini che Alvaro non se la sentì di esternare i suoi dubbi e le perplessità. L’uva diventò così vino, il “loro” vino. Non tanto ma nemmeno poco, di due qualità diverse, raccolta in un paio di tini acquistati nell’astigiano e successivamente nelle quattro botti di media taglia. Giovannino sosteneva si trattasse di un prodotto straordinario. Assaggiandolo provava una punta di commozione e le lacrime gli rigavano il volto arrossato.Con la sua voce stentorea, tra un singulto e l’altro, ripeteva incespicando nelle parole: “Sono due vini buonissimi. Uno è piccolo e brioso e l’altro è grosso e muto. Mescolati danno un vino che farebbe resuscitare un morto”. E beveva, soddisfatto.Provarono a imbottigliarlo e ne ricavarono quasi quattrocento fiaschi da due litri e mezzo, come s’usava a quel tempo.Il primo l’assaggiarono per festeggiare l’evento, destinando i restanti alla vendita. L’etichetta molto semplice che fecero stampare in una tipografia di Strambino raffigurava un grappolo d’uva sormontato da una scritta in blu: “Rosso generoso”. E anche il prezzo stabilito fu generoso, “da osteria” come precisò Giovannino.In poco meno di due settimane, tra locande e osterie con mescita, “piazzarono” tutta la loro produzione. Quel vino giovane incontrò subito il favore di molti. Fresco e piacevole al palato, andava giù che era una bellezza,accompagnando salumi e tomini,acciughe al verde e larghe fette di polenta.Solo i più esperti tra i bevitori storsero il naso,preferendo evitare quel vino troppo fermentato.
 

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I problemi sorsero quasi subito,con grandi fughe degli avventori verso i servizi alla turca o al riparo di qualche boschetto.Quel vino, scendendo allegro e vivace negli stomaci e negli intestini,provocava spiacevoli e dolori inconvenienti.E così, il “Rosso generoso” ebbe – dal punto di vista commerciale – vita breve. Il povero Giovannino , terreo in volto, non prestò ascolto alle critiche di quegli “ignorantoni selvatici” che avevano “la bocca come il sedere” e non capivano “un accidenti di come doveva essere un buon vino”, abituati com’erano a “bere qualunque cosa l’oste mettesse loro davanti al naso”. Fatto sta che i due soci ebbero comunque da discutere per un giorno e una notte interi. Cosa accadde davanti al camino del cascinale non si seppe con precisione ma è certo che quel giorno coincise con la fine della carriera di commercianti di vino di Anselmo e Giovannino. Quest’ultimo decise di curare quel po’ di vigna per produrre vino per sé,“alla faccia di quei bifolchi”. Alvaro, abbandonati i filari, continuò a svolgere il suo lavoro nei campi. I due si spiegarono e il buon Bedini comprese le ragioni che avevano indotto il contadino a tacere il suo parere pur nutrendo dubbi sul loro vino. “Non che fosse cattivo, per carità. Ma era troppo giovane e non ancora pronto per l’imbottigliamento ma tu,Giovannino, eri talmente contento che non ho trovato il coraggio di contraddirti”.Bedini interpretò l’intenzione di non turbare la sua felicità come una prova d’affetto e d’impagabile amicizia. Così il sodalizio tra i due continuò, consentendo a entrambi di sbarcare il lunario, ricavando persino qualche soldo da “mettere in cascina”, sottintendendo una certa dose di buonsenso. Così come si fa con il fieno per assicurare il cibo agli animali nelle stalle durante l’inverno, così si doveva fare pensando a quanto questi denari potevano tornar utili più avanti.Un piccolo investimento quotidiano per i periodi di “magra”, aiutava a non farsi trovare impreparati. E con tutto quello che era capitato ai due, in guerra e in pace, diventati sempre più amici con il passare degli anni, era quanto mai necessaria una certa dose di saggezza.
 

Montagna, Uncem: "Rafforzare il territorio"

Il Presidente Uncem Piemonte Lido Riba esprime soddisfazione per l’approvazione della nuova legge montagna da parte del Consiglio regionale del Piemonte
“Un testo moderno, che attua quanto scritto nelle ultime leggi nazionali come la 158 sui piccoli Comuni, la 221 sulla green economy e il Codice forestale – commenta Riba –  Il testo è stato costruito anche con le proposte di Uncem e delle altre associazioni degli enti locali. Ringrazio il Presidente Chiamparino, gli Assessori Valmaggia e Reschigna, tutti i Consiglieri regionali e i dirigenti dei settori per il grande lavoro fatto”. 
La nuova legge rafforza le Unioni montane, con specifiche competenze che le Amministrazioni gestiscono insieme. Garantisce salvaguardia del territorio, prevenzione del dissesto, congiuntamente allo sviluppo sociale ed economico della montagna. Permette una migliore gestione del patrimonio forestale, promuove artigianato, cultura, mestieri e turismo nelle valli alpine e appenniniche. Permette un’azione degli Enti locali con la Regione per difendere e migliorare i servizi alla collettività, a partire da trasporti, telefonia mobile, poste, tv, combattendo il digital divide con infrastrutture più moderne. Favorisce il recupero dei borghi alpini e appenninici, la valorizzazione delle risorse energetiche attraverso green communities, cooperative di comunità, comunità energetiche. 
“Dobbiamo lavorare con le Unioni montane per attuare fino in fondo i contenuti dell’articolato – afferma il Presidente Uncem – Le Unioni devono essere più stabili, per poter generare sviluppo, strategie durature, fare investimenti. Il fondo regionale per la montagna deve essere usato per questo. I Sindaci crescono ogni giorno nella capacità di lavorare insieme. Questa nuova legge lo dice chiaramente. È in perfetta continuità con la legge 16 del 1999 con la 11 del 2012 e con la 3 del 2014. Non smonta, ma armonizza e inserisce nuovi temi. Uncem la definisce ‘legge montagna 4.0‘. Guarda al futuro ed è smart. Unisce e non divide. In questa direzione vogliamo lavorare. Le Unioni, il lavoro tra Sindaci e Amministrazioni, con imprese e terzo settore, deve generare coesione e opportunità. Lasciamo la burocrazia da parte. Questa nuova legge ci spinge a essere concreti, risolve problemi immediati e allo stesso tempo getta semi per nuovi percorsi di futuro. Da oggi lavoriamo per attuarla”. 
 
(foto mario Alesina)